I dilemmi della pedagogia difensiva. I contrasti attorno alla riforma del sostegno
Scolasticisti e specialistici
La querelle non è solo organizzativa, tocca invece il cuore epistemologico dell’inclusione. A grandi spanne, si contrappongono queste due scuole di pensiero: gli scolasticistici gli specialistici. Gli scolasticisti sostengono la necessità di andare oltre la separazione tra docenti curricolari e di sostegno, si basano sul sostegno partecipato (come ad esempio con l’originale idea dei docenti “bis-abili”). Lo scopo, si dice, è creare una necessaria “speciale normalità” in cui tutti fanno inclusione. Gli scolasticisti mettono al centro la scuola comunità, capace di flessibilità per tutti in ogni momento educativo, fondata sul sostegno diffuso di attività individuali e collettive, riconoscono le abilità sia residue che “altre” delle persone disabili. Gli scolasticisti sostengono l’ipotesi di tutor pedagogici speciali di alto livello che siano di aiuto ai docenti. Rappresnetano la tendenza più vicina alla storia pedagogica dell’inclusione degli anni 70, ma anche una tendenza purtroppo oggi minoritaria.
Gli specialistici sostengono invece che sia necessario l’irrobustimento specialistico dei docenti di sostegno con lauree separate (che risponderebbero al bisogno di superare un certo dilettantismo di molti docenti), e didattiche speciali mirate, che a loro dire sono la pre-condizione per l’inclusività. Gli specialistici partono dalla persona con disabilità e accentuano la necessità di didattiche speciali riabilitative, adattate alle abilità residue. Il docente di sostegno diventa il prius dell’inclusione: secondo questa scuola di pensiero senza interventi speciali sul “sintomo” non c’è vera integrazione.
Entrambe le scuole si dichiarano inclusive, ma il contrasto è radicale: la prima scuola di pensiero critica la seconda per il rischio di medicalizzazione, la seconda critica la prima per il rischio di una confusa inclusione. Qualcuno, ingenuamente, potrebbe proporre un mix tra le due modalità secondo i casi e i tempi, ma in Italia una mediazione del genere non sarebbe possibile: chi decide? Chi dà i posti, quanti e come? La pedagogia burocratica italiana non dà credito all’autonomia professionale, alla creatività didattica, all’evoluzione stessa della persona. Da qui, guelfi e ghibellini.
La novità dello scontro, però, sta nel fatto che alla prima scuola di pensiero appartengono pedagogisti e insegnanti, mentre la seconda viene dalle associazioni delle famiglie, spesso (anche giustamente) arrabbiate per una certa cattiva integrazione. Affianca la seconda scuola un non ingenuo milieu accademico potente e seduttivo, quello di una vasta area psicologica e clinica che io chiamo dei “Big Psyco”, vicini parenti di “Big Pharma”.
La storica alleanza tra pedagogisti inclusivi e famiglie sembra incrinarsi, anche con effetti personali dolorosi. Su altri aspetti di attualità, invece, le due scuole di pensiero convergono, ad esempio per aumentare le competenze inclusive dei docenti curriculari, e per mettere in ordine il malfunzionamento della “macchina” (certificazioni, deroghe, organici, posti, integrazione dei servizi, ecc..), contro cui negli anni si sono rincorse grida manzoniane ministeriali sul dover essere, rimaste quasi sempre pure chiacchiere. Galleggiano al di qua di questo confronto, comunque serio, quelli che pensano che nulla vada cambiato, se non per aumentare i posti di sostegno e gli stipendi dei docenti, senza toccare carriere, anni di permanenza nel sostegno, mobilità, formazione, ecc.. Una visione impiegatizia che qui cito solo per il suo diffuso chiasso.
La dialettica culturale (in un’epoca litigiosa)
Premetto che sono a favore delle tesi degli scolasticisti, perché più aperte ad un’idea inclusiva a forte connotato pedagogico-sociale. Ma non nego alcune ragioni degli altri e cerco di comprenderne il senso. Lungi da me cercare una mediazione, ma vorrei provare a fare una riflessione almeno su alcune cautele comuni che dovremmo osservare tutti. In discussione sulla riforma del sostegno non vi sono questioni sindacali, ma il punto critico di un processo culturale profondo sull’idea attuale di normalità, di specialità, di inclusione, di pedagogia. Vediamo quindi gli elementi a favore e a sfavore delle due scuole di pensiero.
La scuola scolasticistica pecca certamente di ottimismo verso gli insegnanti e la sua pedagogia è parente dell’utopia. Infatti obbliga ad un ripensamento radicale del fare scuola ogni giorno e per tutti. Obbliga, ad esempio, ad una visione dell’umano come essere olistico nel suo far-si dinamico. E’ quindi una prospettiva affascinante ma difficile, anche se non impossibile, che ha il coraggio di proporre e di osare oltre.
La scuola specialistica, invece, si fonda sulle giuste lamentele delle famiglie per il dilettantismo di un certo numero di docenti di sostegno e sui docenti curricolari portati alla delega. Da qui l’idea di un docente di sostengo più robusto. Ma questa proposta rischia di esaltare una certa didattica speciale che può aumentare quell’isolazione che ho già descritto in precedenti saggi, in cui prima viene il sintomo da curare e poi la persona. Una visione che risente anche di un’epoca, meno sociale e più individualistica, e di una visione antropologica centrata sul sintomo e non sulla persona. Al centro l’individuo-problema, appunto secondo la teoria dei Big Psyco. Capisco bene che a fronte dei dilettantismi educativi, le famiglie rincorrano proposte terapeutiche para-didattiche alla ricerca del metodo salvifico, e non nego che alcune tecniche (non tutte) abbiano una certa efficacia, ma l’educazione composta da una sommatoria di tecniche terapeutico-didattiche non è un’educazione. Davanti al balbettio dei dilettanti, i Big Psyco sono nettamente più professional ed efficienti, tra loro e la pedagogia è difficile il dialogo, l’asimmetria si risolve o con conflittualità o con la sottomissione al “metodo”. Eppure la necessità di una migliore didattica inclusiva si imporrebbe, perché non si può andare avanti col dilettantismo. Il tema è delicatissimo, va risolto con molto equilibrio scientifico ed etico, che ora mi pare difficile.
Accompagna il dibattito non solo la dialettica culturale, ma anche scontri fantasiosi tipici di un’epoca litigiosa. A me è capitato di scontrarmi con un ispettore guru à la gauche, che attaccava alcune idee di Dario Ianes, uno dei principali scolasticisti, sostenendo che dietro al superamento del sostegno ci fosse solo una mossa economica per ridurre i posti. Sull’onda di questi attacchi, un gruppo di docenti ha raccolto firme per boicottare i libri di Ianes, con una bizzarra forma di intolleranza, per fortuna sciolta in poco tempo. Anche perché da Roma giungono invece molti segnali non solo di aumento dei posti di sostegno (v. ipotesi di Decreto applicativo Legge 107 comma 181 voce c) ma anche di una loro fortificazione secondo la seconda scuola di pensiero, la specialistica. Altri docenti sindacalizzati urlano alla lesa maestà contro gli specialistici perché si vorrebbe obbligare i docenti a permanere sul sostegno per 10 anni piuttosto che per i 5 tradizionali (questione sacrosanta invece la continuità). Un’onda irosa di critiche arriva agli specialistici non su aspetti pedagogici e culturali, ma per questioni di organico e di posti.
Insegnanti, inclusione e nuovo ordinamento
Le due scuole di pensiero condividono l’idea che il tema “inclusione” sia base di formazione per tutti i docenti. Entrambe le scuole di pensiero propongono super-crediti accademici per l’inclusione nella formazione iniziale. Non basterebbe una buona formazione per tentare una via scolasticistica? Ma su cosa si dovrebbero formare tutti? Conoscere la 104? Imparare una tecnica? Distinguere i sintomi? Essere collaborativi? Non è chiara ancora la natura epistemologica della formazione all’inclusione: è considerata strutturale a tutto il corso di laurea o solo parte aggiuntiva di un sapere dal “cuore buono” perché vogliamo insegnare a tutti? La questione è dirimente, pena il brulicare di studi deludenti.
La ma tesi è vecchia di anni: una cattiva inclusione deriva dall’idea dura di curricolo secondo gli epistemi disciplinari classici, per capirci far studiare Asor Rosa ad un futuro docente di lettere e non (anche) la zona prossimale di sviluppo di Vigotsky in relazione al linguaggio e alla didattica. Vigotsky va bene per le aree speciali o non è invece strutturale a un curricolo non separato in discipline e per tutti, aperto alle connessioni, con una visione costruttiva e non trasmissiva del sapere?
In questi lunghi anni di lavorio sui curricoli, Edgar Morin sembra utile solo per citarlo in un convegno, ma poi in classe si torna al trivio e quadrivio: le competenze sono una chek list moralistica di “dover essere”. L’attivismo è un relitto sepolto sotto muscolarità neo-cognitive, la scuola come luogo comunitario dell’apprendere libero è sostituita da tecniche microspecialistiche per tutte le discipline, non solo quelle speciali. Se l’insegnamento quotidiano è monolineare, anche se si usa la LIM, qualsiasi argomento sull’inclusione è illusorio.
Al centro dell’inclusione c’è invece l’idea strutturale che essa sia la natura in sé dell’educare, perché gli umani sono, grazie a Dio, tra loro tutti eterogenei, non normali o speciali, sani o malati, poveri o ricchi. Solo una didattica attiva, costruttiva e cooperativa, di per sé transdisciplinare, darebbe forza ad una scuola per tutti, non una didattica “specialissima” isolazionista. Va naturalmente bene la formazione obbligatoria in servizio, ma il tema che rimane è per farne cosa? Per migliorare la scuola da dentro o per sapere qualcosina in più di Pierino, magari tramite schemi tecnico-salvifici chiavi in mano?
Ho letto le bozze di un possibile Decreto applicativo del comma 181 della Legge 107. Qui le due scuole di pensiero sono d’accordo sulla necessità di registrare meglio tutta la macchina dell’inclusione. Noto un tono impositivo giustificato su molte cose da fare, tra cui l’obbligo della continuità dei docenti e il dovere dell’integrazione tra servizi. Ma il punto è che questo testo rischia la solita chiacchiera, la stessa che si fa tra di noi fin da metà degli anni 70. Come si fa a passare dalla teoria alla prassi? Noto che non vi sono riferimenti a sanzioni, ma la solita litania dei premi e della valutazione “de sistema”. Noto con dispiacere che questo paese continua ad assegnare la sanzione solo alla magistratura (lo jure) e non al professionale (il deos) capace di autogovernare i comportamenti dei professionisti. Anche se per gli insegnanti non vi sono organi deontologici (come ad esempio nell’ordine dei medici), qualcosa si dovrà pur dire per svegliare un sistema incapace di auto-sanarsi dalle patologie professionali interne.
Il sostegno specialista nel mercato del dolore
Non è un caso che vicino alla scuola specialistica si annidi la seduzione culturale legata ai Big Psyco, e cioè l’esplosione di ricerche e nuovi miti terapeutico-didattici tecnicistici che offrirebbero soluzioni ai problemi cognitivi, relazionali, comunicativi. La visione dell’umano è sintomatologica e non olistica, la comunità viene dopo la “cura” dei sintomi e solo con la “protezione” attraverso dispense e compense imposte da modelli clinici e perfino da leggi.
Riflettiamo, al proposito, anche sul fatto che il fronte specialistico è composto non solo da normali genitori, ma da un coacervo di associazioni e lobby cui fanno parte come soci alla pari gli specialisti Big Psyco, centrati sul sintomo e l’evidence nomotetica, nemici della chiave ermeneutica-interpretativa, produttori di tecniche speciali, cui segue la fideistica giusta terapia con adepti e fans, cattedre accademiche, leggi ad hoc, formazioni lineari: io ti insegno il mio metodo e così tu salvi il bambino. Seduzione del mito iper-scientista, dimentico della lezione di Khun sui paradigmi scientifici come ideologie.
Invece lo sguardo pedagogico conosce bene la complessità, la dinamicità, l’originalità unica di ogni essere umano, l’umana imperfezione come valore, ma davanti alla terapia salvifica e alla pillola magica del mito salutista attuale non ha parole, non ha dialogo. Ho conosciuto bene Glenn Doman negli anni ’70: si fa presto oggi a dire che era un millantatore per gli attuali Big Psyco (ma post-domaniani): era anche lui un seduttore! Big Psyco e Big Pharma fanno parte entrambi di un nuovo mercato della salute verso il quale il dibattito italiano è povero di anticorpi. Ne ho parlato due anni fa con alcuni articoli sulla “Grande Malattia”, raccogliendo simpatie diffuse, ma scarsi risultati, perché la Scienza e la Teknè del Super-Educatore in Camice bianco domina oggi sui ragionamenti ragionevoli dei limiti e i rischi dell’iper-scientismo. E’ in quest’epoca che si insedia il tema dell’insegnante di sostegno specialista. Ho già premesso che sono favorevole alla scuola scolasticistica, ma comprendo la domanda di didattiche più serie, capisco il dolore di molte famiglie per l’incontro con false inclusioni dilettanti. Ma a quali guru affideremo la super-formazione? Qui vengo al cuore culturale dell’attuale fase della pedagogia speciale.
Vedo il rischio di una lotta tra lobby non pedagogiche per addestrare migliaia di docenti alle “tecniche giuste”, cioè di medicalizzare da dentro il processo formativo con l’apologia della terapia e l’amnesia della persona olistica da educare. Vedo un rischio grande a fronte di iatrogenesi pervasive e nuovi mercati del dolore di cui ho già ampiamente trattato in altri saggi. Ho lì ripreso tesi non solo di Ivan Illich, ma anche di clinici attuali che considerano grave il proliferare di diagnosi e tecniche senza una visione ragionevole della normalità come processo relativo e non assoluto, e dell’eterogeneità come logos dell’umano, contro le separazioni dicotomiche sano-malato, normale-speciale, ecc… La seduzione della tecnica è potente, parla “scientifico”. Noi del pedagogico, invece…… Alla faccia dello slogan recitato come mantra da 20 anni “riprendiamoci la pedagogia”. Non basta dire che la formazione specialistica verrebbe fatta nelle facoltà pedagogiche, si deve riflettere sulla loro qualità intrinseca: tratteranno la pedagogia speciale come parte della normale o invece come pedagogia neo-ortofrenica? Saranno capaci i nostri pedagogisti di andare oltre la tecnica? Questi sono i miei grandi dubbi sulla formazione universitaria super-specialista.
Prendiamo ad esempio il caso dell’autismo. Poiché in quel mondo domina oggi una pratica neo-comportamentista che ha anche una relativa efficacia, per quale ragione i sostegni specialisti dovrebbero perdere tempo con diatribe universitarie quando sono già pronti i curricula americani dei vari autism teacher dei diversi metodi ABA o Teacch? Tanto vale affidare ad una lobby scientifica il monopolio dell’autismo e trattare la scuola come semplice contenitore para-terapeutico e para-didattico meno costoso di un ospedale. Sarebbe il ritorno delle ragioni pedagogiche delle scuole speciali. Che cosa nel tempo vieterebbe questo? Devo però precisare: non ho nulla contro il metodo neo-comportamentale, che è un possibile buon metodo di lavoro, va detto però che non vi sono ancora riscontri degli effetti nel lungo periodo, e comunque questo metodo non può diventare una meta-pedagogia pervasiva dell’educazione, che è ben altra cosa. Diffido da sempre dai meta-metodi. Glenn Doman mi è bastato da giovane e so che l’educazione è questione mai racchiudibile in un metodo.
I dilemmi della pedagogia difensiva
In questo scenario vorrei proporre un altro punto di vista, una riflessione sghemba rispetto a questo dibattito che rischia di fermarsi alla querelle super-sostegno sì/ super-sostegno no, per evidenziare una questione sottostante che per me è la chiave dei temi dell’inclusione: l’idea di normalità, di salute, insomma l’idea antropologica di persona nel presente.
Si sta diffondendo una nuova antropologia che porta la scuola a vivere una situazione del tutto simile a quella del mondo clinico. Davanti allo sgorgare di nuovi miti salutistici (non a caso succedanei dell’apologia dell’individualismo) e all’enorme (e caotico) sviluppo di scienze, para-scienze, tecnologie e saperi, davanti al cittadino che con Internet si costruisce un caotico mondo savant sulla cura giusta, l’operatore sanitario e l’operatore sociale si trovano coinvolti in un accanimento da super-tutela del cittadino comune come ritorsione per presunti “errori” dell’operatore professionale, che porta a conflitti continui tra cittadini e professionisti.
E’ noto, ad esempio, come la medicina difensiva costi al paese miliardi di esami inutili fatti solo per tutelarsi da querele. Allo stesso modo si registra un aumento esponenziale di cause di genitori contro le scuole per le più varie ragioni, dalle bocciature alle ore di sostegno non assegnate. La Legge 170 ha aumentato a dismisura questi attacchi da parte delle famiglie, e la scuola si trova oggi a doversi difendere sempre di più in cause difficili, in conflitti duri, con reti di tutela debolissime. Sia negli ospedali che nelle scuole sostano avvocati allupati. Per la scuola è un onere anche il nuovo modello genitoriale, che porta babbi e mamme a voler proteggere i figli contro ogni minima critica. E’ in questa crisi di fiducia tra cittadini e insegnanti che la questione disabilità, come quella dei BES, come quella delle bocciature pone la scuola davanti al dilemma: “Che faccio? E’ meglio rivendicare la mia dignitosa professionalità o lasciar perdere e quindi subire qualsiasi critica, altrimenti devo trovarmi un avvocato?” Cosa pensano i presidi, spesso arrendevoli per non avere rogne? Si dice spesso agli insegnanti “chi te lo fa fare?” Questo nuovo regime è alimentato anche da leggi, dal tradizionale parlar male dei professionisti pubblici (lavativi, ignoranti, ecc..), dal mito secondo il quale “il cittadino ha sempre ragione”. E’ in questo clima che la questione inclusione scolastica vive una nuova stagione, ben diversa da quella degli anni 70 della spinta comunitaria al credere che “insieme è meglio”. Il clima attuale al contrario afferma: “io voglio per me solo i diritti, degli altri non m’importa, anzi gli altri (ad esempio i compagni di classe) sono un pericolo”. Si chiede difesa non solo nella scuola ma anche dalla scuola. Il patto di fiducia tra adulti, tra genitori-insegnanti è ai minimi storici, ne hanno colpa naturalmente anche numerosi docenti e presidi incapaci, ma non la maggior parte degli educatori, che sono esseri normali, con pregi e difetti, dotati spesso di molto buon senso ma sempre più soli. Terribile epoca la nostra per insegnare.
Che fine ha fatto l’ottimismo pedagogico?
E’ evidente che una pedagogia solo difensiva potrebbe trovare vantaggio nell’avere insegnanti super-specialisti, cui affidare il prius dell’integrazione, e quindi tutte le responsabilità ma anche tutte le rogne che quest’ambito comporta. La delega a questo punto diventerebbe metafisica: una perfetta foglia di fico di una finta inclusione e di una dura isolazione. Eppure il pedagogico dovrebbe capire di più il perché di questa neo-antropologia e gli effetti sull’educazione. Per questo mi scuso ma devo aggiungere un’altra pagina di riflessioni.
Parto dal libro di Allen Frances Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie (Bompiani). Frances è un importante psichiatra americano, capo del gruppo che ha prodotto il DSM IV, la bibbia diagnostica americana, di cui si è amaramente pentito per l’abuso che se n’é fatto con la nascita di una bolla diagnostica. La sua critica al DSM V è ancora più dura: si inventano malattie fino al ridicolo. Avremo quindi anche in Italia la sindrome da Disturbo da disregolazione distruttiva dell’umore (DDDU), cioè la trasformazione di semplici capricci infantili in disturbo mentale. O peggio ancora l’Ansia e l’Umore depressi misti (AUDM), una “rassicurante” spiegazione psichiatrica dei nostri giorni no.
Per Frances al cuore di questa tendenza alla medicalizzazione della vita umana c’è la filosofia dell’ipersalute come descritta improvvidamente dall’OMS «la salute è uno stato di perfetto benessere fisico, mentale e sociale e non solo l’assenza di malattie». E’ proprio questo ‘perfetto’ il busillis: abbiamo spostato l’asticella della normalità troppo in alto. E’ la nostra modernità che ha prodotto il salutismo, l’ansia delle malattie, l’aumento spaventoso delle spese sanitarie e sociali: la necessità di essere perfetti! Naturalmente non è difficile capire che da questa perfezione deriva una facile proposizione di tante “malattie” (micro o macro che siano) da curare.
Si prenda il caso della dislessia. Se ricordassimo la difettologia di Vigotsky potremmo averne una visione evolutiva in chiave didattico-pedadogica che ci permetterebbe di sapere che si tratta di un problema per cui ci vuole attenzione e non critica, cura dei particolari percettivi e cognitivi e a volte anche solo capacità di aspettare che il bambino cresca un po’ in un’atmosfera di saggia pazienza in cui gli adulti accolgono il difetto come accettabile, possibile e naturale. Invece, se si cerca la perfezione hic et nunc basta chiamare la dislessia ‘disturbo’ e il difetto diventa una nuova moderna malattia. Il disturbo viene clinicizzato con scale gaussiane che ignorano le sfumature umane e la resilienza delle persone. Si allarga così il panorama dei dolori, degli ambulatori, delle terapie. Si crea un’alleanza asimmetrica tra il clinico e la famiglia che vive un problema indotto dalla modernità; si offrono soluzioni tecnicistiche, si considera la scuola ovviamente ostile e ignorante. Poco importa che si assista in questi casi ad una svalutazione delle persone e ad un continuo bisogno di cura e di attenuanti. Cala l’orizzonte d’attesa: paradossalmente il bisogno indotto di cura e la valutazione del sé come “problema” abbassa (non innalza) i potenziali naturali di molte persone.
Anche Frank Furedi ne Il nuovo conformismo (Feltrinelli) mette a fuoco l’abuso del counseling psicologico, mentre Marco Bobbio ne Il malato immaginato (Einaudi) mette a tema le invenzioni delle malattie non solo nell’ambito psicologico. E infine si veda anche il libro dello statistico sanitario Roberto Volpi L’amara medicina (Mondadori) che sfata il mito della prevenzione, vedendone i rischi di iatrogenesi. Fiorisce una vastissima letteratura critica che in pochi leggono. Altrimenti come non allarmarsi di fronte ai dati di Allen Frances che ci mostra che le forme di autismo dichiarate erano negli anni Settanta 1/1000 bambini, mentre oggi sono in un rapporto di 1/80 bambini. Certe sindromi diventano “spettri” cioè contenitori diagnostici dentro cui mettiamo tutto ciò che non sappiamo gestire.
Tornando alla questione dislessia e alla Legge 170, io non nego affatto che la dislessia sia un problema, lo è in mille forme, anche complesse, ma se oggi arriviamo al 6% di alunni certificati vuol dire che dietro questa etichetta c’è di tutto, anche l’improprio. E’ stata la legge ad aumentare le certificazioni, non l’inverso. La Legge 170 è proprio il perfetto esempio di come sia facile creare una pedagogia difensiva in risposta alla richiesta compulsiva delle famiglie ad ottenere dispense e compense. La legge 170 oltre che dannosa è paradossale: dispensare o compensare un alunno non è un diritto astratto del bambino DSA, è invece un dovere dato agli insegnanti in virtù degli art. 4,5,6 del Regolamento autonomia, oggi con la Legge 107 ancora più esaltati. Cioè dispensa e compensa sono strategie didattiche flessibili date agli insegnanti per tutti gli alunni, non solo per i DSA.
Per questo è grave la questione dei BES, cui si “concede” l’uso della dispensa e compensa, dimenticando che da sempre (e senza certificazioni) la flessibilità didattica è dovere di un sano docente (senza paturnie cliniche) verso ogni alunno che presenta difficoltà. Il tormentone della dispensa-compensa crea una continua conflittualità tra insegnanti e genitori, e l’emergere di una pedagogia difensiva sempre più triste. Gli insegnanti di buon senso si accorgono degli eccessi, vedono i ragazzi infastiditi dall’eccesso di cure genitoriali, vorrebbero creare un rapporto di “amorevole severità” senza assistenzialismo (alla Makarenko) verso il ragazzo perché sanno che l’alunno è un ragazzo prima che un dislessico, ma grava sul docente la spada di Damocle della Legge, del PDP, degli avvocati. Quindi subiscono la spinta dei genitori verso un “meglio un po’ malato che bocciato”, che è la fine di ogni ottimismo pedagogico.
Vedo al proposito che la bozza di decreto legislativo continua a considerare BES i ragazzi affetti da “situazioni sociali e culturali deprivate, ecc..”. Si continua cioè a marchiarli con stigmi assistenziali, senza comprendere che si tratta magari di ragazzi resilienti, capaci di superare i guai della vita molto di più dei nostri figli benestanti e viziati. A nome dei poveri del mondo mi ribello a questo pietismo, che mantiene i poveri in debito con la “bontà” di una legge sbagliata che “concede” di fare meno e non considera invece il diritto di auto-realizzazione accettando la fatica e la sofferenza come “normali”.
Per tutte queste ragioni, pur comprendendo le difficoltà che gli specialistici fanno emergere, credo che una laurea speciale per il sostegno, per così come ne intravedo la forma, aggraverebbe e non migliorerebbe l’inclusione scolastica di tutti, confermerebbe la deriva iatrogena e lo spostamento della scuola da luogo di educazione a sanatorio. La scuola di pensiero specialistica si richiama a una pedagogia difensiva: davanti all’incapacità di una scuola non comunitaria e inospitale, piuttosto che volerla cambiare, gli specialistici si difendono con soluzioni individuali di trattamento che alleviano almeno una personale angoscia di fallimento. Capisco, ma io sognerei ancora un po’ altro.
So che gli scolasticisti sono troppo avanti e troppo pochi, e che quindi (con mio dispiacere) perderanno buona parte della sfida, ma spero che almeno vi sia ragionevolezza sul modo di realizzare qualsiasi intervento inclusivo. Per me ogni intervento inclusivo deve partire dall’accettazione dell’imperfezione come magnifico modello umano naturale (e perfino gioioso) in cui l’accettazione del sé viene prima di qualsiasi diagnosi di qualsiasi guru.
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