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diretto da Romano Luperini

Valutare gli insegnanti

Il presente articolo è stato pubblicato su Il tetto n. 308-309. La rivista ha dedicato un dossier alla riforma della scuola, da cui alle pagine 72-79 è tratto l’articolo di Ednave Stifano,qui riportato con piccoli adeguamenti editoriali. Si ringraziano comitato direttivo ed editore per la gentile concessione.

La valutazione dei docenti secondo la 107

Uno dei temi più controversi che riguardano il mondo della scuola è quello della valutazione dei docenti. Si tratta di un argomento di cui si discute da anni e che veniva presentato come uno degli elementi principali del progetto «buona scuola» del governo. È, quindi, con curiosità che mi sono apprestato alla lettura della legge 107 del 13 luglio 2015 (in realtà più che una legge è un unico articolo con la giustapposizione di argomenti) alla ricerca delle novità in materia anche alla luce di quanto scritto nel progetto iniziale di riforma. Sono rimasto deluso perché di concreto non c’è praticamente nulla;

sì, certo si percepisce chiaramente la finalità, in termini sintetici, la meritocrazia ma nulla o quasi di definito compare nella confusione generale della legge. A tal proposito, vale la pena sottolineare come sia frequente trovare nella legge il riferimento a decreti che, poi, il governo dovrà emanare il che rafforza l’idea che questo articolo sia una scatola della quale non si conosce ancora di preciso il contenuto.

Dico questo perché ritengo che manchi, in primo luogo, la chiara espressione della peculiarità del lavoro di un docente: solo specificandone in modo chiaro il senso si può, logicamente, parlare di valutazione. Esaminiamo allora i contenuti della legge 107. Facciamo, innanzitutto, riferimento al primo comma: in esso si delinea il ruolo (definito centrale per la crescita della società) e la funzione della scuola. Quali sono i suoi obiettivi formativi? Ne riprendiamo solo alcuni: valorizzazione e potenziamento delle competenze linguistiche con particolare riferimento all’inglese, sviluppo delle competenze digitali, alternanza scuola-lavoro (ed ecco le famose tre i) ma anche potenziamento delle competenze matematiche e scientifiche, delle competenze musicali, artistiche, di quelle di cittadinanza attive e democratica con una sottolineatura dell’importanza dell’educazione interculturale e, infine, individuazione di percorsi e di sistemi funzionalità alla premialità e alla valorizzazione del merito degli insegnanti e degli studenti. Se questi sono gli obiettivi dell’istituzione scolastica appare ovvio che anche i singoli docenti debbano farli proprio e che, quindi, costituiscano una peculiarità della professione docente.

Ma entriamo più nello specifico: al comma 117 si parla della valutazione dei docenti, il riferimento è al superamento del periodo di formazione e di prova e non si notano novità rispetto alla situazione attuale. Poi si parla di valorizzazione del merito al comma 126, riferendosi ad un fondo di 200 milioni di euro a partire dal 2016 da ripartire dapprima a livello territoriale e poi tra le istituzioni scolastiche e (comma 127) si precisa che responsabile dell’assegnazione di tale fondo è il Dirigente Scolastico. A questo punto è inevitabile che si entri nel merito: come viene definito il merito? Ecco il comma 129 che sancisce a partire dal 2016/2017 i criteri per la formazione del comitato di valutazione dei docenti (che di per sé non è una novità poiché già esistente). Il comitato resta in carica tre anni, è presieduto dal Dirigente, comprende tre docenti e si differenzia nei diversi ordini scolastici: nella scuola dell’infanzia e nel primo ciclo sono previsti due genitori mentre il secondo ciclo prevede un genitore e uno studente. Infine il comitato si avvale della presenza di un componente nominato dall’ufficio scolastico regionale (può essere un docente, un dirigente scolastico oppure un dirigente tecnico).

Ma cosa devono valutare? Compito del comitato è individuare dei criteri sulla base di: a) qualità dell’insegnamento e del contributo al miglioramento dell’istituzione scolastica nonché al successo formativo e scolastico degli studenti b) risultati ottenuti dal docente o dal gruppo di docenti in relazione al potenziamento delle competenze degli alunni e dell’innovazione didattica e metodologica, nonché della collaborazione alla ricerca didattica, alla documentazione e alla diffusione delle buone pratiche didattiche c) responsabilità assunte nel coordinamento organizzativo e didattico della formazione del personale. Infine, al termine del triennio 2016/2018, gli uffici scolastici raccoglieranno i dati e forniranno al MIUR una relazione sui criteri adottati da cui dovrebbero scaturire le linee guida per la valutazione dei docenti a livello nazionale. Le linee andranno riviste periodicamente.

Che cosa significa insegnare?

Allora proviamo a capire: un gruppo di sette persone deve definire dei criteri di valutazione, il cui primo elemento di riferimento è la qualità dell’insegnamento. Questa affermazione ci porta ad un’altra domanda: cos’è l’insegnamento? Un recente documento del CIDI (15 novembre 2014) nel definire l’insegnante parla di «una professionalità che affronta simultaneamente le dimensioni relazionale, disciplinare, collegiale, sperimentale, organizzativa e progettuale, da coniugare con le specificità dei contesti». Ancora oggi dopo trenta e più anni di lavoro nella scuola avrei difficoltà nel rispondere alla domanda: che cosa significa insegnare? Si potrebbe rispondere che «insegnare significa, né più ne meno, insegnare a qualcuno come diventare soggetto… Questo compito – scrive la de Conciliis (E. De Conciliis, Che cosa significa insegnare?, Cronopio, Napoli 2014) viene generalmente disatteso, e se venisse realizzato, anche solo parzialmente, sarebbe nell’attuale contingenza, un risultato rivoluzionario»

La domanda è quindi: posta questa definizione si può misurare l’insegnamento in termini quantitativi, docimologici? Secondo elemento di riferimento per la definizione dei criteri è il contributo del docente al miglioramento dell’istituzione scolastica; questo vuol dire che solo chi si inserisce a pieno titolo nell’offerta formativa di un istituto può essere considerato meritevole? Se la prospettiva di un docente è divergente rispetto a piano triennale dell’offerta formativa, questi è, per principio, non meritevole? Tale considerazione è rafforzata da un altro elemento: è il dirigente che individua i docenti che lo coadiuvano in attività di supporto organizzativo e didattico.

Il rischio, insito in questa, ma se vogliamo in qualsivoglia attività di valutazione, è quello di «una metamorfosi del potere in potere governamentale, dove la direzione degli individui avviene non tanto attraverso una diretta limitazione delle libertà ma più efficacemente attraverso una indiretta conduzione delle condotte» (V. Pinto, Valutare e punire, punire, Cronopio, Napoli 2012). Il rischio potrebbe essere proprio questo, trasformare il nostro valore e forse anche noi stessi, assumendo la logica del mercato, perché valutare è proprio questo dare un «valore quantificabile che se non proprio una moneta possa funzionare come una quasi moneta» (V. Pinto, p. 57)

Un ulteriore elemento di riferimento per la definizione dei criteri di valutazione è il contributo al successo formativo e scolastico degli studenti. Soffermiamoci, prima, sul secondo punto, il successo scolastico: questo potrebbe essere misurabile guardando alla percentuale di studenti che ottengono risultati positivi ma, c’è sempre un ‘ma’, questo potrebbe indurre a stabilire una relazione per cui l’insegnante che promuova di più sia più bravo. Siamo certi si possa fare con assoluta certezza una tale affermazione? Relativamente al primo punto, cosa vuole significare successo formativo, quando possiamo affermare che il percorso educativo, formativo ha avuto successo: quando lo studente si laurea? quando riesce a trovare un lavoro? quando fa molti soldi? quando diventa missionario nelle favelas brasiliane? quando compra e legge dieci libri all’anno? Ma, ripeto, qualche aspetto misurabile possiamo anche pensare ci possa essere: percentuali di promozioni e debiti (importante la lettura diacronica del dato), risultati esami finali.

C’è poi un altro problema da sollevare ed è relativo alla composizione del comitato di valutazione; mi spiego, se mi chiedono di far parte di una giuria di una gara di pattinaggio artistico avrei dei problemi perché non sono competente (la legge parla continuamente dell’importanza delle competenze); ora che competenza possono avere genitori e studenti nella valutazione della metodologia didattica di un docente, mi verrebbe di dire nessuna (a meno che il genitore non sia a sua volta un docente). Allora se proprio si vuole mantenere in piedi un comitato così composto si dovrebbero almeno in modo chiaro definire gli ambiti di competenza di ciascuno dei componenti (ad es. lo studente valuta solo l’aspetto relazionale, comunicativo, il genitore la trasparenza nelle comunicazioni). E se, invece, fossero proprio (penso ovviamente all’ultimo anno delle superiori) gli studenti gli unici a valutare poiché sono, in realtà, con i docenti i solo protagonisti del processo educativo-formativo?

Sgombriamo, a questo punto, il campo da equivoci: chi scrive è convinto che il sistema scuola nel suo complesso ed, anche, il lavoro dei singoli docenti debba essere esaminato perché chi iscrive i propri figli alla scuola pubblica ha diritto ad avvalersi di un percorso formativo, educativo di alto livello. Ne va anche del futuro della nostra società. Si può ragionare, a questo proposito, sulla necessità che un docente sia in grado di elaborare un percorso formativo, argomentando e motivando le sue scelte, si può chiedere ad un docente di esplicitare quali siano le sue metodologie didattiche, come intenda muoversi nel caso incontri delle difficoltà di apprendimento, come valuti: insomma in una parola occorre che il docente dimostri competenza disciplinare e didattica. Si tratta di aspetti facilmente riscontrabili ma, va detto con chiarezza, che non possono essere necessariamente considerati (citando la terminologia ministeriale) «fattori di qualità». Anche perché potrebbero comportare una rigidità di percorso (spingendo magari ad una standardizzazione delle lezioni attraverso l’uso di procedure come il power point) che mal si concilierebbe con la capacità di adattarlo alle diverse realtà delle classi: «è la voce del maestro a rendere vivo il sapere, a rianimarlo permanentemente […] ogni insegnante sa che deve usare la sua voce per non fare addormentare i suoi uditori» (M. Recalcati, Un maestro sa insegnare solo se parla ai muri, in «La Repubblica», 2 giugno 2014). Rinunciare all’improvvisazione è un passo verso l’insegnamento on line, mentre è necessaria una elevata competenza sia disciplinare sia metodologica per far sì che l’insegnamento prenda corpo, diventando materia viva e non sterile trasmissione di informazioni.

In che direzione andare?

In che direzione andare allora? Credo che, fermo restando che si possa ragionare sulla «qualità» del sistema scolastico e del lavoro dei singoli docenti, si debba modificare a 360 gradi la prospettiva. Va abbandonata la logica meritocratico/competitiva che è insita in questo come nei precedenti interventi sul sistema scolastico. Il punto non è premiare chi è più bravo quanto piuttosto instaurare un processo che porti ad una crescita professionale dei singoli docenti e, di conseguenza, dell’intero sistema scuola. Lavorare sulla collegialità, sullo scambio di idee e la messa in comune di esperienze e pratiche didattiche, favorire un continuo processo di (auto/)formazione in servizio. Questo richiede una seria ed approfondita riflessione sul ruolo della scuola nella società, magari anche riflettendo sui rischi della meritocrazia «A questa felice società meritocratica, in cui solo alla fine sembrano accendersi bagliori di ribellione, si arriva gradatamente per passaggi intermedi: prima costruendo una scuola iperselettiva, contro la ‘fede cieca nell’educabilità della maggioranza’; poi subordinando il sapere di tipo umanistico a quello tecnico-scientifico; infine sostituendo i più giovani agli anziani, meno pronti a imparare e dunque retrocessi a funzioni sempre più umili.

Il risultato complessivo è la sostituzione dell’efficienza alla giustizia e la riduzione della democrazia ad un liberalismo autoritario volto alla realizzazione dell’utile per i ceti più abbienti.» (Roberto Esposito, in «La Repubblica», 12 dicembre 2014 a commento della riedizione del testo di Michael Young L’avvento della meritocrazia, Comunità) Vanno, anche, accantonate logiche produttivistiche, mercantilistiche, economicistiche, va abbandonata l’idea che la digitalizzazione dell’insegnamento possa essere la panacea dei mali, computer, LIM, tablet sono strumenti e non vanno mitizzati; la scuola è altro e la funzione dell’insegnamento è «costruire quell’intelligenza critica che fornisce al soggetto una nuova capacità di dire no» (De Conciliis, op. cit., p. 122).

In questa «rivoluzione», in questo capovolgimento di prospettiva è fondamentale il ruolo degli insegnanti, che devono saper ripensare il proprio lavoro, affrontando da un lato le novità che la modernità impone e l’esigenza di verifica del lavoro svolto ma mantenendo, dall’altro, saldo il timone in direzione dell’idea che «l’insegnare è più difficile dell’imparare perché insegnare significa: lasciare imparare. L’autentico insegnante non lascia addirittura imparare nient’altro che l’imparare. Perciò il suo fare suscita spesso anche l’impressione che presso di lui non si impari propriamente niente, a condizione che ora inavvertitamente si comprenda sotto ‘imparare’ solo il procurarsi conoscenze utili» (Heidegger, Che cosa significa pensare). 

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