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diretto da Romano Luperini

È tratto tipico della storiografia letteraria italiana – e nessuno scagli la prima pietra a testimonianza della propria innocenza – l’ancoraggio a date simboliche, elette a turning point capaci di cambiare la direzione a poetiche, correnti, evoluzioni di genere. Fenomeno che diventa tanto più visibile, a tratti plastico e tangibile, in occasione di ricorrenze, anniversari, coincidenze cronologiche. Basti pensare al 2011 che, grazie anche a copiosi quanto discutibili finanziamenti, è riuscito a rendere il 1861 un momento di svolta della letteratura italiana.

Ora, sia pure con energie economiche più limitate, a qualcosa di simile si assiste anche quest’anno in cui ricorre il centenario della nostra entrata in guerra. Per carità, che l’evento bellico sia stato decisivo nell’immaginario collettivo e nella sfera pratica ed esistenziale degli individui è dato certo. Meno scontato è il fatto che la stessa guerra, la “Grande guerra”, abbia modificato il campo letterario subitamente, senza nemmeno offrire il tempo di un’adeguata e fisiologica rielaborazione; rielaborazione che richiede tempi più meditati se volta a sfociare nella produzione artistica.

Se si assume come specola di osservazione il romanzo, infatti, i conti non tornano. È dato acquisito, oggi, che il romanzo italiano (ed europeo) di primo Novecento è il romanzo modernista: Svevo, Pirandello, Tozzi e Gadda sono gli autori di riferimento, ossia quelli che oggi riteniamo la spina dorsale del canone narrativo di inizio secolo. Ebbene per nessuno di questi autori la guerra è tema di riferimento centrale per la loro produzione narrativa. Il dato è altamente significativo se confrontato con quanto si registra per la seconda guerra mondiale: Calvino, Fenoglio, Pavese, Vittorini, Viganò infatti sono impensabili, nel ’45-’50, senza l’esperienza resistenziale. Mentre i modernisti relegano la grande guerra in alcuni punti circoscritti di romanzi (il finale de La coscienza di Zeno), o in alcune specifiche novelle (Berecche e la guerra su tutti, alcuni racconti commissionati a Tozzi, lo sfondo di Una burla riuscita e della Novella del buon vecchio e della bella fanciulla). Certamente ha influito il fatto che gli autori modernisti la guerra non l’hanno fatta, o per questioni di età (Svevo e Pirandello), o perché confinati in un ufficio della Croce Rossa (Tozzi). Ma chi l’ha fatta, come Gadda, ha preferito raccontarla in un tragico diario, piuttosto che trasformarla in asse portante e visibile del proprio romanzo. C’è però un’ulteriore obiezione: De Roberto (autore modernista, secondo la convincente lettura offerta da Margherita Ganeri) nel 1915 aveva 54 anni e pure la trincea l’ha rappresentata; specificamente in alcuni racconti, tra cui La paura, da poco ripubblicati (va da sé in occasione del centenario bellico) da Garzanti. Ebbene proprio De Roberto, che esplicita il tema della guerra, in fondo sembra fornire alcune indicazioni.

Innanzitutto, i suoi racconti, e La paura in primis, sfruttano il conflitto bellico per affrontare quelli che possiamo definire i valori universali dell’umanità: la paura della morte, appunto, e il conflitto tra legge e giustizia, o meglio ancora tra legge morale e legge istituzionale. L’ufficiale che per conquistare una strategica postazione vede morire i suoi uomini, uno dopo l’altro, freddati da un cecchino austriaco, non riesce a dare nessun valore militare all’impresa: quella «consegna [infatti] costava già troppe vite». Per questo si domanda: «Infrangerla? Assumersi le responsabilità delle conseguenze?». È l’eterna diatriba tra legge e giustizia,che peraltro si ripropone ne Il rifugio,in cui i militari devono dare la morte ad un proprio compagno. In De Roberto i soldati non riescono a mangiare, sono bloccati, sentono «passare per la gola moti di nausea». La stessa scena, ne Il vecchio Blister di Fenoglio, non conosce invece esitazioni. Il fatto è che la “Grande guerra”, in De Roberto e negli altri che non la descrivono, non è un fatto storico-collettivo, da rappresentare epicamente, ma è una tragedia talmente enorme, a cui non ci si può rapportare che in estrema solitudine. La guerra è insomma un fatto puramente individuale. Come appunto è la vita, nelle configurazioni de La coscienza di Zeno e de Il fu Mattia Pascal, di Serafino Gubbio, di Uno, nessuno, centomila, e de Il vegliardo. Del resto se Fenoglio fa dire a Raoul che la guerra (la Resistenza) è «una cosa giusta. La parte buona è quella dove vado io» (e addirittura, nel momento in cui Sergio-Raoul fugge dalla brigata, trasforma i tocchi del campanile in un «saggio, amichevole consiglio di togliersi da quella solitudine»), i modernisti lasciano i loro eroi abbandonati a loro stessi, di fronte a un evento completamente incomprensibile, che amplifica le ovvie, banali e tragiche domande esistenziali: «E dov’erano gli spiriti di quei caduti»? si domanda l’ufficiale derobertiano de L’ultimo voto (il quale si accanisce nel recuperare il cadavere di un militare, a fronte di migliaia dispersi; ma è solo l’individuo che può restituire il senso di vita e morte, non certo la guerra nel suo complesso).

La Grande Guerra, in fondo, si tramuta in esperienza individuale e non collettiva perché non ha alla base alcuna partecipazione ideologica. È Berecche, nell’omonimo racconto, a sostenerlo: «No: questa non è una grande guerra; sarà un macello grande; una grande guerra non è perché nessuna grande idealità la muova e la sostiene. Questa è guerra di mercato». Sicché, il conflitto viene subìto, e non gestito dai suoi attori principali; ed è l’esatto rovesciamento della percezione e della narrazione della vicenda resistenziale. E quel caos così ingestibile, che il conflitto mette in scena, è consequenziale al mondo frammentario che i modernisti – nati, cresciuti e formatisi nell’Ottocento – si sono trovati a maneggiare dopo Freud, Einstein, Bergson, Poincaré, Minkowski, ecc. Per questo motivo, Svevo, in Una burla riuscita, può sostenere, di fronte alla confusione (anche economica) dei tempi bellici: «cose che s’erano viste sempre, ma parevano nuove perché si avveravano in tali proporzioni da apparire quasi la regola della vita».

Insomma la Grande guerra, nel romanzo italiano, non si introduce come tema privilegiato sugli altri (anzi compare molto timidamente) e non stravolge le strutture portanti del genere (i tratti costituitivi del romanzo modernista si mantengono stabili da Il fu Mattia Pascal a quasi tutti gli anni Venti): può essere tutt’al più eletta a manifestazione, più visibile di altre, delle nuove forme di modernità; e dunque è funzionale a mostrare la marginalità e lo solitudine dell’uomo novecentesco (e in fondo un discorso non molto dissimile potrebbe essere tentato con Ungaretti, tenendo anche presente un’evoluzione poetica che segue, parallelamente all’Allegria, la linea Saba-Sbarbaro-Montale; cioè una linea pre, infra e post guerra).

Se ne ricava che il 1915 è sì una data storica, ma non letteraria, perché lascia inalterato il campo artistico nel quale agisce. E in fondo, forse, non è data letteraria nemmeno il 1945. Ma purtroppo lo spazio che ho a disposizione è finito, e devo dunque rimandare il discorso ad un’altra occasione. Magari tra trent’anni in occasione del centenario.

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