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diretto da Romano Luperini

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Pericolo di lettura! Leggere per costruire comunità narrative (e viceversa)

Intervento tenuto in occasione del seminario nazionale destinato agli insegnanti della scuola secondaria di secondo grado sull’argomento «La lezione del libro. La lettura nella scuola dell’adolescenza», nelle giornate del 27 e 28 aprile a Senigallia nell’ambito della campagna di sensibilizzazione avviata con la celebrazione delle Giornate nazionali della Lettura (29, 30 e 31 ottobre).

Leggere è pericoloso. Conosco persone la cui vita è stata sconvolta dalla lettura di un libro. È il caso degli scrittori, certo, e anche molti studiosi e docenti di lettere, che a un certo punto della loro esistenza hanno incontrato un libro – probabilmente un romanzo, o un saggio, una raccolta di poesie – che ha orientato la loro vita, indirizzandola verso un obiettivo, un metodo, un lavoro. Ed è il caso di coloro che, come Don Chisciotte o Madame Bovary, vivono e modellano i propri desideri, le ambizioni, i comportamenti su schemi di storia assimilati attraverso la lettura delle opere più o meno grandi o memorabili della letteratura.

Sostiene Marielle Macé, autrice del libro Façon del lire, maniere d’être (Paris, Gallimard, 2011), che «non possiamo ripulire l’esperienza della lettura della sua parte alienata, oppure, al contrario, ripulirla della sua libertà. Siamo continuamente presi in un corpo a corpo con dei modelli» (S. Giusti, “Più forte di me”. La letteratura come risorsa per la vita. Una conversazione con Marielle Macé, in Imparare dalla lettura, a cura di S. Giusti e F. Batini, Torino, Loescher, 2013, p. 98). La lettura non sarebbe dunque un’attività separata dalla vita o in concorrenza con essa, ma uno di quei comportamenti attraverso i quali le persone attribuiscono una forma, un significato e uno stile alla loro esistenza.

Secondo Vittorio Spinazzola la lettura sarebbe un’«attività mentale basata sempre su un interesse utilitario», che comporta un investimento di energie, di tempo e di competenze. Chi legge pensa di trarne un vantaggio, un arricchimento della sua vita interiore, che lo ripaghi del tempo e delle energie spese. Eppure, come sanno bene molti lettori compulsivi, leggere può cambiare la vita, mettendo a rischio ogni certezza acquisita, costringendo a dover ridefinire il senso stesso dell’esistenza. 

Che sia il rischio, allora, il vero piacere della lettura? Il gusto di essere urtati, spostati, deviati?

Dice ancora Marielle Macé:

Gli scrittori che cito, li scelgo perché sono appunto più forti di me, perché spostano il mio pensiero, perché dicono cose che avrei voluto poter dire io, ma loro lo dicono meglio e ne dicono di più. La letteratura è una risorsa anche in questo senso: mentre leggo, il testo è il mio alleato, ma è il mio alleato in tutta la sua difficoltà, in tutta la sua alterità, e questo fa sì che io debba fare uno sforzo nei suoi confronti. Una risorsa, quindi, ma una risorsa da tradurre, da raggiungere, alla quale fare posto al proprio interno.

È a questo che cerco di pensare quando devo impostare un percorso didattico fondato sulla lettura, e quando mi preparo ad andare in classe con un libro da leggere, con un autore di cui parlare. Cerco sempre di tener presenti i pericoli della lettura e la fatica del leggere. E penso a tutte le volte che ho tutte le volte che ho stabilito un contatto autentico con una persona grazie alla lettura, o a quando ho scelto di non regalare un libro perché avrebbe potuto essere percepito come inopportuno, troppo impegnativo, inadeguato al contesto e alla situazione. Perché il dono di un libro – soprattutto se si tratta di un romanzo, di una raccolta di racconti o di poesie, di un’opera teatrale – significa essenzialmente chiedere a qualcuno di condividere una storia.

Il rapporto che si crea tra chi condivide una storia attraverso una narrazione è stato paragonato da Paolo Jedlowski al particolare legame di reciprocità che si crea grazie alla pratica del dono.

È utile sapere che esistono due tipi fondamentali di scambio capaci di costruire quel tipo di collaborazione sociale che definiamo reciprocità: il contratto e il dono. Il contratto si basa sullo scambio di equivalenti – ad esempio, tu mi dai una storia, io ti do dieci euro –, mentre il dono si fonda su uno scambio in cui il donatore dà senza aspettarsi nulla in cambio, cioè senza una garanzia o un contratto, e tuttavia lasciando comunque all’altro la possibilità di ricambiare. Con il contratto si stabilisce in partenza una reciprocità simmetrica. Si tratta di un rapporto che genera sicurezza, non cambia l’identità dei due soggetti, i quali sanno perfettamente cosa danno e cosa ricevono in cambio. Il passaggio di beni o di servizi avviene senza modificare la qualità delle persone. Il dono, invece, è all’origine di un rapporto che genera squilibrio, poiché non dà nessuna certezza al donatore di ricevere qualcosa in cambio. Proprio tale assenza di garanzie, presupponendo grande fiducia nell’altro, genera legami di fiducia. Il dono che genera reciprocità è interessato a creare relazioni con gli altri.

Questo è il punto. Per quanto possa sembrare lontana da un’idea di letteratura basata sulla conservazione e la trasmissione delle opere del passato, la lettura dei testi narrativi si fonda comunque sull’interesse per la relazione con un ipotetico interlocutore. Non è sufficiente l’interesse per la storia, la fiducia cieca nella qualità del racconto che mi stai per proporre. Il punto di partenza – e la conditio sine qua non della narrazione, anche di quella mediata dalla scrittura – rimane la relazione. Se io rifiuto di entrare in relazione con te, allora non mi interesserà nessuna storia che hai da propormi.

Per questi motivi è fondamentale che, per far circolare liberamente le storie nel suo spazio relazionale, l’insegnante riesca a rappresentarsi come un interlocutore affidabile che mette in comune delle storie senza aspettarsi un preciso ritorno ma manifestando interesse alla relazione con gli alunni. È l’insegnante, infatti, l’interlocutore che si presenta davanti agli alunni in veste di narratore per condividere una storia. Come pensiamo, al di fuori di questo spazio e di questa relazione, di riuscire a far concorrenza alle storie spesso perfettamente raccontate dalle più potenti agenzie narrative del mondo? Da molti anni si discute delle competenze sociali degli insegnanti, e dell’ascolto come strumento di lavoro fondamentale per l’insegnamento, confondendo a volte i compiti del consulente con quelli del docente. Nel caso di quest’ultimo, la capacità di ascolto perde ogni sfumatura terapeutica, per divenire esclusivamente uno strumento di lavoro utile a creare il clima adeguato all’utilizzo di una semplice antologia, allo svolgimento di un esercizio di lettura drammatizzata o di comprensione del suo significato.

Consapevoli dell’importanza della comunicazione narrativa e dell’impatto che essa può avere sulle persone, sul loro sistema di valori e sulla concezione di sé e del mondo, i pedagogisti narrativi insistono sulla necessità, da parte dell’educatore, di essere capace di creare un clima di rispetto dell’altro e di attenzione al pudore, ed eventualmente di gestire le crisi che possono essere causate dalle storie.

Dobbiamo quindi riconoscere alla lettura di testi narrativi un significato che va ben al di là dei meri processi di comprensione. Essa è un’esperienza emotiva, cognitiva e sociale che merita un’adeguata preparazione del set educativo e la condivisione di regole di comportamento che tutti – a partire dall’insegnante – devono rispettare.

Paolo Jedlowski in Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa (Torino, Bollati Boringhieri, 2009) definisce una comunità narrativa «la comunità posta in essere dal fatto che fra certe persone, con una certa regolarità, circolano certi racconti e certe storie sono messe in comune». Il concetto è affine a quello, utilizzato nell’ambito della psicologia delle organizzazioni, di comunità di pratiche. Una comunità di pratiche narrative non si fonderebbe su interessi comuni, su relazioni di vicinato o sulla condivisione di determinati scopi (come potrebbe essere la classe stessa intesa come comunità), quanto semmai sul fatto stesso di praticare in modo collaborativo l’arte della narrazione nelle sue varie forme: lettura silenziosa e ad alta voce, narrazione orale e ascolto degli stessi racconti selezionati dall’insegnante, invenzione e condivisione di storie, visione di film ecc.

A proposito dell’interpretazione dei testi letterari nelle scuole secondarie di secondo grado, gli studiosi di didattica della letteratura hanno parlato di comunità ermeneutiche, ovvero di comunità fondate sulla lettura e l’interpretazione dei testi letterari. Si tratta di una concezione che si basa sulla centralità del testo e della sua interpretazione, e sul fatto che l’insegnante, in qualche modo, rappresenta un’autorità in grado di mediare tra le diverse interpretazioni tra loro in conflitto, e di farsi garante della minore o maggiore validità delle interpretazioni.

Prima, però, occorre creare innanzitutto le condizioni affinché le persone accedano alla letteratura mettendo a disposizione la loro cultura, la loro identità, e le loro stesse emozioni. La focalizzazione del lavoro didattico non dovrebbe essere sul risultato dell’interpretazione (e sulla sua conseguente socializzazione), bensì sull’esperienza della lettura e sugli effetti di quest’ultima sulla vita delle persone.

La creazione di una comunità narrativa può essere dunque un obiettivo – uno dei più alti – da raggiungere attraverso la pratica comunque inevitabile della lettura di testi narrativi, ma anche della loro lettura silenziosa o ad alta voce, dei lavori individuali di gruppo sul testo e a partire dal testo, degli esercizi di scrittura creativa, e di tutte quelle attività che trovano una loro ragione e un loro stimolo nell’utilizzo consapevole della letteratura.

A qualsiasi livello scolastico e in ogni fascia d’età occorrerebbe tener fermo il principio della necessità di attivare le opere, ovvero di farle funzionare nella mente e nel corpo delle persone, affinché possano avere un ruolo nella loro vita. Solo in questo modo, con queste premesse, è possibile che qualcuno faccia esperienza della lettura e, quindi, attraverso di essa, vada provvisoriamente ad abitare nel mondo possibile evocato dall’opera. Il commento al testo e tutte le altre pratiche analitiche in auge soprattutto nella scuola secondaria, benché utili agli insegnanti di lingua e letteratura, i quali hanno il dovere di padroneggiarle, sono controproducenti quando si vuole favorire l’accesso all’esperienza della lettura. Il teorico della letteratura e specialista di estetica Jean-Marie Schaeffer ha di recente sostenuto, in modo felicemente provocatorio e riferendosi all’attività didattica, che la via analitica all’opera letteraria sembra «un insulto alla reale funzione culturale delle opere» (Piccola ecologia degli studi letterari, Torino, Loescher, 2014, p. 80). Perché deve essere chiaro che le opere esistono attraverso la lettura, e che solo attraverso ogni singolo atto di lettura un’opera realizza se stessa e prende forma nella mente del lettore.

Compito dell’educatore, dunque, è la creazione delle condizioni affinché ciò possa avvenire. Che lo faccia attraverso la lettura individuale, o attraverso la lettura ad alta voce, la citazione, il canto e l’ascolto, la sceneggiatura, lo storyboard, il film, il dettato, o ancora facendo imparare a memoria i testi, o con il gioco di ruolo, la riscrittura, la scrittura creativa, non è poi così importante.

Ciò che conta è insediarsi, leggendo, nell’opera; e che l’opera s’insedi, con tutti i rischi che questo comporta, nel lettore.

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