Ancora sulla condizione di impotenza. Un libro (non solo) di economia
Il dibattito sul libro di Mazzoni non ha messo a fuoco un aspetto interessante: si può fare una analisi della situazione del nostro tempo che sottolinea l’isolamento e l’atomizzazione della vita, la sua privatizzazione, la sua dipendenza dal consumismo e da narcisismo indotti dal sistema e poi proporre appunto l’isolamento, l’egoismo narcisistico, la depoliticizzazione dell’esistenza. Così una analisi scompagnata da un sistema di valori finisce per avallare o addirittura esaltare proprio il tipo di vita che nell’analisi veniva deprecato.
Questo atteggiamento di adeguamento al presente viene giustificato in nome di una mancanza di alternative politiche ed economiche al sistema. Per questo mi ha molto interessato il libro appena uscito di Laura Pennacchi, Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo (Ediesse). Pennacchi è una economista, ma coniuga intelligentemente l’economia con la filosofia, la sociologia e l’antropologia. La sua analisi riprende elementi di una tradizione critica ”di sinistra” ormai nota e di cui abbiamo parlato nel dibattito a cui sopra mi riferivo: l’uomo contemporaneo forgiato e delineato dal dominante neoliberismo è essenzialmente un homo oeconomicus, dotato di voglie senza limiti e volto alla loro soddisfazione immediata, e perciò costretto a vivere, come ha scritto Lasch, «in uno stato di desiderio inquieto e perennemente insoddisfatto». Questa ipertrofia dell’io, lungi dal potenziare il soggetto, lo debilita con un effetto che Pennacchi coglie a tre livelli diversi ma convergenti: desoggettivazione dell’io, desocializzazione dell’individuo, depoliticizzazione della società, in cui vigono ormai solo le leggi di una razionalità strumentale e calcolatrice. Riprendendo spunti di Marcuse e del giovane Lukàcs teorico della alienazione e della reificazione, Pennacchi li unisce ad altri che provengono invece dal pensiero femminista e dall’antropologia (in particolare dal Saggio sul dono di Mauss), tesi a dimostrare una tendenza costitutiva dell’essere umano che viene sconvolta e rischia di finire annientata dal capitalismo neoliberista: la tendenza al dono (la “forma-dono” è il caposaldo iniziale di qualsiasi civiltà) e al “lavoro di cura” (che è cura del mondo e dell’altro e ha nel comportamento della donna – della donna e non solo della madre – un altro caposaldo antropologico). Pennacchi rivendica insomma risorse profonde dell’umanità che si oppongono, per la loro stessa natura, al trionfo dell’individualismo narcisistico da un lato e delle leggi di mercato dell’uomo esclusivamente oeconomicus dall’altro. Rientra in questo recupero un altro aspetto di grande rilevanza nel libro: la valorizzazione delle emozioni e delle passioni. L’etica non è vista come il risultato esclusivo della forza di volontà e della razionalità astratta, ma come il risultato della immaginazione e della capacità di ammirazione e di “simpatia”. Pennacchi riprende qui la riflessione kantiana sulla ragion pratica che non è affatto il prodotto di concetti generali, ma che è sempre implicata dal turbamento emotivo del soggetto.
Ovviamente questo è anche il libro di un’economista, e quindi qui il lettore troverà l’analisi della crisi che dal 2007-8 travolge l’Occidente. Ma è fondamentale, avvisa Pennacchi, tornare a porre il problema del per chi, per cosa, e come si produce. È il problema dei fini che bisogna rilanciare in un momento in cui si parla solo dei mezzi. (Si pensi alla scuola dei cui fini, pur in tanto blaterare di riforme, si è cessato del tutto di parlare). La tesi di Pennacchi è che l’impotenza non è obbligatoria, che il capitalismo è riformabile e che è possibile un nuovo modello di sviluppo, fondato sul rilancio del lavoro (nel libro si propone il “lavoro di cittadinanza” e non il “reddito di cittadinanza”) e del motore pubblico della produzione. Keynes, ovviamente, continuerebbe a essere maestro.
Su queste conclusioni non mi pronuncio e comunque non condivido tutte le speranze dell’autrice. Evidentemente il libro è scritto da un’economista che si schiera contro il capitalismo neoliberista e non contro il capitalismo in quanto tale. Ma l’incrocio fra economia, filosofia, sociologia e antropologia e i documenti oggettivi che esso offre contro i teorici dell’impotenza politica costituiscono preziosissimi apporti al dibattito sulla contemporaneità.
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NOTA
Immagine di Andreas Siekmann, “Homo Economicus” at Cabinet.
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