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diretto da Romano Luperini

“Un crimine impefetto” (Franck Dubosc)

Divertente commedia dark, grottesca e politicamente scorretta.

Siamo nel Giura francese, territorio di confine tra Francia e Svizzera: un luogo distante dalle consuete ambientazioni del cinema francese. Natura livida, aspra e incontaminata: boschi, torrenti che si gonfiano e creano cascate fra dirupi scoscesi; strade sterrate, d’inverno coperte di neve, in cui è facile sbandare; silenzio, case isolate, piccoli villaggi e tutti si conoscono, gente di montagna. Un paesaggio che diventa esso stesso protagonista.

Nel Giura prende vita “Un crimine imperfetto”, che spiazza lo spettatore dopo neanche dieci minuti di eventi improbabili e paradossali, concatenati in una sequenza serrata.  Non un crimine, ma tre, uno dietro l’altro, innescati dalla più innocente casualità.

Gli ingredienti rispettano la regola del genere. Scene del tutto normali che potrebbero evolvere in qualsiasi modo in cui irrompe un evento imprevisto. Un gruppo di migranti pakistani attraversa il bosco con una guida per raggiungere una qualche frontiera; poco distante un uomo e una donna a bordo di una berlina di lusso si fermano ai margini della strada per un bisogno fisiologico: lei si accovaccia vicino alla macchina, lui scende di poco il bordo della strada.

L’attenzione ai particolari però e l’alternarsi del focus tra le due situazioni creano quella particolare attesa per cui si sa che sta per succedere qualcosa. E infatti arriva un orso, un grosso orso bruno, che attacca i migranti e provoca una prima paradossale e rocambolesca morte. Un evento eccezionale perché tutti sanno “che non ci sono orsi nel Giura francese”.

Nel frattempo Michel, taglialegna e venditore di alberi di Natale, sta tornando a casa con il suo pickup. Per evitare quello stesso orso, sbanda ed urta proprio l’auto in sosta, uccidendo la donna e il suo compagno in modo altrettanto paradossale e rocambolesco.

Da qui la storia si trasforma da catena di incidenti imprevedibili a serie di scelte fatte tra lo scellerato e il criminale. Tutti saranno coinvolti: Michel, sua moglie Cathy, il maresciallo della gendarmeria locale insieme a sua figlia e alla sua collaboratrice, il prete del paese, una commissaria di polizia arrivata dalla città.

La questione (ed è il trailer a dichiararlo subito) sono i due milioni di euro trovati nella macchina. La tentazione di “vivere meglio” è forte per tutti.

Ma dietro questa vicenda apparentemente semplice e lineare si nasconde un retrotesto: i due eleganti occupanti della berlina, forniti di quel bel malloppo, sono lì per comprare droga; i migranti, sfruttati dalla mafia messicana, sono body packer. E la mafia con tutto l’armamentario del caso entra in scena a complicare l’azione e ad innescare nuove morti. Una carneficina.

Il titolo italiano non corrisponde all’originale più descrittivo, “Un ours dans le Jura”, ma sintetizza il nodo del film. Cosa c’è di imperfetto in questo crimine? … un po’ tutto. Il genere consacrato dai film di Hitchcock o dai noir classici è tradito in ogni aspetto: nessuno è innocente, ma nessuno è veramente colpevole; chi deve fare giustizia non segue la legge, ogni tentativo di coprire le tracce o fare la cosa giusta finisce per peggiorare la situazione.

Persone comuni che sbagliano tutto.

Si ride, si ride proprio in questa commedia dark, politicamente scorretta.

Michel e Cathy sono dilettanti che pasticciano con alibi e occultamento dei cadaveri, cedono a piccoli desideri e necessità quotidiane che non potrebbero permettersi: un televisore al plasma, il gasolio per il riscaldamento, una borsetta alla moda. Il prete si compra un’auto, il maresciallo della gendarmeria e la commissaria possono finalmente soddisfare i desideri dei propri figli.

Eppure sono brave persone e il riscatto lo firma il protagonista che dichiara: “sono un uomo perbene, io queste cose non le faccio, ho dei valori”.

E davvero lo è, se – come direbbe l’allievo più infedele di Freud (Svevo) per bocca di Zeno – “un’immoralità predicata è più punibile di un’azione immorale”.

Gli attori donano ai personaggi un humor nero sommesso ma trascinante.

Franck Dubosc, regista, cosceneggiatore e interprete di Michel il protagonista, è attonito e un po’ scampanato, portato all’autosabotaggio da lapsus freudiani.

Laure Calamy, nei panni di Cathy, “mente organizzativa”, lettrice di gialli, con un sorriso sempre pronto e accattivante, applica goffamente la logica del genere: Niente corpo, niente incidente, niente omicidio. Sua la trovata di far sparire i cadaveri spalmandoli meticolosamente di miele per farli divorare dagli orsi, convinta che basti poiché “gli orsi amano il miele”.

Benoît Poelvoorde, nel ruolo del maresciallo, è anche qui alle prese con una figlia ribelle, ma più pacato e sornione che in “Dio esiste e vive a Bruxelles”.

Il giovane Timéo Mahaut, figlio problematico e glaciale di Michel e Cathy, è protagonista di una scena ad effetto, in cui viene definitivamente eliminato il pericolo mafioso.

Infine Joséphine de Meaux, nel ruolo di Florence è la gendarme dalla coscienza pulita: empatizza con i pakistani, dà loro lezioni di lingua, li riconosce come sfruttati piuttosto che criminali. Ma è anche capace di essere trasgressiva e di sfidare i pregiudizi di quella comunità benpensante in nome della correttezza professionale, ammette di frequentare il locale per scambisti usato da Michel e Cathy come alibi per il giorno del delitto. La si credesse pure una poco di buono, ma “È più facile essere una donna facile che una donna sola”. Il maresciallo non si scompone alla rivelazione.

In questo film nessuno è realmente criminale o cinico, magari un po’ opportunista, desideroso di cavarsela se messo alle strette. Furbizia ed umanità che quasi rimettono le cose al loro posto.

La conclusione perciò, forse discutibile, si risolve in una “redistribuzione del reddito” con buona pace dei cadaveri malavitosi di professione: “A volte la formica mangia la balena”.

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