Se fossi un adolescente. Note sull’occupazione delle scuole e sulla retorica politica ai tempi del “fare”
Se fossi un adolescente, oggi, mi sentirei confuso.
Sarei nel bel mezzo della ricerca di un’identità con la quale superare l’indistinzione psicologica dell’infanzia, un’identità definita per contrasto, negazione, opposizione (magari dialettici e tutti interiori, non eclatanti: ma pur sempre contrasto, negazione, opposizione). Potrei voler dare un contenuto sociale e politico a quell’opposizione, trovandolo nella partecipazione a un evento collettivo, come l’occupazione o l’autogestione della mia scuola. In quel contesto potrei magari concretizzare per la prima volta il desiderio di occuparmi in prima persona dell’“attualità”, anche se di temi in effetti troppo complessi per la mia ancora acerba cognizione del mondo (leggi di stabilità, riforme del mercato del lavoro e della scuola), imparando però, nello sforzo di trovare plausibili argomenti a sfavore, ad abbozzare una posizione proto-intellettuale (nessuno in fondo pretende che i miei temi siano già degni di stampa, eppure è su di essi che maturo). Verificherei, forse per la prima volta, il nesso vitale tra conoscenza e azione, quel nesso che – mi è stato spiegato – fa di Dante, Dante.
Essendo onesto con me stesso, però, dovrei ammettere che molti dei miei compagni mi affiancano più per bighelloneria che per coscienza politica e che anche in me il piacere anarchico del carnevale spesso vince il serioso senso civico: perché la pura perdita è assai più affascinante della faticosa costruzione (ma anche: nel tempo sospeso della festività si fa esperienza e si cresce, forse più che nei giorni feriali). Dovrei giustificare quella ambigua ciclicità annuale della mia occupazione o autogestione – ogni autunno –, che dà ai miei critici l’argomento imbarazzante della inutile e comoda ritualità. Dovrei anche ammettere che ci sono compagni che non vogliono partecipare, che vogliono continuare a studiare, e che non sempre è così facile capire se abbia migliori ragioni il loro buon senso (pigra codardia?) o la mia coscienza politica radicale (pretestuosa scioperataggine?).
Essendo onesto con me stesso, dovrei anche ammettere che probabilmente non è in atto una rivoluzione, uno sciopero generale, nemmeno una protesta estesa di scuole solidali fra loro e che fra breve tutto tornerà come prima. Così constaterei lo scacco dell’azione collettiva e proverei il senso di solitudine di chi resta sul campo, quando la festa è finita e tutti gli altri sono tornati a casa dopo i bagordi. In questa opinione, probabilmente, mi rafforzerebbe la paternale di alcuni adulti, che lascerebbero intendere che ai loro tempi tutta la faccenda era assai più seria, che loro erano assai più consapevoli e preparati, che le loro ideologie erano fondate e solide, ecc.. e che, pure così, non servì a molto, concludendo rassicuranti con l’invito a godersi la giovinezza o, al più, a ripiegare su un ottimista e pragmatico riformismo. Scoprirei così che quanto è successo non è stato reale: forse anch’io ho scherzato, o quand’anche avessi fatto sul serio, non avrei comunque potuto essere preso sul serio.
Di tal genere, se non tali appunto, sarebbero i miei pensieri, se fossi un adolescente, oggi.
Oppure no. Perché, oggi, su questi frantumi di speranze sincere, approssimazioni adolescenziali, contraddizioni consapevoli e inconsapevoli, scende il lievito di un nuovo senso politico coerente, nelle parole entusiaste di un sottosegretario: «Non basta il suono di una campanella per fermare l’energia che si crea, cresce e muove in una scuola per poi contagiare il mondo fuori». Occupazioni e autogestioni come eccitante energia vitale che prepara le speranze di domani e soddisfa i desideri di oggi: occasioni di confronto democratico, preparazione della futura vita associata, incubatrici di futuri leader (ma d’azienda: è il Sessantotto in salsa stevejobsiana), dentro sacchi a pelo divisi con il primo romantico amore, dentro aule per la prima volta calde e umane.
Nella ricerca del consenso alla propria riforma, anche le occupazioni e le autogestioni rappresentano una Buona Occasione per il Governo Buono che ascolta la Buona Scuola. Naturalmente a patto che quelle occupazioni e autogestioni siano rispettose delle leggi e non vandaliche – i buoni che fanno buone proposte sono beneducati, non fanno rumore e non sporcano –, a patto che non ripetano a pappagallo l’imbeccata degli adulti – la generazione dei padri è quella dei privilegiati che hanno ipotecato il futuro ai nuovi venuti, non se ne vorranno mica ripetere anche gli slogan rinsecchiti e ideologici? –, a patto che non siano la protesta alla moda di un liceo di fighetti – quelli il futuro l’hanno già garantito, noi dell’Italia che fa, invece, ce lo meriteremo costruendolo con le nostre stesse mani.
Le proteste studentesche – riconosciamolo, politicamente molto, molto fragili – avvolte fra le spire suadenti di queste blandizie governative, finiscono per essere graziosamente octroyée da un sistema cui fanno l’effetto del ronzio, appena fastidioso, di una mosca; un sistema che si presenta nelle vesti affabili dell’interlocutore amichevole, che dissimula così l’effettiva, e minacciosa, disparità di potere reale e simbolico.
Ma di fronte a questo rischio come reagiscono docenti e presidi? Manifestano davanti al Miur contro l’avallo del sottosegretario alle occupazioni, usando argomenti come la difesa della legalità e l’irritazione per essere stati colpiti alle spalle dalle istituzioni, proprio mentre erano impegnati nella battaglia per il ripristino di un pubblico servizio. Con argomenti come questi, la rimozione della posta politica in gioco è completa: gli studenti, ridotti a eversori, sono i nemici; la retorica governativa, che tenta di annettersi strumentalmente il loro dissenso certamente un po’ ingenuo – e per questo però anche indifeso – è annullata e ricondotta nell’ambito rassicurante dell’infrazione al dover essere legalitario. Non ci si interroga su quali siano le ragioni politiche di quell’infrazione, quasi che fosse solo una caduta di stile istituzionale.
Oppure sì. Se fossi un adolescente, oggi, mi sentirei confuso ancor di più e avrei poca speranza di venirne a capo grazie agli adulti intorno a me, politici e docenti.
Infatti avrei bisogno che qualcuno mi aiutasse a capire che l’occupazione di una scuola era un atto di contenuto politico finché essa era parte solidale dell’istituzione da attaccare; che oggi così non è, perché dopo anni di “riforme” scolastiche, la mia scuola è ormai vittima né più né meno di me; che sono davanti a un sospetto triplo salto mortale, se il Potere politico, lontano, inaccessibile, ma effettivo, si allea con me nello scontro contro il potere scolastico, piccolo, svuotato di forza, ma vicino. Avrei bisogno di essere aiutato a riflettere sul significato delle mie azioni e scelte, come quella di occupare, sul loro peso, scopo, conseguenze. Avrei bisogno di sentirmi dire che oggi molte libertà, anche quella di protestare, sono gratuite e indolori, concesse fra le dorate sbarre di una gabbia. Avrei bisogno di capire qual è la giusta misura tra l’immediatezza dell’azione e i tempi lunghi dello studio, della riflessione, della pazienza politica. Avrei bisogno di essere incoraggiato nel mio desiderio di partecipazione, ma che mi si spiegasse con fermezza in che cosa e perché è ancora troppo generico e ingenuo. Avrei bisogno, infine, che qualcuno mi aiutasse a decostruire retoriche politiche e persuasioni occulte.
Avrei bisogno di tutto questo: invece, purtroppo, avrei davanti a me solo sottosegretari che ammiccano e docenti che fraintendono.
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LINK
La lettera del sottosegretario all’istruzione Davide Faraone.
Le proteste davanti al Miur.
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