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diretto da Romano Luperini

La nuvola Franciska e lo stagno

 Dev’essere l’acqua. L’acqua di cui son fatte le nuvole è l’origine della sua sensibilità così profondamente umana.

Certo, quella di Franciska è acqua di una purezza superiore, benché nel correre per il cielo in lungo e in largo qualche briciola di polvere la raccolga anch’essa. Per non parlare del profumo che le spruzziamo, tutt’altro che gradevole. Un miscuglio orribile di gas che lei cerca di scansare zigzagando nel cielo e contorcendosi tutta, fino ad assumere le forme più strane e fantasiose – per la meraviglia infinita dei bambini.

Dev’essere l’acqua, dicevo, perché anche il cuore umano è fatto d’acqua. Al 78 per cento. 

Allora basta rinunciare all’idea che sia quel misero 22 per cento di sostanze diverse a dare al cuore le caratteristiche di “cuore”, perché non sia una stramberia dire che Franciska è cuore al cento per cento.

Ma un cuore enormemente più espanso, perché Franciska è pur sempre una nuvola, e di conseguenza ha la dote di mescolarsi a suo piacimento con l’aria diventando grande e leggera, fino ad averne la stessa densità. E allora gioca col vento e si tiene in equilibrio come un acrobata sul filo. E galleggia nell’aria con le stesse movenze lente ed eleganti di una balena nel mare. 

Chissà se la sua è solo una proprietà, per così dire, “nuvolatile”, o non piuttosto un desiderio profondamente umano. Lo stesso nostro bisogno d’aria, cioè, ma risolto con i vantaggi di una nuvola. Franciska è nata per muoversi leggera e, quindi, rifiuta di sobbarcarsi un complicato apparato respiratorio come il nostro, con ingombranti polmoni che si gonfiano e sgonfiano d’aria in continuazione. Molto più semplicemente, lei con l’aria stessa s’è impastata, come fanno le uova con la farina. Gli scienziati, che la definiscono una “sospensione”, danno voce al bambino che è in loro, mostrandosi ancora stregati dalla sua immagine di leggerezza.

Guardandola dal basso, e accecati dall’invidia della sua libertà, Franciska ci sembra felice così com’è, da sola. Non è così. Le nuvole si cercano, si trovano, si uniscono per poi separarsi di nuovo, e così via. Hanno un’intensa vita sociale. Quando si riuniscono noi parliamo di perturbazioni e ci prepariamo al cattivo tempo, ma è il nostro punto di vista: sopra le nuvole il sole splende e loro se lo godono sdraiate le une accanto alle altre, proprio come bagnanti su spiagge affollate. Probabilmente, quindi, le muove lo stesso nostro desiderio di luce e di calore. Da questo punto di vista, conoscendo Franciska la si direbbe più nuvola di qualunque altra.

Dev’essere l’acqua che le dà questa facilità di stringere legami. Nessuno meglio dell’acqua riesce a mescolarsi anche con chi non ne vorrebbe proprio sapere. Il sale, per esempio. Un cristallo inespugnabile come una fortezza. Cede alle fiamme, ma solo se lo portano oltre i 900 gradi. L’acqua, invece, l’avvolge dolcemente e bisbiglia all’orecchio di ciascuno ione chissà quale lusinga. Fatto sta che alla fine ogni particella le cede, senz’altra energia se non quella, potentissima, del suo abbraccio. 

Il mare è nato così, a guardare bene, da un atto d’amore. Non diversamente da come nascono gli esseri umani. 

Non è felice da sola, Franciska. Si muove nel cielo spinta da quel desiderio di legame che le è – a lei come a noi -innato. Sa benissimo che per una nuvola è pericoloso tuffarsi nell’acqua, che rischia la dissoluzione, la perdita d’identità. Ma è quello che vuole: sparire e poi evaporare di nuovo. Rinascere continuamente, ma insieme, legata fin nelle singole particelle con i suoi simili. Nel suo percorso personale ha incontrato molte acque. Si è immersa nell’acque salate dei mari di mezzo mondo, tanto quanto nell’acque dolci e leggere dei fiumi. Ma non ha disdegnato certo i torrenti, dalle acque spumeggianti come lei, e neppure quelle calme e posate degli stagni palustri. 

Ha girato in lungo e in largo il pianeta, ma arrivato il momento di risalire ha sempre chiamato a raccolta tutte le sue molecole e se n’è evaporata così, sempre più esperta, sempre più se stessa. 

Poi conobbe uno stagno. Uno che non dava nell’occhio. Acque quiete da anni e tutt’intorno un profumo di buono. Senza un motivo preciso a Franciska quello specchio d’acqua dette fiducia. Nel suo abbraccio si sentiva protetta, sicura. Alla fine di ogni suo pellegrinaggio in cielo faceva in modo di ripassare sopra la sua radura e dall’alto lo guardava, contenta di ritrovarlo. Appena poteva scendeva e gli si sdraiava sul pelo dell’acqua. Amava quella sua superficie, morbida e piacevole al contatto. Calma senza però essere ferma.

Lo stagno, da parte sua, era come rinato. Franciska gli sciaguattava il pelo dell’acqua per il piacere di vederlo ridere, e così facendo gli insufflava ossigeno di una freschezza che da molto tempo lo stagno aveva dimenticato. Gli effetti erano stati straordinari e non avevano tardato a manifestarsi anche sulle sue sponde, con un nuovo proliferare di piante e fiori. Le alghe erano sparite, arretrate di fronte al nuovo esplodere della vita aerobica. 

Voi direte che, a prima vista, sembrerebbero esserci poche somiglianze tra una nuvola e uno stagno: acque di bassa densità, nel primo caso, volatili e aeree, dense e di alto peso specifico, invece, nel secondo. Eppure si volevano molto bene lo stesso, e se all’aspetto potevano sembrare esageratamente diversi, sappiamo bene che avere gli stessi sguardi è più importante che avere gli stessi occhi. Occhi diversi possono vedere – e a maggior ragione sognare, visto che è ciò che vedono stando chiusi – lo stesso mondo. Questa era la dimensione che li univa. Non senza sforzo, però.

Franciska aveva insofferenza per qualunque tipo di costrizione, in particolare se si trattava di emozioni. Ogni sua particella le doleva se doveva confinare il suo sentimento in una piccola radura del bosco, senza poterlo mostrare al mondo intero e dovendo rinunciare a trascinare il suo stagno negli spazi aperti del cielo. 

Anche i sentimenti sono cose viventi, pensava, e hanno lo stesso bisogno d’aria. Sapeva che se fosse divenuta stanziale sullo stagno si sarebbe trasformata in nebbia, rendendo, in breve, tutto opaco. Amava così tanto la limpidezza della luce che non poteva pensare, neanche per un attimo, di diventare causa della sua scomparsa. 

Lo stagno la capiva. Amava la sua capacità di esaltare i colori della radura, col suo spruzzare appena un velo d’acqua sull’erba, le foglie e i fiori delle piante, che si accendevano poi ai raggi del sole. Aveva un desiderio fortissimo di evaporare con lei perché il vento li trascinasse dove avesse voluto. Tuttavia, dentro di sé avvertiva di essere indispensabile lì dov’era. Non aveva un delirio di onnipotenza, intendiamoci. Solo si rendeva conto che, senza uno stagno in quel punto, il paesaggio sarebbe stato mancante di qualcosa di giusto.

I libri di scienze della natura parlano di “tensione superficiale” dei liquidi. La spiegazione che ne danno è sempre molto complicata, per non parlare degli esperimenti per calcolarla – così complessi che di solito si fanno solo agli ultimi anni dell’università. E invece basterebbe invitare gli arbusti della nostra specie a guardarsi dentro, perché colgano in quella descrizione, come in tutte le nostre teorie più belle, la proiezione di un sentimento profondamente umano – e come potrebbe essere diversamente, se umani sono gli occhi che guardano?
Allora si potrebbe dire loro che quella “tensione” materializza il conflitto dello stato liquido. Come lo stagno di Franciska, ad esempio, diviso tra il desiderio di diventare vapore e poi nuvola, vincendo finalmente quella forza di gravità che lo inchioda a terra, e quello altrettanto intenso di restare spalla a spalla con i compagni di sempre, aggrappati gli uni agli altri grazie alle forze di coesione, fino a conquistarsi un proprio volume. Confine collettivo invalicabile. O meglio, incomprimibile, come dicono i libri.

E la tensione si manifesta alla superficie dell’acqua, con una spinta che ha molto in comune con quella che porta i nostri sentimenti ad affiorare sulla pelle, interfaccia col mondo e messaggera incontrollabile. Capace di impallidire per uno spavento o di arrossire per un complimento, tradendoci col dire di più e spesso diversamente da quello che vorremmo.

Per vincere la nostalgia del cielo Franciska aveva dipinto stelle fluorescenti sui tronchi degli alberi che circondavano lo stagno, ma era solo un’illusione. Le mancava il volo, il vento, le costellazioni. Soprattutto quella sensazione di libertà che le donava leggerezza d’animo. Una cosa che non si può dipingere. 

Tutti e due conoscevano le reciproche impossibilità, ma questo non produsse nessuno di quegli eventi che fanno spesso da finale nelle storie d’amore tra terrestri. Franciska e il suo stagno non andarono verso un abbandono doloroso, né pretesero il sacrificio di uno dei due.

Dev’essere stata l’acqua. In fondo è tipico di chi ha una natura liquida essere se stesso in ogni suo punto, perché senza un centro e una periferia per forza ogni parte sente e ragiona come il tutto. Franciska continuò a scendere dal suo stagno tutte le volte che la nostalgia di lui le faceva male. E a ripartirne, tutte le volte che si accorgeva di non poter più restare. 

Ma nel suo condensare ed evaporare dallo stagno prese cura di non ricomporre con precisione ogni sua molecola: distrattamente ne dimenticava sempre qualcuna dal suo amico e ne prendeva qualcuna di lui che portava con sé. Questo fenomeno non ci può stupire, visto che siamo noi a sostenere che le molecole d’acqua sono tutte uguali. 

Ci sorprenderà di più sapere che quando lo stagno pensava a lei, riusciva a vederla con gli occhi delle sue molecole che lei si era portata con sé. Almeno quanto scoprire che in un piccolo e insignificante stagno una nuvola aveva lasciato pezzi del suo cuore.

Ma forse una spiegazione c’è: dev’essere l’acqua.

 

 

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