Leopardi: la voce, la persona
Leopardi, per noi, è una voce, non una persona. Una voce che viene da lontano, da una profondità lirica, filosofica e soprattutto antropologica. Una voce, non una persona che è gobba, infelice, si innamora o si ammala. Non un giovane favoloso, ribelle e inquieto. Martone nel suo film ha tentato coraggiosamente di unire la voce alla persona, ma, nonostante un certo scrupolo filologico e l’accuratezza della ambientazione, dei costumi e della recitazione, il suo tentativo lascia perplessi. Quel giovane che preso da una furia folle abbatte a bastonate l’erba intorno a Recanati o, diventato adulto, tenta goffamente di fare all’amore con una prostituta napoletana cosa ha in comune con quella voce?
Anche quando è l’attore protagonista a recitare sulla scena uno dei canti leopadani, quella voce risuona di necessità fuori campo. Ed è fuori campo perché essa riguarda una zona dell’umano non riconducibile a una biografia, ma piuttosto alla storia dell’umanità, perché, insomma, interroga una verità remota che ha a che fare con le radici del genere umano, con la sua domanda di senso, e con il sacro. Parlo di “sacro” non in accezione mistico-religiosa, ma in termini materialistici e antropologici, come ne discorreva, decenni fa, De Martino. Quella voce è inconciliabile col Vieusseux e col Tommaseo protervamente dichiarante che nel Novecento nessuno si ricorderà nemmeno il nome di quel povero gobbo, ma anche con l’immagine di Giacomo che fugge dal postribolo inseguito da una turba di ragazzini vocianti, perché ha a che fare con interrogativi connaturati alla storia dell’umanità e che rimandano semmai alle origini, quando l’uomo adorava come sacro il fuoco che lo proteggeva dalle tenebre e dalla paura dell’infinito e dell’indefinito e, a scopo scaramantico e propiziatorio, disegnava le figura degli animali sulle pareti rupestri. Il sacro nasce da quel terrore del buio e dell’ignoto che tuttora ci circonda, dalla paura della morte, dalla coscienza del nulla della vita umana e dal tentativo di trovare una risposta. «Gli uomini – ha scritto Pirandello – chiamano Dio il buio pesto».
Gli uomini hanno bisogno del sacro per dare un senso alle loro domande di senso. I riti, le liturgie, le cerimonie, i culti, la religione, la poesia, la musica e altre forme di arte si ritagliano uno spazio sociale (la chiesa, il museo, il teatro eccetera) perché intendono comunque salvaguardare, non importa se nei modi più laici possibile, l’area del sacro. Nella società moderna, così desacralizzata, la voce della poesia lirica ricopre questo spazio sempre più esiguo. Per sua natura, diceva Fortini, la poesia non può rinunciare a tale cerimonialità rituale. Ulisse uccide i Proci ma lascia vivo l’aedo che cantava per loro ma che per lui e per Omero rappresentava il “sacro”. Non per nulla la forma della lirica, spiegano gli studiosi, si avvicina più di ogni altra a quella della preghiera: tende anch’essa, alla assolutezza. Ebbene, nella modernità quella voce che interroga il nulla e il silenzio – la voce del pastore errante, un primitivo, appunto – è la voce della poesia, e della poesia lirica in particolare.
La modernità imbastardisce il sacro mercificandolo e tentando di sostituire (con successo crescente) il mercato alla chiesa e al museo. Può farlo con nobili intenzioni e con indubbia abilità, come Martone fa col suo film. Ma il lettore legato a quella voce difficilmente riesce a conciliarla con la sua riduzione alla cronaca desacralizzata di una biografia, seppure ottimamente illustrata.
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Un film riuscito
Certo, rappresentare filmicamente la poesia è una sfida, e comporta di necessità un qualche compromesso (la traduzione in forma di biografia, osserva Romano). Quello di Martone non è però un compromesso al ribasso. Il mercato un po’ c’entra, ovvio. Raramente, però, la logica del mercato tollera lo scrupolo filologico: in questo caso “nessuna” (ma proprio alla lettera) delle battute pronunciate dal protagonista è messa a caso, senza essere tratta da un qualche scritto di Leopardi stesso (Epistolario, soprattutto, ma anche Zibaldone). Ne va dato atto agli sceneggiatori. Si aggiunga che alcuni ambienti, e persino alcuni passaggi dell’opera poetica, sono restituiti con la potenza immaginifica (a volte visionaria) della fotografia. Si aggiunga la bella colonna sonora, e la pronuncia volutamente smorzata, antienfatica (mai dimessa)della recitazione dei versi (forse ad attenuare ai limiti del possibile lo scarto tra voce e persona). Personalmente, qualche perplessità mi è rimasta su singole scelte (avrei fatto a meno della citazione in chiave ultraromantica del Consalvo; la Napoli cupa e ossessionante dei bordelli e delle epidemie è molto più martoniana che leopardiana -penso a “L’amore molesto” dello stesso regista). Però non mi pare che questo invalidi la tenuta complessiva dell’operazione. Che posso dire, a me il film è piaciuto… Anche nel titolo, allusivo (al di là della bella citazione della Ortese) a una giovinezza trepida, vulnerabile, inquieta: che, a ben vedere, non è forse un elemento del tutto estrinseco rispetto a quella voce-poesia-pensiero.
Anna
La voce sì, ma…
Sul sito di LE PAROLE E LE COSE ancora non si è placata del tutto la polemica fra martoniani e antimartoniani con posizioni che direi di snobismo dall’alto e dal basso (o di massa, come diceva Fortini). A me vecchio ha fatto pensare, per contrasto, a quella tra leopardiani e antileopardiani cui m’introdussero in epoca culturalmente più felice di questa gli scritti di Sebastiano Timpanaro.
Le annotazioni qui sopra di Luperini mi paiono condivisibili in pieno dalle persone che di letteratura s’intendono e hanno imparato a non fare troppa confusione tra opera e biografia e quindi ad ascoltare la voce di Leopardi (o la sua poesia universale) al di là della persona.
Eppure mi chiedo: e gli altri, cioè quelli che, per il degradarsi di una trasmissione ben fondata sul libro, sui testi (comunque rimasta circoscritta a minoranze davvero colte), possono accostarsi non alla poesia o al nucleo filosofico delle opere di Leopardi ma soltanto alla persona (all’immagine, alla maschera)? E quindi, oggi, soltanto al film di Martone? (Che funziona all’ingrosso come gli affreschi nelle chiese medievali per i fedeli che non intendevano il latinorum?).
Non m’interessa capire ora se Martone sia solo un abile divulgatore del lato “non sacro” di Leopardi o addirittura attento alla Sirena del mercato.
Dò per scontato che la voce leopardiana, su cui insiste Luperini, il cinema rimasto strutturalmente mercantilista (al di là delle attese di Benjamin e di Brecht) non la potrà mai restituire davvero. M’interesserebbe capire però di più se questo film avvicina comunque gli spettatori “massa” (che io non disprezzo) a Leopardi, se riesce almeno a mettergli qualche pulce nell’orecchio o ribadisce piattamente o spudoratamente la distanza incolmabile tra cultura diciamo alta e “autentica” e cultura bassa e “inautentica”.
P.s.
Postilla scettica. Non so se, in passato, quella voce di Leopardi la cultura letteraria italiana l’ha davvero restituita più di Martone attraverso la trasmissione scolastica, attraverso il libro. E se una buona parte del pubblico, che si è vantato di averla ascoltata, non abbia fatto solo finta d’intenderla.
Voce e materia
A parte il film, che come prevedibile ha momenti più felici e altri meno, quanto scrive Luperini merita di essere criticato dalle fondamenta.
Leopardi, come ogni poeta, è una voce solo nella misura in cui è una persona, un corpo in carne ed ossa. Fuori da ogni facile riduzione dell’opera alla biografia, sarebbe ora di abbandonare anche la retorica che vede la poesia come voce dematerializzata.