Voce e persona, soggetto trascendentale e soggetto empirico
Alcuni visitatori del sito hanno trovato poco chiara la mia precisazione sul rapporto fra “io trascendentale” e “io empirico”. Cercherò brevemente, e in modo molto frettoloso e sommario di cui mi scuso sin da ora col lettore, di fornire qualche chiarimento e qualche informazione.
Quando Leopardi protestava contro chi faceva dipendere il pessimismo delle sue poesie dalla sua infelicità personale (malattie, deformazione fisica ecc.), affermava qualcosa che tutti i poeti hanno ribadito con forza, anche Montale o, più recentemente, Fortini (che era marxista e tutt’altro che metafisico e di cui ho riassunto la tesi sulla cerimonialità dell’arte e sul “sacro” nel mio primo intervento). È Montale a distinguere, in vari scritti (il più noto è la Intervista immaginaria), l’io “trascendentale” che parla nei suoi testi dall’io “empirico” che li ha scritti. E ci ricorda più volte, a esempio, che l’amore di Dante per Beatrice come il suo per Clizia hanno poco o nulla a che vedere, rispettivamente, con Bice di Folco Portinari, sposa di Simone de’ Bardi, e con Irma Brandeis, studiosa americana di Dante di passaggio a Firenze.
Di questa distinzione, che non nega ovviamente la relazione fra i due aspetti che spesso, anzi, è necessario indagare per capire la genesi dei testi e per ricostruirne la lettera materiale, sono state date numerose interpretazioni critiche, che spesso muovono da uno scritto di Proust, Contre Sainte-Beuve, perché su questo tema esso rappresenta indubbiamente una svolta fondamentale. Poiché Sainte-Beuve riportava la poesia direttamente alla biografia e in particolare alla psicologia di un autore, Proust ribatte che ogni opera è un mondo a sé regolato unicamente da leggi stilistiche che non dipendono dagli stati d’animo di chi scrive.
Di qui il rilievo che la questione ha poi assunto nella critica letteraria di impostazione psicoanalitica. Per tutto un periodo, infatti, questa critica si era aggrappata alla biografia dell’autore cercando nelle sue nevrosi la chiave di lettura dei suoi testi. Poi, negli ultimi quarant’anni, questo terreno è stato quasi del tutto abbandonato (in Italia continua a frequentarlo solo Gioanola) e la critica psicoanalitica ha di fatto accettato la distinzione fra voce e persona. Infatti, come si fa ad applicare a un testo il metodo della seduta psicoanalitica? Il dialogo fra terapeuta e paziente in cui si forma gradualmente la verità psicoanalitica in questo caso non può svolgersi, e il testo letterario, per di più, in quanto prodotto dell’invenzione, è almeno in parte inattendibile. La ricerca perciò si è indirizzata verso l’obiettivo di distinguere il testo (su cui, si è sostenuto, va concentrata ogni attenzione) dai problemi psicologi del suo autore, che possono talora essere invocati, e solo con molta cautela, a supporto di una tesi critica, ma non fondarla da soli. In Italia ricorderò solo l’indirizzo che fa capo a Stefano Agosti e quello che fa capo a Francesco Orlando. Di Agosti, che muove da Lacan e Derrida, si vedano soprattutto Cinque analisi. Il testo della poesia, 1982, e Modelli psicoanalitici e teoria del testo, 1987, in cui si sostiene che il testo poetico, in quanto ha di specifico (cioè la organizzazione dei significanti), è produzione dell’inconscio e dunque non è riconducibile al momento razionale che determina l’identità empirica e sociale dell’io. Per Orlando (di cui vedi Per una teoria freudiana della letteratura,ultima ediz, 1987) l’unico testo di Freud utile alla critica psicoanalitica è quello sui motti di spirito, i quali possono essere valutati e considerati nella loro specificità esclusivamente per il tasso figurale che contengono, come accade per lo specifico letterario dei testi poetici. Anche per Orlando, che prende come costante punto di riferimento il Contre Sainte-Breuve, la realtà psicologica dell’autore empirico e delle sue vicende biografiche ha una rilevanza del tutto secondaria (e infatti, pur essendo nipote di Tomasi di Lampedusa, quando ha scritto un libro sul Gattopardo ha volutamente ignorato i dati biografici dell’autore, di cui pure ovviamente disponeva in abbondanza, e si è basato esclusivamente sul testo).
Tutt’altra impostazione ha il grande critico e teorico russo Michail Bactin. Il quale tiene conto piuttosto della storia della ricezione e dell’ininterrotto dialogo attraverso i secoli fra una opera e i suoi lettori. Bachtin afferma che il nostro Shakespeare non è quello dell’età elisabettiana, così come il nostro Dante non è quello medievale o neppure quello di De Sanctis. L’immagine di un autore acquista una profondità che tende ad allontanarsi sempre di più, col passare del tempo, da quella storico-empirica, si carica di messaggi valori e significati di cui originariamente disponeva solo allo stato potenziale e di cui comunque sia l’autore che i suoi contemporanei erano all’oscuro. (Precisamente: «Possiamo dire che né Shakespeare, né i suoi contemporanei conoscevano il “grande Shakespeare” che noi adesso conosciamo. Comprimere nell’età elisabettiana il nostro Shakespeare è assolutamente impossibile», in un saggio ora compreso in L’autore e l’eroe, 1988).
Potrei continuare, ma mi pare che quanto ho scritto possa bastare per dare una idea della complessità del problema critico e teorico implicito nel dibattito sul film di Martone.
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