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diretto da Romano Luperini

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Considerazioni sulle prove Invalsi di italiano

Premessa

La discussione intorno ai test Invalsi può essere affrontata da diversi punti di vista, evidentemente non esclusivi e irrelati, ma che è bene, in sede di analisi, tenere distinti. A nostro avviso questi punti di vista sono: il contenuto delle prove (le competenze di lettura), il test come strumento di rilevazione e l’oggetto della rilevazione, gli scopi della valutazione, l’ideologia sottesa alla valutazione. In queste tesi ci occuperemo solo dei primi tre aspetti. Il quarto è un tema vasto e complesso (Pinto), che qui non potremmo che trattare con approssimazione.

Crediamo che un’analisi del genere sia necessaria, perché capita troppo spesso, sia da parte di detrattori che da parte di sostenitori delle prove, di veder confuse queste dimensioni, così che si crea un corpo opaco e solidale di opinioni in cui il tema dell’apprendimento linguistico si sovrappone alle critiche alla forma del test e a tutti i problemi del vasto campo della valutazione (delle prestazioni degli studenti, della professionalità dei docenti, delle scuole e del sistema scolastico nel suo complesso).

Queste considerazioni, dunque, vorrebbero in primo luogo fornire alcune coordinate per future discussioni, che auspichiamo. Non neghiamo, però, che esprimano anche un giudizio abbastanza preciso – critico – , anche in relazione allo stringente legame che le recenti Linee guida del Governo (La buona scuola, 3/9/2014) stabiliscono tra valutazione da un lato e stipendi e finanziamenti dall’altro.

Il contenuto delle prove Invalsi: le competenze di lettura

1. La comprensione linguistica. Lo scopo delle prove di italiano dell’Invalsi è quello di valutare «la competenza di lettura (intesa come comprensione, interpretazione, riflessione su e valutazione del testo scritto, avente a oggetto un’ampia gamma di testi, letterari e non letterari)» (Invalsi, Quadro di riferimento della prova d’italiano). La nostra scuola è – (idealisticamente?) – abituata a un’idea molto alta di rapporto col testo (fruizione critico-estetica), ma non per questo si dovrebbe guardare con sufficienza il momento, concreto, materiale, della comprensione linguistica. Occorre mettere a fuoco questo, prima di liquidare in toto le prove Invalsi come un imbarbarimento della nostra tradizione didattica.

I testi, anche quelli che ne fanno un uso particolare come quelli letterari, sono fatti di lingua. Quella della comprensione linguistica è una «dimensione nascosta» (De Mauro in più occasioni e Dieci tesi Giscel, III): a differenza della produzione di lingua, che s’incarna in testi, la comprensione “non si vede” e così viene spesso data per scontata. Di questa dimensione a scuola bisogna invece occuparsi, in ogni ordine e in ogni contesto. Ad esempio, aver portato uno studente di scuola elementare a comprendere una semplice favola non garantirà che egli sia in grado di affrontare la complessità di un racconto d’avventura (o dei suoi libri di testo: non è scontato che li capisca); aver portato uno studente di scuola media a comprendere un racconto d’avventura non garantirà che alle superiori egli sia in grado di comprendere una poesia duecentesca.

2. Bisogni formativi dei docenti. La pubblicazione dei risultati Invalsi, anche solo in forma aggregata, ha già indotto molti docenti a tentare di migliorare sbrigativamente le performance ricorrendo a simulazioni dei test Invalsi tramite strumenti editoriali ad hoc, a cui ci si affida forse perché la comprensione del testo e le competenze di lettura afferiscono a quella componente dell’insegnamento dell’italiano chiamata «educazione linguistica», ancora insufficiente nella formazione dei docenti di lettere per complesse e stratificate ragioni storiche. Un aggiornamento sulla linguistica, la pedagogia linguistica, gli studi sulla lettura è necessario e fortemente auspicabile, prima che dilaghi in tutti gli ordini di scuola la pratica del teaching to the test.

3. Collegialità. Le competenze di lettura sono competenze di base e trasversali. Occorrerebbe reimpostare la didattica su curricoli di lettura diffusi e condivisi da tutti i docenti, dal momento che questo genere di competenza non è di esclusiva pertinenza dell’insegnante di lettere, ma riguarda tutti, come dimostra il fatto che i testi proposti delle prove Invalsi sono anche testi scientifici, tabelle, istruzioni…

4. I rischi della settorializzazione: linguistica VS studi letterari. Il paradigma teorico delle prove Invalsi proviene dall’ambito della linguistica (soprattutto testuale) e del cognitivismo. La competenza di lettura è intesa come capacità di rielaborare informazioni a partire dal testo. È un modello forte e utile, ma è comunque un modello parziale.

La teoria e la critica letteraria hanno prodotto anch’esse modelli di comprensione del testo, da quelli più strettamente testualisti del formalismo e dello strutturalismo a quelli orientati al lettore e all’atto di lettura (un’ampia disamina in Bertoni). La comprensione di un testo è sempre, anche, la costruzione di un significato nella relazione tra quel testo e il lettore, costruzione di significato che favorisce la comprensione intesa anche in senso strettamente linguistico e cognitivo (concretamente significa che un lettore comprende meglio un testo per lui interessante e motivante, di cui la sua stessa esperienza contribuisce a costruire il senso). Le prove Invalsi rischiano di giustificare ancor di più la settorializzazione disciplinare che è avvenuta intorno agli studi sul testo: da un lato la linguistica, dall’altro gli studi letterari. Bisogna rivendicare la necessità di un incontro fra questi settori disciplinari, che è essenziale e irrinunciabile nella scuola secondaria.

5. Per una nuova educazione letteraria. Le prove Invalsi possono rappresentare un’utile “provocazione” per l’educazione letteraria: poiché è l’approccio stesso al testo che rischia di restare monco senza gli strumenti e i metodi degli studi letterari, essa deve rinnovarsi e mettere definitivamente al centro il rapporto tra il testo e il lettore, l’interpretazione, l’attualizzazione; ciò non esclude affatto, anzi esige più che mai, la storia, ma attivamente intesa e non passata monumentalmente in rassegna. Solo la letteratura e i suoi metodi possono infatti dare conto delle dimensioni profonde (estetiche, esistenziali, di relazione tra identità e alterità, …), che il rapporto con un testo mette in gioco.

La forma del test e il contenuto della rilevazione

6. Il testo non è un pretesto. La nostra tradizione didattica è per lo più abituata a forme di verifica non strutturate: l’interrogazione orale, il tema, le domande aperte. Esistono anche forme strutturate (risposte multiple, cloze, accoppiamenti, …), cui ricorre anche l’Invalsi. Ogni forma ha i propri pregi e i propri difetti, ciascuna ha la sua utilità e i suoi specifici obiettivi. I test non sono la premessa all’ignoranza, a patto che vengano usati insieme a tutte le altre tipologie di verifica e per misurare ciò che sono in grado di misurare. Diverse domande dei test Invalsi sono di questo tipo, perché puntano, ad esempio, a«comprendere il significato, letterale e figurato, di parole ed espressioni e riconoscere le relazioni tra parole» o a «cogliere le relazioni di coesione e di coerenza testuale (organizzazione logica entro e oltre la frase)» (Invalsi, Quadro di riferimento della prova d’italiano, «Aspetti di comprensione 1 e 4»).

A nostro giudizio, resta invece molto problematico valutare altri tipi di capacità sulla base di una verifica chiusa e standardizzata. Pensiamo ad esempio alla capacità di ricostruire il «significato globale del testo», di rifletter su di esso e di valutarlo («Aspetti 5, 6, 7»): nelle prove Invalsi queste capacità vengono purtroppo intese in un senso davvero molto angusto, a conferma della parzialità dei modelli linguistici e cognitivi della comprensione.A questo punto è necessario un esempio.

Nella prova della secondaria superiore, a differenza che in quelle degli ordini precedenti, il testo narrativo presentato è sempre stato, nei tre anni di rilevazione, un testo di qualità letteraria (Rigoni Stern, Pontiggia, Meneghello). Sono sopratutto due i rilievi critici che si possono muovere: il testo è usato come pretesto per domande strettamente grammaticali; la richiesta di trovare “la risposta giusta”, davanti a un testo letterario e davanti a certi compiti, è ingenua. Nella prova del 2013-14 si riportava un brano da I piccoli maestri di Luigi Meneghello. La frase «quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi» diventava pretesto per questa domanda:«con quale altra parola o espressione si potrebbe sostituire “pur” senza cambiare il senso di questa frase?». Ma in un testo letterario anche i tratti linguistici e grammaticali possono e dovrebbero essere ricondotti all’atto dell’interpretazione del significato globale del testo (se ne veda un interessante esempio in Altieri Biagi), pena la caduta nel riduzionismo e nella strumentalità d’uso.

All’estremo opposto, quando ci si spinge a voler oggettivare l’interpretazione, si cade in infinite aporie. Chiedere di indicare “il significato” di «siamo arrivati, siamo i partigiani» è discutibile: la risposta è aleatoria, perché la comprensione profonda di quella frase implica la capacità di cogliervi la rivendicazione orgogliosa e forse un po’ sbruffona di un pugno di giovani che vuole far la Storia, nonché di parafrasarne intuitivamente il sottotesto “eccoci qui, guardateci rifondar l’Italia”; la frase, nel complesso del testo, è poi volta in tono minore dall’ironia un po’ commossa del narratore, che si racconta ad anni di distanza e in forme scorciatissime e quasi tutte allusive, come è nello stile di questo romanzo. Senza adeguate conoscenze da parte dello studente e senza la guida dell’insegnante dentro i meandri della storia e della letteratura, a quella domanda, semplicemente, non si può rispondere in modo univoco o, che non è meglio, non si può rispondere se non a patto di banalizzarla1.

Abbiamo fatto l’esempio del testo letterario, ma crediamo, con buone ragioni, che considerazioni simili si potrebbero fare per altre tipologie testuali, quando esse si elevino appena un po’ verso i cieli della connotazione linguistica, abbandonando il rasoterra della denotazione. Le prove possono essere standardizzate, certamente: forse però vale la pena chiedersi se, in quel caso, l’oggetto di rilevazione sia ancora interessante per noi, o se non sia davvero troppo esangue.

7. Contro il riduzionismo. Le verifiche con risposta chiusa abituano a un lavoro sul testo concentrato sui dettagli, perdendo di vista la globalità. Non si dovrebbe abusarne, se non si vuole correre il rischio di corrompere un sano approccio al testo e la stessa capacità di comprensione linguistica, come osservato da Scardamalia e Bereiter: «la diffusa pratica scolastica di domanda-e-risposta come pratica didattica per controllare ed esercitare l’apprendimento dai testi» favorisce la persistenza di strategie di comprensione immature e «non può essere un modo efficace per acquisire autonomamente conoscenze sul mondo, può essere [solo] un modo efficace di prepararsi ai test e alle lezioni a scuola» (cit. in Colombo). Ogni pratica riduttiva – tanto nei test Invalsi quanto nelle lezioni quotidiane – è dannosa. Erigere una prova standardizzata a principale, anzi unico, indice dello stato degli apprendimenti è contrario alle più profonde necessità di maturazione umana e culturale dei nostri studenti.

Gli scopi della valutazione

8. Il circolo vizioso del sistema fondato sulla reputazione. Non sono ancora del tutto chiari, oggi, gli obiettivi della Sistema nazionale di valutazione (Vales: Invalsi + Indire + Corpo ispettivo, DPR n. 80 del 2013), soprattutto perché la macchina si sta mettendo in moto ora. A leggere le conclusioni dell’Invalsi sulle ultime rilevazioni (Invalsi, Rapporto sulle rilevazioni nazionali 2014), l’attenzione sembrerebbe appuntarsi sull’individuazione di aree geografiche deboli e bisognose di sostegno. Di certo, già da quest’anno ogni istituto dovrà pubblicare in rete i risultati di un’«autovalutazione»: per “trasparenza” (accountability), si dice. Si può aggiungere che esperienze già in atto forniscono un modello di ranking delle scuole (Rapportosulla scuola della Fondazione Agnelli); ancora, si può notare la famelicità con la quale i mass media si gettano ogni anno sui risultati dell’Invalsi, pronti a metterne in evidenza quasi esclusivamente la prestazione di questa o quell’area geografica e usandoli come cartina di tornasole dell’«apprendimento dell’italiano» tout court, cosa che acclimata sempre più nell’opinione pubblica la percezione della rilevazione nazionale come classifica della qualità degli istituti in toto.

Si è facili profeti nel dire che si profila all’orizzonte un vero e proprio sistema fondato sulla reputazione (specie su quella cattiva, come è proprio di ogni sistema sedicente “meritocratico”: chi è ultimo l’ha meritato, perché avrebbe dovuto impegnarsi di più) che avrà tre conseguenze: falserà i risultati stessi dell’autovalutazione, perché l’obbligo della pubblicazione dei risultati costringerà le scuole a curare attraverso di essa la rappresentazione sociale di se stesse, innescando meccanismi tipici del marketing; rafforzerà alcune logiche ormai inveterate dell’autonomia scolastica, la quale, al netto di alcuni aspetti certamente positivi, mette in competizione le scuole fra loro nella contesa degli iscritti; innescherà una dinamica a doppia spirale, per la quale le scuole mal piazzate nel ranking entreranno nel circolo vizioso del progressivo allontanamento dell’utenza migliore e quelle ben piazzate nel circolo virtuoso speculare.

9. Il rapporto perverso tra prestazioni e finanziamenti. Le recenti Linee guida del MIUR (La Buona scuola, capp. 3.1 e 6.1) prospettano un sistema nel quale una parte del MOF (Fondo per il miglioramento dell’offerta formativa) sia erogato alle scuole non più sulla base del numero di iscritti, come avviene oggi, ma su quella dell’“impegno a migliorare la qualità della propria offerta formativa”: tratto che non discriminerebbe – afferma il documento ministeriale – le scuole poste in contesti sociali difficili, ma solo quelle scarsamente innovative e volenterose, ricche o povere che siano. Ma questo impegno a migliorare la qualità dovrà essere valutato. Il sistema è già pronto: un Nucleo di valutazione interna per i docenti, Indire, Invalsi, ispettori per le scuole e i dirigenti, un occhiuto sistema di distribuzione di crediti e patenti di innovatività, solamente attribuiti i quali saranno erogati finanziamenti, scatti stipendiali, premi ai dirigenti. A nessuno secondo i suoi bisogni, a ciascuno secondo i suoi “meriti”: il rapporto perverso tra prestazioni e finanziamenti è creato. A questo punto, le prove di rilevamento di (alcuni) apprendimenti con test standardizzati sono state portate troppo lontano dal loro possibile buon uso.

10. Il primato della realtà sulla costruzione statistica. I dati statistici hanno una loro utilità per ragionare sugli assetti di sistema, ma il ricorso a «indici di performance quantitativi» come mezzo principale se non esclusivo di valutazione crea un sistema iperburocratizzato, in cui il rapporto con i contesti reali diventa sempre più evanescente (O. De Leonardis). Nella diffusa mitografia sull’accountability nessuno nota che la rendicontazione trasparente non avviene mai sulla pratica stessa (il controllo de visu è impossibile in molti casi), ma su un suo doppio dichiarato, certificato, estrapolato con mezzi di misurazione. In questo spazio tra la realtà e la sua costruzione a scopi di misurazione si annidano infinite deformazioni, volontarie e involontarie.

Dopo la rilevazione di sistema, gli strumenti per l’eventuale intervento di sostegno ad aree ed istituti fragili non potranno che essere trovati attraverso attente ricognizioni qualitative dei singoli contesti. Si parla di ispettori da inviare nelle scuole: quali ispettori e dotati di quali competenze? Solo linguisti e italianisti di vaglia, con spiccate propensioni alla didattica, potrebbero aiutare a ragionare sulla sostanza dei problemi. Temiamo che si pensi di “efficientare” il sistema solo per via tecnocratica e burocratica, simulando di occuparsi dei bisogni culturali reali degli studenti e del miglioramento della qualità didattica offerta dai docenti; a meno che l’obiettivo non sia semplicemente instaurare un controllo esterno delle scuole e giustificare la fine del sistema di erogazione dei fondi ministeriali su un piede di parità fra tutti gli istituti.

Tutto si tiene. Il miglioramento delle competenze di base come la lettura è un problema didattico e culturale, ma, per risolverlo, si inizia dalla coda invece che dal principio, cioè dalla sua valutazione invece che dalla costruzione di un tessuto diffuso di competenze rinnovate per l’insegnamento e l’apprendimento della lingua e della letteratura: è come pensare che per curare un paziente basti fare la diagnosi, senza occuparsi della competenza del chirurgo e degli strumenti a sua disposizione e trascurando del tutto la volontà e la capacità di curarsi del malato, che viene ridotto a portatore di sintomi da rilevare, egli stesso disfunzione di sistema da riallineare di rilevazione in rilevazione.

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NOTA

I  testi 2, 3, 4, 8 sono facilmente reperibili in rete.

1. V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli, 2012

2. MIUR, La buona scuola, 3/9/2014

3. Invalsi, Quadro di riferimento della prova d’italiano, versione 2/4/2013

4. Giscel, Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, 1975

5. F. Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura, La Nuova Italia, Scandicci, 1996

6. M. L. Altieri Biagi, Dal testo al paradigma: Il macigno di Buzzati, in U. Cardinale(a cura di), Insegnare italiano nella scuola del 2000, Padova, Unipress, 1999

7. A. Colombo, Leggere. Capire e non capire, Bologna, Zanichelli, 2002

8. Invalsi, Rapporto sulle rilevazioni nazionali 2014

9. O. De Leonardis, Malgrado tutto, in Gli asini, Rivista di educazione e intervento sociale, a. IV, ottobre-novembre 2013.

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