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Cambiare la scuola/6. Schoolitaly

La scuola deve diventare l’avamposto del rilancio del made in Italy

Governo Italiano

Un brutto inizio d’anno scolastico

Ho letto con attenzione La Buona scuola. Facciamo crescere il Paese  e il mio giudizio è fortemente critico anche su temi ad una prima lettura condivisibili come l’eliminazione del precariato o la formazione in servizio degli insegnanti. Il mio giudizio è critico perché i rimedi proposti alle criticità della scuola italiana – criticità elencate in modo confuso e sfuocato1 – adombrano mali assai peggiori. Questi mali (già emersi con le esternazioni di Reggi e nei cantieri estivi del PD ) sono essenzialmente due:

  1. un ingegnerismo organizzativo, in cui il mantra digitale e l’ansia di innovazione la fanno da padroni, che va a discapito di una scuola guidata da una visione culturale complessiva;

  1. un economicismo spinto veicolato da meccanismi competitivi, il cui compendio è, come già all’università, una burocrazia valutativa minuta e totalizzante che va a discapito di una scuola a servizio delle persone e della stessa autonomia intellettuale e lavorativa degli insegnanti.

Il primo male sancisce in una forma ormai definitiva, e quindi apertamente rivendicata, la torsione dei fini della scuola da quelli indicati nella Costituzione a quelli della competizione economica globale:2

La scuola deve fornire buoni cittadini che abbiano i mezzi, le conoscenze e le competenze per vivere da protagonisti il mondo del lavoro. Per fare in modo che la nostra educazione renda giustizia al primo articolo della Costituzione: fondata sul lavoro, per davvero p. 106.

Non è un caso, del resto, se l’unico articolo della Costituzione citato nel documento è appunto l’articolo 1, mentre gli articoli 33 e 34, su cui è stata impostata la scuola repubblicana, non vengono mai richiamati.

Il secondo male svuota e altera le nostre prassi di insegnamento e apprendimento e aggrava le nostre condizioni lavorative. Il combinato disposto dei due mali ne genera, infine, un terzo assai peggiore, poiché prefigura per tutti noi sin dai banchi della scuola d’infanzia una civiltà di adulti incapaci di legami solidali e di comportamenti responsabili, autonomi, gratuiti e disinteressati.

Per motivare il mio giudizio negativo sulla «ridefinizione della missione» (p. 6) della scuola e le sue conseguenze sulle persone mi soffermerò sulla forma del dossier. A queste riflessioni preliminari seguiranno due esempi.

Dalla campagna denigratoria alla campagna suasoria

La Gelmini e il governo Berlusconi, come è noto, facevano precedere i loro atti di riforma su scuola e università da una campagna denigratoria: il docente vacanziero, il professore barone, gli scandali ai concorsi, le interminabili ferie, i privilegi contrattuali, un impegno professionale scadente fioccavano come titoli e inchieste sui giornali. Del tutto falsi o parzialmente veri che fossero, dati occupazionali e retributivi nazionali e internazionali venivano forzati per far emergere verità di comodo e aprire la strada a tagli draconiani e licenziamenti di massa. A tal proposito, forse, potremmo affermare che il Metodo Boffo del denigrare per piegare l’avversario politico è stato sperimentato e applicato prima agli insegnanti e ai ricercatori che ai singoli nemici politici del Cavaliere. Perché così è andata: la scuola pubblica di massa e parte dell’università, confluiti in più ondate nei movimenti della conoscenza, sono stati tra i più assidui avversari politici dei governi di centrodestra.

Oggi però siamo in un’altra epoca e discutiamo con altri interlocutori del nostro destino. Oggi, che a Viale Trastevere siede la Giannini e che il governo delle larghe intese ha un primo ministro del PD, le proposte di riforma sulla scuola sono accompagnate da una campagna suasoria di cui il design è l’anima.

Basterebbe soffermarsi un attimo sul “piatto” bianco della copertina su cui è “servita” la riforma della “buona” scuola per far “crescere” il paese per comprendere quale sia il campo semantico che si dispiegherà nella lettura delle pagine a seguire: l’appetibilità. Già la scelta della copertina, difatti, suscita echi di familiarità poiché ricorda noti programmi culinari televisivi per casalinghe (e d’altronde -ma non vorrei eccedere in esegesi del target- gli insegnanti italiani non sono per la maggior parte donne, del sud e di media età? Lo si annota anche nella tabella di p. 18).

Inoltre il tema del “giusto nutrimento per crescere” permette di comunicare in forma ambivalente, esplicita e implicita, esteriore ed interiore, come sempre accade con le metafore, quanto si prefigura complessivamente per la scuola e cioè:

  • Capitolo 1 Assumere tutti i docenti di cui la scuola ha bisogno, ovvero la scuola passerà dal digiuno di apprezzamenti pubblici e di risorse all’abbondanza di entrambe le cose assumendo e valorizzando tutti i precari storici.

  • Capitolo 2 Formazione e carriera e Capitolo 3 Autonomia: valutazione, trasparenza, apertura, ovvero il “pane” nella nuova scuola verrà conteso tra i suoi commensali. Gratificazioni economiche e simboliche non saranno più condivise fra gli insegnanti in modo spartano e naturale, cioè in base all’anzianità, ma saranno oggetto di sofisticate valutazioni meritocratiche.

  • Capitolo 4 Ripensare ciò che si impara a scuola: qui si parla di assaggi culturali di musica, arte, ginnastica secondo un’estetica del benessere psicofisico un po’ confusa ma molto friendly.

  • Capitolo 5 Fondata sul lavoro, la scuola è vista come il carboidrato dell’economia del nostro paese: ci farà crescere in modo sano e durevole, forti e sani per affrontare la sfida della competizione economica globale.

  • Capitolo 6 Le risorse per la buona scuola, pubbliche e private; in questo capitolo si tratta di chi alla fine del lauto pasto dovrebbe pagare il conto. Rimane il dovrebbe.

Pertanto, la buona scuola sarà capace di sfamare, sarà sovrabbondante e farà gola: sarà insomma la scuola dell’appetibilità perfetta.

Design della semplicità e brand dell’innovazione

E’ stato poi notato da più parti che la grafica delle linee guida è estremamente semplificata, quasi elementare. Aggiungo due annotazioni. Nelle linee guida compaiono schemi, tabelle, spiegazioni di termini, elenchi puntati riassuntivi, grafici, disegnini. Con stile cognitivo da power point3 gli slogan sono enucleati tra le righe del documento, quasi a voler sottrarre il lavoro di titolettatura ai giornalisti, di certo a ricercare forme di comunicazione diretta e poco argomentata con le persone. Allo stesso modo dati, numeri e intenzioni del governo, assai più che nelle forme consuete della comunicazione politica, sono messi nero su bianco quale punto di partenza per fare della scelte senza dover ricorrere ad ulteriori forme di interlocuzione come quelle sindacali. Il design della semplicità, insomma, non è solo accattivante, è anche in grado di sbarazzarsi delle mediazioni.

Chiarito che la banalità è ricercata, direi che la grafica è molto curata (forse assai più degli stessi contenuti che in molti punti appaiono accessori eliminabili o applicativi interscambiabili) e genera un effetto straniante, di semplificazione di cose complesse, di urgenza comunicativa, di ansia di decidere, auspicabilmente in modo consensuale, ma in fretta. In effetti non si sono mai letti documenti ministeriali in questa forma. Scorrendo la buona scuola sembra di aver in mano un telefonino touchscreen user-friendly. Nella prospettiva del neofita informato passo passo, ci si può persino illudere di essere in grado di capire i punti in discussione e di poter parlare di scuola a ragion veduta, sennonché, proprio come nell’uso di un telefonino, ad essere semplificata è solo l’interfaccia accuratamente predisposta dai designer, non i problemi e i processi retrostanti che il lettore-utente disconosce.4

Se il design è la semplicità, il brand activation delle linee guida è l’innovazione. Non a caso l’intero documento è marinettianamente offerto «a tutti gli innovatori di Italia». Qualunque decisione va bene, sembra dirci il rapporto, purché si innovi, purché si condivida la necessità del cambiamento, purché ci si schieri con l’ “avanguardia” (di che?) e non con la “retroguardia” (di cosa?). Si legga a riprova l’ultimo euforico allegato alle linee guida, Non chiamiamola consultazione. Si tratta dell’elenco febbrile di tutti i soggetti potenzialmente invitati al banchetto del cambiamento e rassomiglia alla catena delle nomine su fb in cui tutti taggano tutti nell’illusione di far parte di qualcosa che non c’è. Le evocazioni fantasmatiche evidentemente sono necessarie ad attivare i consumatori di promesse.

Passiamo alle promesse, allora, e forse riusciremo a discuterle senza consumarle o, cosa assai più probabile, a passarle in rassegna prima che scorrano via dallo schermo retroilluminato. Come dicevo all’inizio, per ragioni di brevità, farò solo due esempi relativi al reclutamento degli insegnanti e alla ridefinizione della loro carriera.

La grande promessa agli affamati (con clausola: “o ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra”)

La grande promessa del primo capitolo di assumere 148.100 insegnanti, e cioè tutti i precari storici delle graduatorie ad esaurimento e tutti i vincitori del concorso 2012, vincola a sé tutte le altre, dall’apertura delle scuole oltre l’orario scolastico all’abolizione delle supplenze, dall’istituzione dell’organico funzionale per favorire l’autonomia all’ampliamento dell’offerta formativa con più ore di Storia dell’Arte, Musica, Scienze motorie e così via. L’eliminazione del precariato storico è in effetti la carta forte che il governo, con climax demagogico discendente, vorrebbe giocare subito per sbaragliare il campo. La promessa letta in superficie e con logica contrastiva (fin qui scuola e insegnanti hanno avuto una prospettiva d’incertezza, ora avranno la stabilità) sarebbe allettante se non fosse subordinata ad un serie di “se”, i cosiddetti «abbinamenti necessari», tra cui la mobilità geografica e professionale, e ad un “ma”:

oggi ripartiamo da chi insegna (..) siamo pronti a scommettere su di voi (…). Ma ad un patto: che da domani ci aiutate a trasformare la scuola con coraggio.

Si offrono dunque posti di lavoro in cambio di un lasciapassare alla riforma del ruolo giuridico dei docenti e della governance della scuola? Alcuni ritengono di si e hanno per l’appunto denunciato questa logica di scambio definendola ricattatoria. Ricatto o baratto sindacale a platea allargata che sia, il punto a me sembra un altro e per coglierlo basta uscire fuori dal design della buona scuola ponendo in discussione la logica binaria degli abbinamenti necessari e del “prendere o lasciare.” La logica binaria infatti non è adeguata ad un mondo complesso come quello della scuola. Anzi, stupisce che il legislatore non manifesti neppure in materia di reclutamento e selezione una visione d’insieme. Come ha notato Mila Spicola (dirigente nazione del PD) sul suo blog: «il modello di scuola che viene fuori dalle 136 pagine è esattamente lo specchio sottosistemico della confusione e della frammentazione del Paese». Anche se, al contrario di Spicola, credo che questo frammentismo sia di per sé una visione d’insieme, un modo di guardare alle cose secondo i tempi e i modi imposti dal ritmo del consumo, ne condivido il quadro descrittivo: manca un punto di vista superiore che raccordi e non blandisca le diverse istanze oggi presenti nel campo della scuola. La buona scuola è un inno al mash up.

Nelle intenzioni della linee guida, dicevamo, si assumerebbero circa 148 mila persone. Molto bene, si dirà, se non fosse che questa assunzione epocale avviene ope legis:

questa disposizione rappresenta in realtà un’eccezione al principio generale per cui le assunzioni nel pubblico impiego possono avvenire solo per concorso (p. 26).

e rischia di saturare, proprio come è stato per le assunzioni universitarie ope legis degli anni Ottanta, gran parte delle possibilità di assunzione degli anni a venire provocando delle cesure generazionali. Del resto perché dovremmo immettere nel sistema scolastico tutte queste persone in modo massiccio, facendo tutto un fascio di persone selezionate tramite percorsi universitari a numero chiuso, come i sissini, e di altri che sono dentro le graduatorie a esaurimento per aver frequentato un corso d’una manciata d’ore? Per fare lo sgambetto ai sindacati? Per avere una straordinaria arma di contrattazione con il mondo della scuola? Per evitare la procedura d’infrazione della Corte Europea per la violazione delle direttiva 1990/70/CE?

Sono tutte motivazioni comprensibili, ma non plausibili e comunque non raffrontabili con l’enorme danno che si rischia di fare alla scuola. Basterebbe guardare alla composizione delle attuali graduatorie a esaurimento per consigliare una maggiore prudenza nelle scelte e interventi legislativi più accurati e diluiti nel tempo. Ecco, questo è precisamente un caso di ingegnerismo organizzativo in cui vagliando misure, tabellando dati e facendo conti e previsioni si perde il quadro complessivo: la scuola ha bisogno del miglior personale che oggi siamo in grado di reclutare e di quello soltanto. L’organizzazione del reclutamento persegue questo obiettivo e non viceversa.

Homo hominis mentor. Fine dell’epoca della cooperazione

Sul concetto di migliore però bisogna intendersi. Per migliori il governo intende coloro che hanno il coraggio di tentare, di ricercare, di sperimentare. Di queste avanguardie del cambiamento permanente si farà guida il mentor e il suo vessillo sarà il merito. Mentore, lo sappiamo, è il consigliere fidato di Ulisse a cui il re affida il figlio Telemaco prima di partire per Troia. Nella figura del Mentore si annida quindi ancora una volta la mitologia generazionale dei figli senza padri che, direbbe il presidente del consiglio banalizzando Recalcati, devono attraversare il mare per meritarsi la loro ricca eredità. Eppure questo Mentore approdato a scuola il 3 settembre scorso ha tratti più moderni; intanto si chiama mentor e poi si occupa di mentoring, cioè di introdurre i colleghi più inesperti all’interno dell’organizzazione scolastica. Mitologie personali e ossessioni da capo del personale a parte, c’è qualcosa di male in questo, nell’individuare cioè delle figure di sistema che aiutino i docenti giovani all’interno della scuola? No senz’altro, ma c’è del male nel formalizzarlo. Per selezionare i mentor infatti sarà necessario mettere in piedi un pletorico sistema valutativo. I docenti potranno dimostrare quanto valgono accumulando crediti didattici (che si riferiranno alla qualità dell’insegnamento), crediti formativi, (che si riferiranno alla formazione certificata dei docenti) e crediti professionali (scaturiti dall’impegno profuso per l’organizzazione della scuola). Tutti i crediti verranno raccolti in un portfolio del docente (on line, of course..) e vagliati ogni tre anni dal nucleo di valutazione della scuola col supporto di un membro esterno per deliberare lo scatto di competenza dei docenti. Il mentor sarà quindi uno dei docenti che avranno maturato per tre volte di seguito lo scatto di competenza triennale. Dopo aver fatto questo percorso il mentor si troverà nei piani alti di una piramide burocratica alla cui base sono i docenti che non passano gli scatti di competenza e come corpo intermedio i docenti semplicemente promossi con gli scatti di competenza ma non in possesso di cariche superiori. Lo stesso principio gerarchico modificherà la gestione della scuola: si creerà una piramide di poteri il cui apice sarà la supergovernance valutativa dell’Invalsi, passando per ispettori, dirigenti con poteri allargati, dsga e consiglio di istituto, sino ad arrivare, last and least, al collegio docenti, dedito solo a funzioni didattiche e vuotato di capacità decisionali. Chi insegna non decide e chi decide non insegna: tra il potere e il sapere c’è di mezzo il mare in cui s’è perso Ulisse.

Non inganni, poi, il richiamo all’autonomia delle scuole: nell’inquadramento verticistico previsto per esse sono indicati persino i formati delle procedure di accountability (la parola è omessa perché di sfera liberista, ma il concetto è assai presente):

il rapporto e il piano di miglioramento saranno pubblicati in formato elettronico secondo diverse modalità testuale (integrale e di estratto) e in formato aperto (p.66).

Indeboliti i legami pubblici (con la derubricazione degli organi collegiali) e privati dei docenti (con la corsa agli scatti di competenza), la competizione diverrà il principio costruttore della piramide scolastica

per innescare processi di miglioramento e attrarre docenti entusiasti e motivati dalle prospettiva di carriera è inoltre necessario stabilire un serio sistema di incentivi di natura reputazionale (p. 46).

In breve i docenti di ruolo saranno presi per la gola dal desiderio di guadagno e di micropotere nella scuola, almeno quanto i docenti precari saranno presi alla gola dalla paura e dall’incertezza per il loro futuro.

Eppure il legislatore che qui dissemina ambizioni e bisogni non si presenta come la figura di un Potere Economico onnipervasivo, semmai rassomiglia a un suo vassallo di provincia che condivide convintamente e candidamente la credenza economicista secondo cui non può esistere essere umano che possa aiutare disinteressatamente un altro essere umano: «non c’è vera autonomia senza responsabilità. E non c’è responsabilità senza valutazione» p. 63. Ecco un esempio di economicismo spinto fino all’ottusità. Quanto sono aridi e pessimisti sulla natura dell’uomo gli innovatori.

I designers della buona scuola

Gli innovatori hanno fra i quaranta e cinquantanni e sono dei perfetti inquilini del terzo millennio, dei conformisti addomesticati alla logica dominante dell’esistente, la dittatura del Pil, e dei provinciali pronti a fagocitare tutto ciò che appare suadente e nuovo. Non si tratta di un giudizio morale, spero lo si comprenda, semmai si tratta di ricostruire il profilo culturale di chi oggi tiene le fila della discussione sulla scuola per comprenderne a fondo posizioni e scelte. Il profilo culturale dell’innovatore non è quello dello studioso o dell’esperto, che parla in nome di un sapere specifico, e neppure quello del politico o dell’intellettuale, che parla in nome di una visione complessiva della sua società e del suo tempo. Il suo profilo è quello dell’utente medio, del tablettista d’aereoporto, del cliente ikea che ammirando l’organizzazione della grande catena finisce per comprarvi anche i prodotti che non gli servono. In una parola del consumatore ipermoderno. Come ha notato Bauman:5

la forma di vita che caratterizza le nuove generazioni, al punto che non ne conoscono altre. È la società dei consumatori, contrassegnata da una cultura “nuovista” – in incessante e perpetuo mutamento – , che promuove il culto della novità e della scelta casuale.

E così seppure tutto nella buona scuola è mosso dal denaro per produrre altro denaro e se, come sostiene Daniele Lo Vetere, «il nuovo sistema è integralmente venale», ad aver scritto le linee guida non sono stati dei capitalisti d’assalto pronti a tutto, ma dei consumatori baldanzosi dallo spirito di «iniziativa sfidante» (p.126) che pensano in termini di brand, mash-up, design, digitalizzazione di ogni scartafaccio, potere e splendore del made in Italy, logica computazionale e incrollabile fede nell’organizzazione da discount.6 La forma di scuola da loro disegnata è schoolitaly. Per ora è solo in PDF. Adesso dobbiamo fare in modo che non diventi reale in tutto il Paese.

_____________

NOTE

1Per farsi un’idea di alcune criticità mal affrontate dal governo si veda il contributo di M. Ambel http://www.insegnareonline.com/rivista/opinioni-confronto/buona-scuola

3Il riferimento è al saggio di Edward Tufte, The cognitive style of power point: pitching out corrupts within http://www.edwardtufte.com/tufte/books_pp, e qui riguarda più in esteso l’uso massiccio di punti chiave nel testo, la grafica focalizzante, l’impiego di un lessico semplice e vicino alla cultura popular e soprattutto il ricorso ad un alto grado di nitore espositivo per nulla sorretto da un ordine logico-argomentativo rigoroso.

4 Sul tema delle scelte di design «che non riusciamo veramente a negoziare» si legga R. Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 75-78 e più in particolare, citato anche da Casati, J. Lanier, Tu non sei un gadget, Mondadori, Milano 2010. Mentre per una buona analisi di problemi e temi sottaciuti nelle linee guida di può leggere l’articolo di Enrico Rebuffat http://www.leparoleelecose.it/?p=16051.

5 Z. Bauman, Conversazioni sull’educazione, Erikson, Trento 2012, p. 43

6 A titolo di esempio si pensi al paragrafo Sblocca scuola, una sorta di servizio di cortesia aziendale tramite cui l’utente della scuola può segnalare disguidi e disfunzioni e proporre aggiustamenti. O si pensi a frasi come «di cosa si impara a scuola deve parlare tutto il Paese, in un grande dibattito aperto», che parafrasata equivale ad istituire il canone scolastico per sondaggio tra gli utenti.

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