Sulle prove di Italiano dell’Esame di Stato: la poesia di Quasimodo
Prime considerazioni sulla prova di quest’anno
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Il processo di semplificazione delle varie tipologie di prova (immaginate, da qualche anno, con fuorviante verve fantastica; intervista, saggio breve, analisi del testo ecc.) è ancora troppo lento. Bisogna tendere risolutamente a una unica tipologia di prova che verifichi le capacità dello studente di capire, commentare e interpretare un testo (di letteratura, di storia, di economia, di attualità culturale…). Ogni studente di ogni tipo di scuola dovrebbe poter scegliere liberamente uno fra una serie di testi (di scrittori o di uomini di cultura noti) appartenenti ad ambiti diversi, e poi dovrebbe spiegarne e interpretarne i significati. Capire un testo, comprenderlo, commentarlo, interpretarlo, storicizzarlo, vederne le implicazioni attuali, ed esporre tutto ciò in modo argomentato, chiaro e corretto: in questo dovrebbe consistere la prova.
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Il testo letterario proposto, la poesia di Quasimodo Ride la gazza, nera sugli aranci, presenta un vantaggio: è un testo che entra ampiamente nel canone scolastico ed è presente in quasi tutte le antologie. Quindi è un testo noto agli studenti che potevano facilmente orientarsi nella sua storicizzazione.
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Questo però è l’unico vantaggio. Per il resto, ci sarebbe molto da dire. Anzitutto sulla scelta di Quasimodo, un autore che è tanto presente nelle antologie scolastiche quanto assente nella attenzione e nella valorizzazione della critica. La fortuna scolastica di Quasimodo dipenda da un Nobel e dalla centralità che Quasimodo ha avuto negli anni cinquanta e sessanta fra la antologia di Anceschi-Antonielli, centrata sul postsimbolismo italiano e sull’ermetismo, e quella di Contini del 1968 (che peraltro operava già una drastica svalorizzazione di Quasimodo). Allora si riteneva infatti che lo sviluppo della lirica italiano fosse profondamente segnato dalla poesia pura e dallo ermetismo e che seguisse un percorso lineare in tal senso, da Campana a Luzi e Quasimodo. Poi sono venute le antologie di Sanguineti, di Mengaldo, di Fortini e di Raboni e l’immagine del Novecemto poetico è profondamente cambiata: la linea della poesia pura, postsimbolista ed ermetica è stata ridimensionata, e hanno assunto sempre maggior valore altre linee: quella metafisica e allegorica di Montale, quella espressionista del primo Ungaretti, quella romanzesca e prosastica di Saba eccetera. D’altronde Quasimodo, anche negli anni cinquanta e sessanta, non aveva il carisma di questi autori, e quando vinse il Nobel circolò ampiamente la battuta (attribuita a Carlo Bo): “ A caval donato non si guarda in bocca”. Oggi Quasimodo è reputato un notevole traduttore dei lirici greci, ma in quanto autore in proprio è un poeta di secondo rango. Il posto che conserva nel canone scolastico è un residuo del passato, un segno dei ritardi culturali della scuola italiana. Perché non aprire al secondo Novecento, a Sereni, Caproni, Zanzotto, l’ultimo Luzi?
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La poesia in questione è ben calibrata, pulita, quasi smaltata. Rivela una buona capacità di “impostare” il discorso poetico su binari iperletterari e su una retorica di maniera e classicheggiante. Siamo sul terreno, direbbe De Sanctis, della letteratura, non della poesia. E la letteratura vi svolge, come succede quasi sempre, una funzione consolatoria, decorativa ed evasiva. La nostalgia del passato vi diventa nostalgia del mito classico (più greco che latino), delle cavalle, dei fanciulli nudi (perché nudi?, si chiederanno gli studenti che non hanno dimestichezza coi frontoni dei templi greci o con i putti della pittura umanistico-rinascimetale). Insomma qui c’è più Monti che Leopardi. Il negativo, emergente alla fine, viene subito sublimato, deviato e “negato” nel decoro stilizzato dei simboli (il fango, l’airone che lo annusa, il riso della gazza).
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Quale rapporto può avere questo testo con la sensibilità e la mentalità degli studenti di oggi? Ovviamente, nessuno. E’ un testo scritto per offrirsi alla delibazioni di letterati iperletterati, come si faceva spesso in ambienti vicini all’ermetismo più petrarchesco (e meno surrealista) alla fine degli anni trenta, in pieno clima di chiusura fascista, di torti d’avorio eccetera. Chi darebbe oggi all’esame di stato un testo di Monti da commentare? E perché allora dare oggi questo testo di Quasimodo? Offrendo ai giovani testi come questi, li si allontana fatalmente dalla letteratura. {module Articoli correlati}
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Pillole del giorno dopo
Gentile professor Luperini, ho letto con consueto interesse il suo intervento, ma non sono del tutto persuaso da quello che scrive. Lei all’inizio dice che la prova di maturità serve a verificare se lo studente è in grado di ‘Capire un testo, comprenderlo, commentarlo, interpretarlo, storicizzarlo, vederne le implicazioni attuali, ed esporre tutto ciò in modo argomentato, chiaro e corretto’. D’accordo, e il testo di Quasimodo si presta a questo scopo.
Poi però esprime dei dubbi sulla scelta del MIUR in quanto quello in questione non sasrebbe (semplifico) un testo cardinale del Novecento italiano. D’accordo anche in questo caso, ma allora non si capisce perché la ‘Gazza’ non possa assolvere alle funzioni di verifica delle competenze che ha elencato nel punto 1; in altre parole: serve per forza Il capolavoro? Non abbiamo solo Ungaretti e Montale.
Anzi, in altre simili ‘pillole del giorno dopo’ spesso viene contestata la presenza di Montale o Ungaretti in quanto troppo frequente; e in effetti, perché non potrebbe esserci spazio per un autore ‘minore’?. Del resto, agli studenti non è stato chiesto ‘se dovessi lasciare la Terra quale testo letterario porteresti con te?’, ma semplicemente di dare prova delle proprie competenze. E se Quasimodo a tale scopo è stato una scelta sbagliata, a mio (modestissimo) avviso, è perché questo autore, per banalissime ragioni di tempo, viene solitamente sacrificato nei programmi dell’ultimo anno.
Grazie per l’attenzione
Carlo Zacco
R
Ovviamente non posso rispondere per Luperini, ma dal testo mi sembra che il punto non stia nella canonicità di un determinato scrittore, quanto piuttosto nell’attualità di una certa scrittura. Il mondo di Quasimodo, in altri termini, è fatalmente distante da quello dei ragazzi di oggi: le immagini su cui si sofferma anche Luperini raccontano una distanza drammatica rispetto all’oggi. Si potrebbe sostenere che anche la scrittura di Montale parli poco ad un ragazzo di diciotto anni, ma l’idea di vita e di letteratura che sta dentro Montale è molto più comunicabile. Scegliere Quasimodo, o Luzi, o Carducci non fa che costringere la letteratura in una riserva sempre più esigua. Fuori dall’Italia, purtroppo, si è molto più sensibili nei confronti di simili problemi, tanto che il modello anglosassone incorre spesso nel modello opposto: si è tanto attenti nel creare continui ponti tra letteratura e vita quotidiana che gli studenti diventano clienti da soddisfare. Ma questo è un altro problema…
Interpretazione e compartecipazione
Carlo ha ragione: qualsiasi testo può essere capito e interpretato e può prestarsi all’analisi scolastica. Però la letteratura richiede nel lettore anche passione e compartecipazione. Può uno studente provare passione e compartecipazione per questo testo? Io credo (con Gadamer….) che la lettura sia anche condivisione, che la interpretazione sia anche condivisione emotiva e intellettuale, e non solo analisi distaccata e “scientifica”.
Inoltre non ho contrapposto a Quasimodo Montale o Ungaretti, ma altri autori a torto giudicati minori o troppo recenti,e ormai invece ampiamente storicizzati come Sereni o Zanzotto. Continuando a proporre Quasimodo, di fatto implicitamente la scuola avalla l’idea che questo poeta faccia parte del “canone dei maggiori”. E su questo io (e non solo io, fortunatamente) non sono d’accordo.
Romano Luperini
preconcetti
Un’analisi meno ingenerosa di Quasimodo la si trova qui:
http://chroniquesitaliennes.univ-paris3.fr/PDF/Web24/8.L.Cardilli.pdf
Certo il piccolo ricercatore italiano migrante non è “illustre” come la critica che ha per lungo tempo silurato Quasimodo. Che ovviamente non era fascista, fra l’altro.
Mai del resto che si ricordi l’approccio di Lukàcs su un determinato tipo di autori apparentemente slegati dalla denuncia immediata dell’esistente o dalla sapida enucleazione del degrado.
Forse la critica dovrebbe abbandonare il masochismo storico e dialettico che si esprime in certi giudizi inveterati. Perché se la sopravvalutazione di Quasimodo è traccia dell’arretramento della scuola, forse la sua troppo sbandierata sottovalutazione è frutto dell’arretramento della filologia, del suo immobilismo e della sua preconcetta ostilità contro autori che sono traduttori extraaccademici e poeti non costruiti a tavolino in nome dei mostri sacri del conformismo dell’industria intellettuale.
Un mito già fatto
E così, per quest’anno scolastico, il testo letterario su cui è caduta la scelta ministeriale per la prova di tipologia A è “Ride la gazza” di Quasimodo. E’ sorprendente e anche abbastanza paradossale constatare come le Istituzioni che presiedono all’Istruzione si dibattano in una contraddizione vistosa tra le proprie dichiarazioni di principio e d’intenti e la prassi effettivamente suggerita e seguita. Da anni anche il dettato ministeriale parla di competenze, di insegnamento di competenze, di acquisizione di competenze e finalmente anche di competenza di lettura e letteraria. Eppure, nel momento in cui si mette a punto una prova che, conclusiva del ciclo di studi superiore, tramite un testo letterario dovrebbe attestare appunto il conseguimento di una competenza, l’unico principio ispiratore della prova sembra essere un surrogato dell’utile-dulci oraziano, deprivato della sua corposa e sofferta trama esistenziale. La fatica più grande, per un insegnante di Letteratura, è spiegare agli studenti che la funzione della Letteratura non sta né nel garantire paradisi in cui rifugiarsi evadendo dal quotidiano, né (uguale e contrario) nel denunciare i mali dell’umanità; ma semplicemente nel rappresentare il reale, in ogni sua accezione. E’ fatica immensa, soprattutto in una società come la nostra, assuefatta a una misurazione del valore che risponde a un criterio di discutibile “spendibilità”. Nel momento in cui, al termine di un percorso storico-letterario triennale, l’insegnante pensa di esserci riuscito, ecco che arriva questa traccia a rimettere ogni cosa in discussione. Sarò franca: a me quella poesia piace; ma non l’ho fatta studiare ai miei studenti perché so le ragioni per cui mi piace: mi compiaccio nella comprensione immediata dei riferimenti mitologici, nello svelamento immediato dei simboli, nella proiezione dei miei ricordi (di conterranea, peraltro) fuori dal tempo. Leggerla lusinga la mia vanità. Io posso permettermi il lusso di farmela piacere; ma i miei studenti no. A loro la Letteratura insegna (e questo insegnano loro le giornate, che ogni anno celebriamo, “della memoria” e “del ricordo”) che la memoria per prima cosa deve essere onesta, e non consolatoria. E che un poeta non può, senza fallire la sua missione, tenere separate “le morte stagioni e la presente e viva”: la Letteratura non è il luogo dell’astrazione, ma della “mitopoiesi”, del processo di trasformazione del reale in mytos, in narrazione simbolica. Questa poesia di Quasimodo fallisce la “missione” perché propone ai lettori non un mito “che si fa”, ma un mito “già fatto”, e “fatto”, per di più, in modo unidirezionale come nessun mito, vorrei dire ontologicamente, può essere. Io – che della Letteratura ho fatto il mio mestiere – ho strumenti per imboccare quella direzione e tornarmene indietro quando mi paia sconveniente o addirittura deviante; ma uno studente no. E corre il rischio di ritenere che davvero solo quella sia la terra natìa, l’infanzia e la responsabilità dell’individuo verso entrambe.
Luisa Mirone
Chiarimenti
Sono costretto a citare un precedente intervento, perché a mio modestissimo parere contiene una serie di equivoci potenzialmente pericolosi.
Anzitutto L. Mirone scrive:
“E’ fatica immensa, soprattutto in una società come la nostra, assuefatta a una misurazione del valore che risponde a un criterio di discutibile “spendibilità”. Nel momento in cui, al termine di un percorso storico-letterario triennale, l’insegnante pensa di esserci riuscito, ecco che arriva questa traccia a rimettere ogni cosa in discussione. Sarò franca: a me quella poesia piace; ma non l’ho fatta studiare ai miei studenti perché so le ragioni per cui mi piace: mi compiaccio nella comprensione immediata dei riferimenti mitologici, nello svelamento immediato dei simboli, nella proiezione dei miei ricordi (di conterranea, peraltro) fuori dal tempo. Leggerla lusinga la mia vanità. Io posso permettermi il lusso di farmela piacere; ma i miei studenti no. A loro la Letteratura insegna (e questo insegnano loro le giornate, che ogni anno celebriamo, “della memoria” e “del ricordo”) che la memoria per prima cosa deve essere onesta, e non consolatoria. E che un poeta non può, senza fallire la sua missione, tenere separate “le morte stagioni e la presente e viva”: la Letteratura non è il luogo dell’astrazione, ma della “mitopoiesi”, del processo di trasformazione del reale in mytos, in narrazione simbolica. Questa poesia di Quasimodo fallisce la “missione” perché propone ai lettori non un mito “che si fa”, ma un mito “già fatto”, e “fatto”, per di più, in modo unidirezionale come nessun mito, vorrei dire ontologicamente, può essere. Io – che della Letteratura ho fatto il mio mestiere – ho strumenti per imboccare quella direzione e tornarmene indietro quando mi paia sconveniente o addirittura deviante; ma uno studente no. E corre il rischio di ritenere che davvero solo quella sia la terra natìa, l’infanzia e la responsabilità dell’individuo verso entrambe.”
Prima di tutto il mythos non è mai consolatorio: cosa ci sia di consolatorio in un immagine di morte che campeggia in mezzo all’esplosione della vita è cosa che andrebbe spiegata.
Secondo, gli studenti devono essere messi in condizione di potersi permettere certi lussi: perché quand’anche non si faccia portavoce di nobili ideali, la letteratura, come ogni produzione estetica, ha un compito fondamentale: quello di ricordare all’uomo che nella sua essenza non è “spendibile” e che l’umanità (l’humanitas anche) è irriducibile al mercato, perché è irriducibile all’idea di spendibilità e di sacrificabilità che ad essa è sottesa. Se come docenti non siamo in grado di capire nemmeno questo, e di farlo capire, e cediamo ai miti dell’onestà paludata di prese di posizione e della spendibilità della cultura, abbiamo fallito. E qui chiudo.
Per essere precisi
Solo una precisazione: ho controllato e tra tutti i testi che ho in casa (Baldi, Raimondi, Panebianco,il vecchio Segre ed anche il vecchio “Materiale ed immaginario”) l’unico sul quale ho trovato la “Gazza” è il Luperini. Nasce da questo dato forse un’impressione non corrispondente al vero, l’idea che il testo possa rientrare scontatamente in un canone già padroneggiato dagli studenti. Sicuramente l’autore gode di una posizione canonica santificata (ormai frettolosamente) dalla scuola , ma non quel suo testo che rimaneva quindi aperto a possibili analisi, forse non così sterili né scontate, per lo meno adeguate agli strumenti in possesso dei ragazzi. A meno che non si creda di avere in classe critici competenti che passano le serate a sgranare sfumature interpretative nei blog sulla letteratura. Certo Luzi sarebbe stato più moderno, ma in questo caso l’esame fotografa la scuola così com’ è (ferma alla prima metà del Novecento)e non come vorremmo che fosse
Un saluto a Luisa,
Claudia
Ripensare programmi ed esame in sé
A me sembra ormai chiaro che i programmi scolastici di letteratura hanno bisogno di essere rinnovati tenendo conto che lo scopo dell’insegnamento letterario dovrebbe essere portare gli studenti a una formazione di buoni lettori di testi letterari e non a esperti iperspecialistici di italianistica (e quindi non posso che accogliere l’osservazione di Luperini del fatto che occorrono testi che abbiano un reale rapporto “con la sensibilità e la mentalità degli studenti di oggi”) , e che questa formazione di buoni lettori dovrebbe essere più approfondita (e dunque con più ore e temi e autori trattati) nei licei classico e linguistico rispetto agli altri licei e scuole non specializzati in studi umanistici (differenziazione che mi pare manchi del tutto nei programmi attuali).
Occorre però affermare anche che l’impostazione attuale delle prove degli esami non aiuta affatto. Al fine di avere parametri realmente oggettivi in modo che si possa mantenere reale il valore legale del titolo di studio occorrerebbe un rinnovamento delle prove di maturità secondo una modalità simile alla seguente: il ministero dovrebbe comunicare già a inizio anno un insieme ristretto di argomenti su cui dovrebbe vertere ciascuna prova scritta (ad esempio, nella prima prova si comunica che verrà usato un brano di uno fra tre autori come Montale, Calvino o Zanzotto e in modo analogo nella tipologia dell’ “articolo di giornale” – se è ancora proposta – che sarà su uno di tre argomenti possibili e così via). In tal modo finalmente si evita che in un una classe precisa di un istituto scolastico preciso l’autore o l’argomento delle prove durante l’anno sia stato studiato in un mese, mentre in in un’altra classe di un altro istituto è stato studiato in una settimana. Mi sembra una prospettiva abbastanza più sensata e fruttuosa rispetto alla situazione attuale.
Quasimodo parla ancora al cuore dei giovani?
Mi colpiscono le considerazioni del prof. Luperini apparse sul sito http://www.laletteraturaenoi, dal titolo Sulle prove di Italiano dell’Esame di Stato: la poesia di Quasimodo; alcune mi trovano d’accordo, altre no. In linea generale, il professore ha ragione: bisogna proporre ai nostri alunni testi che facciano amare la letteratura, ma concludere il suo intervento con l’osservazione: “Offrendo ai giovani testi come questi, li si allontana fatalmente dalla letteratura”, si “stronca” un poeta che, secondo noi, non merita, ancora oggi, una “persecuzione” che dura dall’assegnazione del premio Nobel: prima i suoi contemporanei (invidiosi?!), ora i critici letterari.
Ma andiamo con ordine. La prima considerazione mi trova pienamente d’accordo: tutte queste tipologie di prove confondono l’alunno e complicano il lavoro del docente; la prova d’esame deve essere finalizzata proprio a “capire un testo, comprenderlo, commentarlo, interpretarlo, storicizzarlo, vederne le implicazioni attuali, ed esporre tutto ciò in modo argomentato, chiaro e corretto”.
Sulla seconda considerazione non sono d’accordo, perché non è vero che molte antologie riportano la lirica Ride la gazza, nera sugli aranci, forse, è solo l’antologia curata dal Luperini e mi permetto di dire che non è una delle liriche più felici e più significative del percorso poetico di Quasimodo.
Passando alla terza considerazione, vorrei puntualizzare ciò che mi vede in disaccordo: innanzitutto, non mi sembra che Quasimodo sia molto presente nelle antologie scolastiche e, quando è presente, sono sempre le solite liriche, spesso non le migliori, o la solita Milano, agosto 1943, e le poesie vengono accostate per antitesi e falsando la linea evolutiva del poeta; mi trova d’accordo, invece, la constatazione dell’assenza del poeta siciliano nella “attenzione e nella valorizzazione della critica”, di cui trovo conferma proprio nelle righe successive quando si legge che “oggi Quasimodo è reputato un notevole traduttore dei lirici greci, ma in quanto autore in proprio è un poeta di secondo rango”. “Un poeta di secondo rango”: è un giudizio del prof. Luperini o è un giudizio genericamente attribuito ai critici contemporanei, ma non condiviso dal prof. Luperini? L’impressione è che il giudizio sia condiviso dal nostro professore, se poco prima riporta la discutibile e squallida battuta (attribuita a Carlo Bo): “A caval donato non si guarda in bocca”! E qui, mi permetto di dissentire e di protestare con forza! Mi sembra un colpo veramente basso, e mi viene in mente la favola della volpe e dell’uva troppo acerba!
In merito alle osservazioni fatte al punto quattro, nulla da dire sulla prima parte, ma il riferimento a Monti mi fa saltare in aria! Leggo Monti o Foscolo? Avrà sbagliato il professore, non possiamo pensare a Monti! Forse a Foscolo, sì, a lui: è una bella intuizione, tra l’altro, vedo diverse affinità: l’amore per il mondo ellenico, la cura della forma, l’esilio, la vita raminga, la necessità di doversi adattare ad una realtà meschina, la fuga.
Infine, l’ultimo punto: “Quale rapporto può avere questo testo con la sensibilità e la mentalità degli studenti di oggi?”. Risposta del professore: “Ovviamente, nessuno”. Aggiungo io che, se l’analisi si dovesse fare su un testo anonimo, sarei d’accordo, ma se l’analisi, prevede la contestualizzazione all’interno di un percorso esistenziale oltre che storico, la risposta non può essere quella del prof. Luperini. Qui, mi si conceda di fare delle osservazioni personali: quale poeta italiano ha amato in modo viscerale la propria terra, concependo continue “parole d’amore” per essa, per la sua isola, “terra impareggiabile”? Parole necessariamente curate, scelte per impedire al sentimento di traboccare, parole che, nonostante tutto, colpiscono e turbano: Io non ho che te, / cuore della mia razza / Di te amore m’attrista, / mia terra […] (Isola). Leggendo questa ed altre liriche i miei alunni si sono appassionati, hanno scoperto il valore dell’appartenenza ad una terra illustre, hanno fatto entrare Quasimodo nel loro cuore, ritrovando nelle sue poesie e nella sua figura uno stimolo per ripensare la propria identità in termini positivi ed ottimistici, liberandosi dal peso di pregiudizi di chi artatamente vorrebbe alimentare ancora l’ennesimo complesso di inferiorità.
Angela Caruso