«Solo ciò che non può essere contato conta davvero»: la «valutazione ermeneutica». Intervista a Guido Armellini
A cura di Daniele Lo Vetere
D.L.V. Oggi la presenza mediatica del tema della valutazione (prove Invalsi, rilevazioni internazionali sulla literacy) è forte. Si tratta però sempre di rilevazioni standardizzate, allo scopo di rendere i risultati comparabili su scala nazionale e internazionale. Secondo lei tutto ciò sta schiacciando l’idea della valutazione su quella della misurazione?
G. A. A me pare che i paradigmi della complessità della conoscenza, che datano ormai agli anni Novanta, diventando senso comune abbiano prodotto l’effetto contrario alle loro intenzioni. Il rapporto con la complessità avrebbe dovuto farci familiarizzare con il senso del limite, renderci umili e consapevoli della nostra ignoranza, darci insomma una vera e propria «etica del limite». Invece assistiamo a una proliferazione della volontà classificatoria, che viene estesa ad ogni ambito, non solo quello disciplinare, ma anche quello psicologico (si pensi ai disturbi dell’apprendimento), sociale, etico.
In ambito scolastico il concetto di valutazione si fa sempre più coincidere con quello di classificazione, mentre valutare è una cosa più vasta e più seria. Valutare significa dare valore. In una relazione fra esseri umani significa valorizzarsi reciprocamente: un processo che può anche essere conflittuale, ma che si può attuare pienamente solo in un clima di gratuità. C’è poi quell’aspetto specifico e a mio parere secondario della valutazione, che consiste nel classificare gli studenti (cioè nel collocarli all’interno di una “classifica” gerarchica) in base ai livelli delle loro prestazioni in ambiti che dovrebbero restare ben circoscritti e delimitati e che invece tendono ad ampliarsi a dismisura. La valutazione – anche nel suo aspetto classificatorio – dovrebbe essere un mezzo per aiutare gli studenti ad imparare; l’ossessione classificatoria rischia di trasformarla da mezzo a fine dell’apprendimento. Se la valutazione è considerata dagli studenti e dagli insegnanti un mezzo, gli studenti non nascondono i loro errori, anzi li mettono in evidenza perché sperano che l’insegnante li aiuti a superarli. Se invece la valutazione diventa il fine, gli errori vengono tenuti accuratamente nascosti per evitare giudizi negativi, e l’apprendimento ne viene gravemente ostacolato.
D.L.V.: Ma la scuola non ha sempre dato voti, non ha sempre fatto classificazioni e discriminato fra chi sa e chi non sa?
G. A. È una questione di dosi. Valutare è necessario. Anzi un ragazzo, purché si fidi dell’adulto, desidera essere valutato (e vuole a sua volta valutare l’adulto). Bisogna individuare con precisione che cosa valutare, circoscrivere gli ambiti: innanzitutto chiarire che si classificano le prestazioni e non gli esseri umani; in secondo luogo capire che è possibile classificare prestazioni semplici e non prestazioni complesse. Quanto più la valutazione classificatoria diventa invasiva, tanto più si perde di vista tutto questo. Il maestro Manzi, per polemica contro le cervellotiche schede di valutazione introdotte negli anni ottanta, scrisse sulla scheda di ogni alunno questo giudizio: «fa quello che può; quello che non può, non fa». E questo non significa che non valutasse. Continuava a farlo, ma era una valutazione “calda”, umana, globale, dialogica, non classificatoria. A mio parere, il peccato originale sta nelle teorie della valutazione degli anni Settanta e Ottanta, quando si è stabilito che per obiettivo didattico si intende ciò che è verificabile con una prova. Ma in questo modo solo ciò che si può contare conta. Io invece penso che “ciò che veramente conta non può essere contato”, come ha scritto lo storico americano Irwin Thompson.
D.L.V. E nell’insegnamento della letteratura che cosa può “essere contato” e che cosa no?
G.A. Qual è lo scopo massimo di un insegnante di letteratura, la cosa che più qualifica l’insegnamento della nostra materia? Che gli studenti, usciti dalla scuola, continuino a leggere, imparino il piacere della lettura. Ma non si può classificare il desiderio di leggere. Con la lettura c’è un rapporto di gratuità. Il nostro massimo obiettivo non può “essere contato”.
Per capire quali siano le competenze che possono essere contate e quelle che non possono esserlo, occorre ragionare sulla stessa parola «competenza». In ambito buro-pedagogico si susseguono mode linguistiche e alcune parole si caricano di un effetto salvifico, tanto da divenire polisemiche. Su quelle parole i pedagogisti e gli ispettori ministeriali proiettano tutti i propri desideri. Così, per esempio, si attribuisce al concetto di «competenza» il merito di «mettere al centro lo studente». Bella scoperta. Non ne parlavano già Montessori, Pestalozzi… ? A questo significato della parola si è aggiunto quello dei documenti europei che parlano di «competenze chiave»: competenze che – ecco qui il passaggio fondamentale – devono essere certificate. C’è un primo aspetto di tipo politico da considerare: con «competenze chiave» quei documenti intendono in prima istanza le competenze funzionali mercato del lavoro. Siamo sicuri che siano le stesse di cui dovrebbe occuparsi la scuola, che siano solo quelle le competenze necessarie a dei cittadini e a degli esseri umani per crescere e realizzare se stessi?
C’è poi un’obiezione di tipo pedagogico-didattico: in generale con «competenza» si intende un condensato di “sapere”, “saper fare” e “saper essere”: le conoscenze + le abilità + le attitudini umane. Se si leggono i documenti nazionali ed europei sul tema, fra le competenze si trovano requisiti umani encomiabili come «avere spirito d’iniziativa», «essere collaborativi», «saper lavorare in gruppo»… ma se mi prefiggo di sottoporre questi aspetti etico-sociali a una valutazione classificatoria, devo poi fornirne indicatori e descrittori di livello, individuando per esempio una tassonomia dei possibili gradi di “collaboratività”. I risultati che ho visto sono grotteschi: se si dà retta a quelle tassonomie, un ragazzo che fa seriamente il suo lavoro ma è di indole riservata e silenziosa è inesorabilmente condannato ad essere classificato ai livelli più bassi. Quando poi scendiamo nel campo delle materie scolastiche, si naviga nella nebbia. Che cosa significa, poniamo, valutare la “collaboratività” in campo letterario? La scuola è un ambito diverso dal mondo lavoro, è una zona franca, ed è un bene che sia così.
D.L.V. In un recente Quaderno della ricerca Loescher dedicato al progetto Compìta (Per una letteratura delle competenze, a cura di N. Tonelli, Loescher, 2013), a proposito delle tabelle di indicatori e descrittori delle competenze letterarie che quel progetto sta tentando di mettere a punto, lei ha osservato come «forse siano le stesse regole e convenzioni che attualmente governano il genere letterario “tassonomia pedagogica e didattica” a produrre (inevitabili?) aporie e incongruenze», tanto più in una disciplina fondata sull’interpretazione e sulla «centralità del lettore» come la letteratura. Secondo lei, nell’insegnamento della letteratura sono impossibili «formalizzazioni generalizzanti»? Lei stesso scrive in quell’intervento che oggi «l’educazione letteraria non può fare a meno del concetto di “competenza”, inteso nella sua forma più elementare di “saper fare qualcosa di (relativamente) nuovo».
G.A. Un esempio di competenza in campo letterario può essere questo: presento agli studenti un sonetto di Petrarca e uno di Dante mai visti prima e chiedo loro di provare ad attribuirli all’autore giusto sulla base delle caratteristiche del testo, spiegando i motivi dell’attribuzione. Saper riconoscere un sonetto di Petrarca e spiegare in cosa sia diverso da uno di Dante è un esercizio di contestualizzazione ed è una competenza, nel senso che lo studente dimostra di saper fare qualcosa di relativamente nuovo con ciò che sa. Ma con questo non mi occupo del «saper essere» (ad esempio della passione per la lettura), mi concentro su una consegna più specifica.
A me pare che il difetto delle tabelle del progetto Compìta sia che esse assumono come criterio ispiratore la vecchia tassonomia di Bloom, che era fondata su un’idea di apprendimento lineare ed unidirezionale, per successione di obiettivi. Ciò è paradossalmente in contrasto con le intenzioni stesse del progetto, che persegue invece un’idea di insegnamento ben lontana da quella del comportamentismo di Bloom. Ma a voler definire tutto si finisce per dover far ricorso a un complicato linguaggio misto di pedagoghese e critichese. Penso che sarebbe più utile abbandonare la presunzione dell’oggettività e dell’onnicomprensività, e camminare nella direzione dell’intersoggettività. Penso che si possa arrivare a una definizione condivisa di competenze solo costruendo un senso comune fra gli insegnanti e facendo ricorso a una terminologia univoca e semplice, che esibisca la sua convenzionalità. Nel mio ultimo libro [La letteratura in classe: l’educazione letteraria e il mestiere dell’insegnante, Milano, Unicopli, 2008, n.d.r.] ho proposto cinque competenze, descrivendole brevemente: comprendere, analizzare, contestualizzare, interpretare e riscrivere. E’ un repertorio senza pretese, al limite della banalità, ma credo che se lo si sostanzia in operazioni ben precise e adeguate ogni volta ai testi su cui si lavora possa risultare utile.
D.L.V. Proprio nel suo libro La letteratura in classe lei distingue tre forme di valutazione dello studio letterario: una tradizionale, diciamo desanctisiano-crociana, basata sull’endiadi «esporre e commentare» (contestualizzare un testo o un’opera dentro la storia della letteratura e valutarli esteticamente, anche se quest’ultima operazione si riduceva poi spesso alla ripetizione della valutazione estetica dell’insegnante o del critico); una di tipo formalistico, che lei critica apertamente perché riduce il lavoro sul testo a uno smontaggio strutturale fine a se stesso (trovare il punto di vista, le figure retoriche, …) completamente sganciato dalla molla dell’interpretazione, dal desiderio di trovare nel testo il senso per sé; una, ancora tutta da sperimentare nelle nostre classi, che lei chiama «valutazione ermeneutica». Quali sono i presupposti teorici di questo tipo di valutazione e che cosa la rende diversa sia dalla valutazione “tradizionale” sia da quella formalistica? Può farcene qualche esempio concreto?
G. A. Il limite della vecchia pedagogia formalistico-strutturalista stava nel porre come obiettivo autofinalizzato quello dello smontaggio dei testi, che invece dovrebbe restare solo un’operazione strumentale. Gli strumenti narratologici, retorici, metrici sono utili, ma non possono essere usati come fini in sé.
Propongo un esempio tratto dal mio artigianato didattico: stavo leggendo in classe (una terza di istituto tecnico) il sonetto Chi è questa che ven…, del Cavalcanti, e mi ero soffermato in particolare sul secondo verso: che fa tremar di chiaritate l’âre, con l’intenzione di far notare agli studenti che il ritorno, in posizione metricamente forte, di una vocale chiara come la a, unita all’assenza di suoni scuri come u e o, conferisce all’immagine un carattere luminoso, grazie all’alleanza tra il significato delle parole e quello dei suoni. Volevo anche sottolineare che questo fenomeno si verifica solo nella poesia, e quando c’è una certa convergenza tra il senso e il suono delle parole; a questo scopo mi ero preparato anche un contro-esempio: se, in una conversazione quotidiana, dico: “Amo tanto la pasta all’arrabbiata”, le a toniche non producono alcun effetto di luminosità. Questa era la mia intenzione. Invece il discorso si è svolto più o meno così:
PROFESSORE (scrive il verso sulla lavagna): Che cosa notate di particolare?
(pausa di silenzio).
ALUNNO A: ci sono molte r.
PROFESSORE: (preso in contropiede): Eh? Fammi un po’ guardare… (volta la schiena alla classe e verifica sulla lavagna) E’ vero. Dunque… come possiamo interpretare…
ALUNNO B (accusatorio): Leggendo le “rime petrose” lei ci ha detto che le r ripetute danno un’idea di durezza; ma qui la durezza non c’entra proprio per niente.
PROFESSORE :…
ALUNNO C: A me danno un’idea di vibrazione…
ALUNNO A: Come uno sfarfalleggiare…
ALUNNO D: Come una specie di vibrazione luminosa.
A questo punto il mio discorso sulle a poteva integrarsi tranquillamente con quello iniziato dalla classe; ma gli studenti erano già arrivati per conto loro al nocciolo del problema, confrontando le r crude e aggressive delle “rime petrose” con quelle aeree e frullanti del verso in esame.
Nel dibattito gli studenti hanno messo in atto una serie di competenze, applicando conoscenze acquisite a un testo per loro nuovo e contribuendo alla costruzione cooperativa dell’interpretazione. La questione delle a e delle erre è significativa in quel momento, nel contesto del rapporto tra me e gli studenti. Questo processo interpretativo non si presta a misurazione e classificazione, è un processo complesso, ma proprio per questo interessante. L’interpretazione non è la ripetizione dell’interpretazione di qualcun altro, ma la ricerca del significato per me / per noi, e quel significato può essere diverso per me e per gli studenti. Da questo punto di vista l’interpretazione non è una competenza che si raggiunga soltanto da grandi: è il momento centrale dell’esperienza letteraria fin dall’asilo, dalla scuola elementare, quando si iniziano ad ascoltare o a leggere i primi racconti e le prime poesie.
D.L.V. La competenza «interpretazione» come può essere valutata? Può esistere un indicatore come «sa interpretare»?
Si può valutare la capacità di interpretare, ma essa deve essere concretizzata in consegne che garantiscano un certo grado di consenso intersoggettivo (una domanda evocativa del tipo “che sentimento suscita in te questa poesia?” è rigorosamente da evitare). Finché si resta sul piano della comprensione letterale, il grado di oggettività è elevato: i leopardiani sempiterni calli hanno un significato preciso, non stanno evidentemente sulle piante dei piedi del poeta. Su questo non c’è discussione. Ma già la decisione su come valutare la comprensione letterale implica una buona dose di soggettività, perché è l’insegnante che deve decidere quanto vale il fatto di sapere o non saper riconoscere il significato di un’espressione come quella. Questa soggettività non può essere eliminata grazie a un’impossibile oggettività, piuttosto la decisione dovrebbe essere negoziata fra colleghi, risolta intersoggettivamente.
Se passiamo dalla comprensione all’interpretazione, i criteri valutativi si fanno più complessi. Un criterio fondamentale è che nella risposta siano in gioco sia il punto di vista dello studente, sia l’alterità del testo, la relazione tra i due. Posso sottoporre allo studente due giudizi critici contrapposti su un’opera, e chiedergli quale dei due condivide e perché, facendo riferimento alle valutazioni critiche, alle caratteristiche del testo in esame, e alle proprie propensioni o idiosincrasie letterarie. Un approccio di questo tipo, che parte dalla concretezza delle consegne e non dall’astrattezza degli elenchi di “obiettivi”, mi pare più utile che lambiccarsi nell’impossibile tentativo di fare una tassonomia di tutti i possibili percorsi del rapporto con un testo.
Con alcuni colleghi abbiamo lavorato sulle domande dell’analisi del testo dell’Esame di Stato (tipologia A), chiedendoci che tipo di competenze e di abilità presupponessero. La conclusione è stata che si tratta di domande a cui è quasi sempre impossibile rispondere: domande interpretative spacciate per domande di comprensione. Per esempio, a proposito dell’incipit della Luna e i falò: “I paesi e i luoghi della propria infanzia sono indicati dal protagonista con i loro nomi propri e con insistenza. Spiegane il senso e la ragione”. Quale sarà mai la spiegazione del senso e della ragione? Forse non la conosceva neanche Pavese. Non si possono togliere del tutto le pieghe al testo letterario («spiegare» significa proprio questo), il testo letterario ha una sua polisemia e se lo scopo è ricondurre tutto a un’unica spiegazione, a una e una sola risposta giusta, allora è meglio utilizzare altri tipi di testo. Ricordo anche una serie di domande su L’isola di Ungaretti, che è quanto di più inafferrabile ci sia in poesia, domande che presupponevano che si potesse trovare un significato univoco per ogni immagine. Ciò che capita è che persino l’insegnante che corregge la prova di italiano deve cercare di ricostruire ipoteticamente quale brano critico abbia letto l’ispettore ministeriale, perché quelle domande evidentemente presuppongono un’interpretazione precostituita. Con quei gruppi di colleghi abbiamo provato a formulare domande sensate sulla base dei cinque tipi di competenze di cui parlavo prima. È un lavoro interessante e molto impegnativo: fare domande sensate su un testo letterario non è affatto facile. Ma questo è il nostro mestiere: un artigianato che è che anche pensiero, perché implica una riflessione sul senso della letteratura e sul senso dell’insegnamento. Spesso noi insegnanti nutriamo un senso di inferiorità nei confronti del sapere accademico, sia in campo pedagogico sia in campo letterario; ma il nostro mestiere è fondato su un sapere relativamente autonomo, che certo deve interagire con gli altri, ma che ha una sua specificità. Il criterio per valutare la qualità del mio lavoro non sta nella maggiore o minore vicinanza al sapere accademico, ma nella qualità della relazione che si è instaurata fra le opere letterarie e i miei studenti. Il mio scopo non è di trasmettere agli studenti le prospettive più aggiornate e accreditate della critica, ma di aiutarli a sviluppare una loro interpretazione, che può anche andare in una direzione completamente diversa.
D.L.V. Riassumendo: la valutazione è un concetto più ampio di quello di misurazione, classificazione, certificazione. Il rischio maggiore cui stiamo andando incontro è che un’alleanza perversa fra misurabilità degli obiettivi di stampo comportamentista-cognivista e concetto di competenza esteso ad ogni aspetto delle attitudini umane, persino quelle etico-sociali, porti a moltiplicare le tassonomie e a pretendere di certificare persino qualità come la sensibilità alla lettura o la disponibilità agli altri. La valutazione ermeneutica al contrario, cerca di recuperare la complessità della valutazione ma senza cadere in questi paradossi inquietanti.
Una valutazione ermeneutica è dialogica, bidirezionale. Se io dico «Pierino non è intelligente, non comprende, non si impegna», non sto definendo Pierino, ma sto parlando di me, della qualità del mio rapporto con lui. E’ epistemologicamente scorretto trasporre questa notazione relazionale in un giudizio unidirezionale. La forma corretta è: «io e Pierino non ci capiamo, la relazione fra noi non funziona», e se Pierino è grande posso anche sottoporgli questo problema e discuterne con lui. Questo tipo di valutazione, che è fondamentale nella relazione didattica, è del tutto incompatibile con una formalizzazione classificatoria.
Venendo a ciò che invece può essere sottoposto a classificazione, bisognerebbe tener conto del grado diverso di coinvolgimento soggettivo richiesto all’insegnante dai diversi tipi di competenza. Quanto più ci si avvicina alla competenza interpretativa, tanto più entra in campo la soggettività dello studente, e di conseguenza anche quella dell’insegnante. Ovviamente è sempre l’insegnante che si assume la responsabilità finale di classificare, di dare il voto, ma il processo con cui si arriva alla valutazione è dialogico, e comporta una forte propensione all’ascolto e un altrettanto forte disponibilità allo spiazzamento.
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G.B. Palumbo Editore
Ma anche ciò che conta meno è indispensabile…
Il titolo dell’intervista lo trovo nella migliore delle ipotesi un messaggio molto ambiguo e nella peggiore delle ipotesi un messaggio molto pericoloso sul vero senso del problema delle misurazioni e valutazioni nell’ambito scolastico. La mia impressione è che si esprima un eccessivo sospetto e paura verso qualunque valutazione legata a dati, misurazioni quantitative e controlli intersoggettivi a causa di una fin troppo antiquata e miope concezione degli strumenti delle scienze sperimentali (sia naturali che sociali) viste come “disumane” e portatrici al massimo di nuove applicazioni tecnologiche e di nient’altro, mentre solo i metodi delle attività umanistiche come indagini filosofiche e comprensioni di opere artistiche e letterarie, basate su un’ermeneutica in cui i risultati di tali attività perdono significato se slegati dal singolo soggetto interpretante, sarebbero quelle che “contano davvero” soprattutto quando usate come “mezzo per aiutare gli studenti ad imparare”.
Io ritengo invece che sebbene i metodi delle scienze sperimentali da soli non possono essere utilizzati con fini assolutistici per la risoluzione delle problematiche presenti nell’educazione e nella didattica, d’altra parte ritengo che siano *uno* strumento di innegabile e di insostituibile valore in molti ambiti di questo ambiente, e dunque un ingrediente indispensabile, certo non sufficiente e a volte neppure determinante nel risolvere alcune delle più importanti problematiche presenti nell’ambiente scolastico, e dunque da integrare con altre metodologie, ma ripeto, non è ammissibile trascurare e dare valore nullo a tali metodologie, anche se si sta parlando di campi di azione in cui è in gioco lo sviluppo di persone singole, aventi esperienze e situazioni uniche e irripetibili.
Il mio sospetto è che questa diffidenza abbia ascendenze legate ai tempi di Croce e Gentile e riviva oggi nelle discussioni sulle “due culture” dove appunto si contrappongono due fazioni “umanesimo sapere supremo” e “scienze sperimentali sapere supremo” che di fatto si sostengono a vicenda ignorando invece che è possibile una visione alternativa a tutte e due, quello di un “sapere e cultura unitaria” dove non ci sono gerarchie di saperi e dove ciascuna disciplina sente di aver bisogno reciprocamente di trovare spunti in un’altra.
Di fatto ho la netta impressione che se si assolutizza una valutazione “ermeneutica” del tipo seguente (cito testualmente dall’intervista):
“Se io dico «Pierino non è intelligente, non comprende, non si impegna», non sto definendo Pierino, ma sto parlando di me, della qualità del mio rapporto con lui. E’ epistemologicamente scorretto trasporre questa notazione relazionale in un giudizio unidirezionale. La forma corretta è: «io e Pierino non ci capiamo, la relazione fra noi non funziona», e se Pierino è grande posso anche sottoporgli questo problema e discuterne con lui. Questo tipo di valutazione, che è fondamentale nella relazione didattica, è del tutto incompatibile con una formalizzazione classificatoria.”
si finisce secondo me inevitabilmente in una valutazione che di fatto è una autovalutazione compiuta dai componenti tra cui è presente la relazione. Insomma, il mio sospetto è che sotto sotto, la paura di essere sottoposti a valutazioni con metodologie intersoggettive è la paura (certo molto umana) dovuta al fatto che pochi provano piacere nel prendersi le proprie responsabilità, nel rendere conto ad altri del proprio operato, nell’essere giudicati per quello che si è compiuto.
Peraltro occorre ammettere sinceramente che nel nostro paese, specialmente nell’ambito scolastico, l’utilizzo delle valutazioni quantitative e intersoggettive non è mai stato utilizzato in modo eccessivo, marginalizzando o escludendo valutazioni “ermeneutiche”, semmai è vero proprio l’opposto, e marginalizzando valutazioni quantitative non si può che arrivare ad altrettanti risultati insoddisfacenti, come quelli sopra da me esposti.
ambiguo e pericoloso?
Caro Michele, devo precisare che il titolo, pur citando il testo dell’intervista, che a sua volta cita Thompson, è di mia responsabilità. Questo solo per chiarezza.
Quanto al merito, fatico a capire perché esso sarebbe ambiguo e (addirittura!) pericoloso.
Contrapponi cultura umanistica da un lato e “misurazioni quantitative e controlli intersoggettivi” dall’altro, quando proprio l’intersoggettività è la via maestra proposta da Armellini. Non mi pare che ci sia una volontà di sottrarsi al confronto e alla verifica, anzi, si parla di confronto costante con gli allievi, con i colleghi, di condivisione: altro che fuga dalla responsabilità e disagio di offrire agli sguardi altrui il proprio lavoro per un giudizio. E si parla di cose molto concrete, di valutazione della capacità di leggere un testo e di interpretarlo, come può fare un insegnante dell’esperienza di Guido Armellini. Questo significa firmare l’ennesimo contributo al conservatorismo della cultura umanistica italiana, antiscientifica e allergica alle prove materiali? Mi spiace che la pensi così.
Ieri sera Pietro Ichino parlava in tv di “oggettività” e “scientificità” delle prove Invalsi e proponeva di usarle per mettere in competizione fra loro le scuole (e di chiudere quelle che non funzionano, sul modello inglese). Immagino che se facessi delle obiezioni a Ichino sulla “oggettività” e “scientificità” delle prove Invalsi – su cui si può discutere, ma evitando questa ideologia al quadrato dell’inoppugnabilità della prova empirica –, lui mi risponderebbe che appartengo all’Italia che non vuol cambiare. Ho il timore che la dolorosa e contraddittoria fase di transizione e crisi che stiamo attraversando e, per venire alla scuola, la inadeguatezza di quest’ultima ad affrontare certe domande postele dal presente, stia però producendo una pericolosa polarizzazione tra innovatori e conservatori, buoni i primi, cattivi i secondi. Dovremmo provare a ragionare, ogni volta, sul merito.
Altrimenti si rischia di squalificare a priori certi argomenti, accusandoli di essere solo un modo per nascondere riottosità al cambiamento.
Infine: forse sarebbe il caso di lasciare ormai da parte il babau della cultura crociano-gentiliana e della scienza calimero delle discipline. (A questo proposito leggi l’intervista al prof. Israel pubblicata qui su LN pochi giorni fa) La nostra scuola è solo invecchiata e affaticata, ma non ha molto più a che fare né con Croce né con Gentile, che sono solo simulacri polemici e poco più.
La cultura umanistica è assai più in crisi di quella scientifica, figurarsi se può pensare di mettere alla berlina la scienza “che non pensa”.
Basta chiedere all’uomo della strada: chi è il ricercatore, un uomo in camice bianco con microscopio e provette o un uomo chino su un codice duecentesco? E chi produce verità, lo scienziato o il poeta? Conosciamo le risposte.
Saluti
misurare la commozione?
Condivido del tutto quello che Armellini pensa sulla misurabilità dei risultati dell’insegnamento letterario. Il ‘voto di italiano’ esprime in gran parte la maturità intellettuale complessiva di un alunno, perché alla fine valuta la capacità di comprendere ed esprimere il pensiero attraverso il linguaggio, qualunque sia il contenuto, dunque anche un contenuto ‘scientifico’ (ci pensi un attimo anche Michele Dr). Il linguaggio, ossia l’uso delle parole, resta tuttora il veicolo principale della comunicazione interpersonale: la formazione scolastica deve fornire gli strumenti per un ‘buon uso delle parole’ (cito il titolo di una nota grammatica italiana per i licei) in tutti i contesti. Pertanto, nelle ore di italiano non si lavora solo sulla lingua d’uso, ma anche sulla lingua letteraria, perché, volenti o nolenti, le nostre emozioni sono non solo espresse, ma perfino ‘costruite’, strutturate dalla parola dei poeti e degli scrittori. Quindi le ore di italiano diventano spesso, nella pratica, la palestra delle emozioni, soprattutto per gli adolescenti, che spesso eleggono i docenti di italiano a loro confidenti e quasi ‘guru’, maestri spirituali. Credo di non interpretare male le idee di Armellini in questo senso: l’intersoggettività, e dunque l’autovalutazione, sono intrinseche al processo formativo all’interno delle discipline letterarie e purtroppo non facilmente ‘misurabili’. Un esempio dalla mia esperienza di insegnante di liceo: ho fatto commuovere molte volte i miei alunni con letture di testi poetici, da Virgilio a Kavafis, ma non ho ‘messo il voto’, perché in realtà dovevo darlo a me… e sarebbe stato 10, no? Un suggestivo studio sulla valutazione intersoggettiva è stato realizzato, con una ricerca durata 15 anni, dal pedagogo australiano John Hattie, che usa la formulazione ‘visible learning’ per descrivere il feedback inviato dall’alunno all’insegnante: un feedback visibile, ma non misurabile quantitativamente, che però sarebbe il vero ‘succo’ dell’insegnamento (dunque a me non sta per niente bene che si usino le prove Invalsi per rilevare anche l’eventuale bravura o meno dei docenti).
Non mi è tuttavia molto chiaro, dall’intervista, se e quanto Armellini intende comunque valutare le conoscenze storico-letterarie. Vorrei cioè capire meglio quanto conta l’inquadramento di un testo in un contesto, sia dal punto di vista delle letture e degli intenti dell’autore che lo produce, sia dal punto di vista della ricezione di quel testo. Sulla base della mia esperienza di insegnamento, devo dire che gli alunni trovano in quel tipo di conoscenze una forte rassicurazione di base, certo frutto di una tradizione culturale che non piacerà a Michele Dr… e che però bisogna stare attenti a non liquidare tanto facilmente. Faccio ancora un esempio concreto: la lettura dei Promessi Sposi. Per quello che vedo, è uno strumento potentissimo di crescita linguistica e culturale. I ragazzi ne escono veramente trasformati, se la mettono a frutto; perché lì lo sforzo ‘storico’ è enorme, e poi leggono le pagine di critica, normalmente antologizzate in tutte le edizioni scolastiche, e, come dice Armellini, cominciano ad annuire o a dissentire, ma soprattutto, finalmente, hanno dei ‘modelli’ di interpretazione del reale attraverso il linguaggio, ossia Manzoni stesso, gli autori del commento scolastico, e la critica manzoniana. Dunque valutare un’interrogazione o un elaborato sui Promessi Sposi permette di misurare la nascita e la crescita del lettore ‘colto’. Di qui un’altra domanda: a che età dobbiamo cominciare a parlare di vere capacità ‘ermeneutiche’? Devo dire che mi fa un po’ sorridere l’estensione di questa terminologia agli alunni della scuola primaria e forse perfino delle medie, ma forse sorrido per inesperienza, e dunque spero in un approfondimento della discussione in questo blog.
non nemici, ma complementari…
Caro Daniele, ammetto pure che sono pronto ad ammettere di aver frainteso alcune parti dell’intervista ma occorre ammetterlo che se si parla di intersoggettività della valutazione alla base di un’ “ermeneutica dialogica” si finisce per affermare in modo inevitabile una valutazione che non solo è qualitativa ma è di fatto ridotta a un’autovalutazione interna in cui c’è un legame inscindibile tra le due personalità del docente e dello studente, viste peraltro anche come personalità irriducibili e inconfrontabili fra di loro (e dunque l’intersoggettività esiste sì, ma solo all’interno di quella specifica coppia, mentre all’esterno di fatto si tramuta in autovalutazione soggettiva). E qui mi chiedo: quanto è forte la tentazione nel dare a se stessi una valutazione sempre positiva? E con tale metodo si possono fare confronti in modo che si possa dire che una certa “relazione tra docente e studente” è migliore rispetto ad un’altra formata da una diversa coppia di studente e docente? Ci si basa “sulla fiducia”? Per la cronaca ecco un articolo che esprime in modo molto simile al mio questo timore:
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2013/3/1/SCUOLA-Lo-stratagemma-dell-astuto-Bertoldo-piace-a-certi-cattolici-e-alla-Cgil/print/368563/
e dove viene citato questo rischio del pensare che “La valutazione, pertanto, è possibile solo come autovalutazione, come ermeneutica dialogica, solo qualitativa, non quantitativa, solo interna, non esterna, solo dal basso, non dall’alto”.
Ecco, se si affermasse che le modalità “ermeneutiche” di valutazioni sono indispensabili ma sempre se integrate e completate con aspetti “oggettivi” allora io posso rileggere in maniera più positiva l’intervista. Il punto è sempre questo: a me pare che questa visione di “complementarietà” dei due approcci (che io ho auspicato rifiutando anche l’alternativa delle scienze “sapere superiore” sull’umanesimo) sia di fatto assente e in casi come questo articolo si enfatizza sempre più una visione in cui l’approccio umanistico sia il metodo di più grande valore e l’impressione di chi riceve questo messaggio è (anche se in vari casi si può sperare che l’autore del messaggio non intendeva questo risultato) che sembra che il più piccolo utilizzo di metodologie quantitative e oggettivo è qualcosa di pericoloso, da evitare il più possibile.
In quanto al “babau della cultura crociano-gentiliana” e di Croce e Gentile che oggi sarebbero “solo simulacri polemici e poco più” beh, mi sembra che sia inutile nasconderci dietro a un dito, questo orientamento culturale in Italia è molto potente anche oggi, prova chiarissima è l’ “appello alle scienze umane”
http://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:2457
commentato anche qui su “La letteratura e noi” e dove, oltre a citare favorevolmente Croce e Gentile, nonché le più varie personalità storiche italiane, ma dove vengono totalmente trascurati nomi legati alle personalità scientifiche italiane, primo fra essi nientemeno che Galilei.
A me risulta semmai che se esiste un babau culturale è proprio quello delle “scienze viste come unico sapere utile alla società”, quello della “tecnocrazia”, che oggi sembra proprio una parola usata allo stesso modo con cui si usava “stregoneria” in secoli passati. Ovvero, nessuno si autodefinisce tecnocrate, è una parola usata solo da avversari fortemente critici di tale orientamento culturale, i quali affermano comunque che i misteriosi sostenitori della tecnocrazia sembrano sempre più potenti anche se di fatto non agiscono mai allo scoperto, nel classico stile delle infalsificabili teorie del complotto. La realtà dei fatti invece è che il peso di personalità del mondo scientifico nel mondo politico mi risulta sia proprio scarso in Italia, non tanto per il numero basso di parlamentari laureati in materie scientifiche, quanto per il fatto che scarsamente nei provvedimenti politici vengono evidenziati nella discussione pubblica gli aspetti scientifici con l’aiuto di esperti nel campo, penso alle discussioni sull’impatto sull’ambiente di nuove infrastrutture, sull’opportunità di progetti in campo energetico (e non parliamo di casi recenti in cui sorgono “cure miracolose” per le quali la “piazza” invoca alla politica immediate sperimentazioni in barba alle procedure della comunità scientifica). Insomma, un babau della tecnocrazia che in realtà come “idea” deve comunque esistere per far sopravvivere questa visione dell’”umanesimo vera cultura suprema”.
Insomma, sia ben chiaro, proviamo ad evidenziare sempre di più la complementarità di questi due approcci visti come entrambi necessari e come componenti di una “sola cultura” e qui non si tratta neppure di essere innovatori o tradizionalisti, il vero problema è che spesso si intende la tradizione come “adorare la cenere” e non come “mantenere il fuoco” e le novità culturali e sociali dei giorni nostri impongono di far sì che i valori di ieri ritenuti importanti anche oggi (e dunque si parla di valori che non erano strettamente legati a situazioni sociali di un tempo ora non più presenti) debbano avere realizzazioni pratiche diverse da quelle di un tempo. Ed evitiamo che l’enfatizzazione di un certo valore finisca per demonizzare un valore ad esso complementare, insomma se si vuole evitare di morire a causa di un clima attuale troppo caldo non è che ci si dimentica del fatto che ci sono cause di morte per assiderazione, spero che sia ben chiara la mia posizione, non deve vincere nessuna delle due visioni, devono semmai essere superate.
Saluti.
distinguere le misurazioni ed et-et
A Mariangela,
le assicuro che io sono d’accordo su tutto quello che lei ha scritto, il problema infatti non è la valutazione ermeneutica in se stessa, ma se assolutizzata in modo da funzionare come “scusa” per far sì che i due membri della relazione pubblicamente comunicano agli altri autovalutazioni sempre altamente positive allo scopo di “farsi belli” agli occhi degli altri, a prescindere dalle reali autovalutazioni che si darebbero comportandosi sinceramente.
Perciò mi ritengo assolutamente a favore di questa valutazione ermeneutica, a patto che essa venga integrata con metodi di valutazione “esterna” basati non su aride procedure di misurazione diretta di “commozioni” ma semmai mediante una misurazione “indiretta” degli “effetti”, ovvero delle impressioni positive che i componenti della relazione e anche le persone ad essi vicino percepiscono (mi sembrava anche il Miur avesse tentato di proporlo anni fa). Ovvero non mi baserei su test diretti sugli studenti delle loro prestazioni in base ai loro test ma semmai mi baserei su rilevazioni incrociata indaganti quale “reputazione” godono i singoli docenti fra gli studenti, i genitori degli studenti e i colleghi (e analogamente, quale “reputazione” godono i singoli studenti in relazione a singoli docenti agli occhi degli altri studenti, ai genitori e ai colleghi, a prescindere dal voto che essi possiedono).
Spero che questo esempio concreto di valutazione “oggettiva” ma non così “asettica” e “distaccata” possa far comprendere meglio la mia posizione, che è su un “et et” e non su un “aut aut”, e che non si possono ridurre in modo omogeneo casi singoli irripetibili (e tuttavia, in fondo anche i psicologi e medici e nelle loro attività di “cura” sanno bene che l’elemento relazione ha un valore importantissimo e che ogni paziente ha una storia e una situazione di vita, unica, ma non per questo non ci sono tecniche mediche e terapeutiche che hanno un loro valore di efficacia che possiede un certo grado di indipendenza dall’unicità della relazione interpersonale).
Su Pierino e altro
Grazie a Michele, Daniele e Mariangela per l’interlocuzione. Qualche precisazione sulle questioni che avete sollevato.
– Su ciò che può e che non può essere contato. Non ho niente in contrario all’atto del “contare”, anzi ritengo che “ciò che si può contare” possa e in un certo senso debba essere contato. Per fare un esempio, a mio parere un test a risposta chiusa può verificare il possesso, in condizioni date, di nozioni e abilità elementari, non di competenze complesse, e meno che meno di abiti mentali o doti intellettuali. E’ uno strumento che può rivelarsi utile, a patto che non si presuma di fargli misurare qualcosa che è al di fuori della sua portata (presunzione nociva, che non è assente dalle pratiche valutative vigenti nelle nostre scuole).
– Su Pierino e le mie relazioni con lui. Come insegnante posso valutare, anche con una valutazione classificatoria, le prestazioni di Pierino, ma a mio parere non posso sottoporre ad analoga valutazione la sua persona. Posso dare un voto al modo in cui, in una situazione data, comprende, analizza, interpreta un testo letterario, lo colloca nel suo contesto. Non posso esprimere un giudizio unidirezionale sulla sua intelligenza, sulla sua collaboratività, sulla sua sensibilità, sulle sue doti morali. In ogni valutazione è presente una certa dose di soggettività (che non vuol dire arbitrarietà), ma la soggettività gioca un ruolo preponderante quando presumo di pronunciare un giudizio su un altro essere umano; in questo caso è opportuno riconoscere che non sto valutando lui o lei, ma la mia relazione con lui o con lei: il soggetto che valuta è al tempo stesso oggetto della valutazione. Questo non ha nulla a che vedere con una valutazione autoreferenziale; anzi, quanto più si moltiplicano e si confrontano i punti di vista (compreso quello di Pierino) tanto meglio è.
– Sulle competenze interpretative dei bambini. Quando i miei tre figli erano piccoli, raccontavo loro delle favole, come fanno tutti i genitori. Chiamo “interpretazione” la loro risposta soggettiva, emotiva, esistenziale al racconto, e la loro capacità di esprimerla con parole o con altri strumenti comunicativi. Senza questa componente, che a mio parere è presente fin dall’infanzia, non si dà esperienza letteraria.
– Sulle nozioni storico-letterarie. Penso che siano uno strumento indispensabile per aiutare gli studenti a misurarsi con l’alterità dei testi (l’interpretazione non è una proiezione solipsistica delle proprie pulsioni e dei propri orizzonti su un testo, ma un dialogo con esso: “esperienza di sé nell’esperienza dell’altro”, secondo la felice formula di Jauss).
Per ulteriori approfondimenti mi permetto di rinviare a tre interventi che potete trovare al link https://independent.academia.edu/GuidoArmellini
percorsi e conoscenze attive
A Guido Armellini:
vedo con mio piacere che le mie preoccupazioni di ambiguità dell’intervista sono venute meno grazie alla sua risposta, peraltro io ritengo che le valutazioni delle prestazioni dello studente dovrebbero tenere in enorme considerazione la diversità di indirizzi e quindi di percorsi scolastici scelti da ciascuno studente. Fermo restando che non conosco in dettaglio come le indicazioni ministeriali sono applicati nei vari licei, istituti tecnici e altre scuole, a me risulta francamente assurdo che in tutti i licei si abbia lo stesso numero di ore e soprattutto che si abbia lo stesso programma di lingua e letteratura italiana. Ritengo che sia abbastanza sensato che un maggior numero di ore e un programma molto più approfondito debba essere presente nei licei classico e linguistico mentre occorrerebbe un minor numero di ore e un programma meno specialistico e con meno autori negli altri licei e scuole (questo tuttavia più per l’aspetto letterario che per l’aspetto linguistico, in quanto quest’ultimo dovrebbe essere, negli altri licei e scuole, più che meno approfondito, modulato in modo diverso, più legato ad usi non letterari della lingua come quelli legati a materie scientifiche). Insomma, una valutazione che tenga conto dei percorsi di studio, dentro ciascuno dei quali quali tuttavia la valutazione intersoggettiva con metodi sia quantitativi che ermeneutici sia possibile e abbia anche valore.
A Mariangela Caprara:
una curiosità: cosa intende con ” gli alunni trovano in quel tipo di conoscenze una forte rassicurazione di base, certo frutto di una tradizione culturale che non piacerà a Michele Dr..” ? Intendeva il fatto che il “valutare le conoscenze storico-letterarie” ricorda un po’ troppo un insegnamento “passivo e trasmissivo”? Io ritengo di no, a patto che si precisi che per “conoscenze” si intenda appunto non un esperienza passiva del tipo “ho letto sul libro che i Promessi Sposi sono stati scritti e pubblicati in quei precisi anni, e dopo stesure avvenute in quegli altri precisi anni, quindi ho acquisito conoscenze sui Promessi Sposi”, ma semmai una vera e propria attività dello studente che mediante il docente che fornisce strumenti (fonti sulla vita del Manzoni e dell’Italia del suo tempo…), riesce a scoprire da sé tali conoscenze mediante un percorso (il quale non può essere saltato per arrivare subito al risultato, pena non comprendere per nulla proprio il risultato). Insomma qualcosa del tipo: queste fonti del tempo ci dicono che l’Italia al tempo del Manzoni era in una certa situazione e che Manzoni manifestava certe idee e azioni in quel tempo. Ora mediante questi materiali di partenza gli studenti leggono alcuni brani dei Promessi Sposi e si chiedono da soli “Che effetto poteva fare a quel tempo leggere una storia con al centro questi due personaggi? E con caratteristiche come la loro posizione sociale e con quel loro insieme di valori? E l’affermare come valore che i sentimenti non devono essere soffocati dai rapporti di potere? E mostrare certe posizioni sul tema della giustizia e sul tema di occupazioni straniere?
Ed è importante anche qui, come afferma Armellini, un’altra forma di operazione a cui invitare gli studenti a compiere attivamente (altro invito quindi a una didattica non trasmissiva e passiva) misurarsi con l’ “alterità dei testi” e quindi ammettere che non è possibile proiettare più di tanto le proprie concezioni sia di valori che di modalità di trasmissione su questo testo concepito in un contesto e in autore aventi diversi “orizzonti” però aventi comunque ancora qualcosa in comune con noi. Mi domando se in qualche classe è stato proposto qualcosa del tipo “Secondo voi un Manzoni di oggi cosa scriverebbe allo scopo di provocare fra i lettori di oggi reazioni analoghe a quelle percepite da lettori di quel tempo?” Mi immagino già studenti che proporrebbero “I promessi sposi omosessuali” oppure “I promessi sposi nella crisi economica”… Chissà. Comunque continuo a ripeterlo che nulla danneggia più il prestigio di Manzoni che proporlo come obbligo (la Divina Commedia è già più universale, ma anche lì va proposta a dosi minori di quanto lo è oggi, specie nei licei diversi dal classico al linguistico).
A Daniele Lo Vetere:
un ultimo piccolo appunto sulla reputazione dell’umanesimo e della scienza in Italia. Se si chiede a un uomo della strada se è più grave non conoscere le opere più importanti del Petrarca rispetto a non conoscere le leggi del moto scoperte da Galilei ho l’impressione che molti direbbero che nel primo caso è più grave in quanto si dimostra di non aver cultura mentre nel secondo caso semplicemente si dimostra di non essere esperti di fisica. La mia impressione è questa però spero che in futuro i sondaggi mi smentiscano…
Saluti.
in risposta
Ringrazio molto Armellini per le sue precisazioni soprattutto sull’ultima, a cui mi aggancio per rispondere a Michele Dr, che mi interpella (e che inviterei comunque ad assistere a qualche mia o altrui lezione di italiano, per dissipare certe sue eccessive angosce).
Caro Michele, io ho sperimentato che gli studenti desiderano fortemente essere istruiti nell’orizzonte dei dati storici, perché questo dà loro molta sicurezza. L’avevo già detto, interpellando Armellini, e lo ripeto. L’acquisizione di dati storicamente fondati è un’operazione molto semplice, per uno studente medio, e lo rassicura. Dunque chiedere questo tipo di lavoro come punto di partenza mi sembra una buona idea pedagogica per creare un clima di accordo, per stipulare un contratto con gli alunni: per prima cosa un mandato relativamente semplice, poi andiamo avanti. L’originalità dell’analisi è difficilissima da attingere per molti studenti; le attività che lei propone sono fattibili, anzi, si fanno senz’altro, ma mi creda, quell’insieme di alunni che noi chiamiamo classe è talmente eterogeneo, sempre, da non permettere di rifare ogni anno esattamente lo stesso percorso. Sta all’insegnante valutare, con un’intuizione che fa parte del mestiere e che non è misurabile, se, quando, come, cosa (e con/per quali allievi). Partire dai dati storici dunque può essere una buona pratica, ereditata da una tradizione storicistica (quella che mi pare a lei non piaccia: alludevo a questo), per mettere un po’ tutti al sicuro. In fondo, una biografia, una cornice storica, sono una bella narrazione coinvolgente… se la si sa fare. Per chiudere, e spero per chiarire definitivamente certe mie posizioni: io ho alle spalle una formazione filologica in senso stretto, e dunque il dato materiale (che diventa dato storico) mi ossessiona un po’. Però quest’ossessione mi ha aiutato finora a non lasciarmi suggestionare da certe nebbie intellettuali. La saluto caramente e la invito ad assistere a qualche lezione di italiano in una scuola, se non l’ha già fatto: sono sicura che tante sue angosce troverebbero modo di placarsi, e magari si ridimensionerebbe anche la sua idea di tagliare ore di italiano a favore di altre (questa idea è sbagliatissima, secondo me: ma non è questa la sede per discuterne).
qualche precisazione
A Mariangela Caprara:
sono lieto di venire a sapere che le attività coinvolgenti gli studenti in prima persona da me accennate sono di fatto già presenti alle sue lezioni di italiano, comunque, il “partire dai dati storici” (fermo restando il lavoro attivo da parte degli studenti) lo trovo irrinunciabile nella comprensione di testi letterari del passato, ciò che non amo della “tradizione storicistica” semmai è la pretesa di seguire un rigido ordine cronologico (incominciare con la scuola siciliana, alquanto distante culturalmente e soprattutto linguisticamente, da noi per iniziare il triennio di letteratura mi è sempre parso altamente controproducente), una pretesa enciclopedistica di trattare tutte le opere e una marginalizzazione eccessiva della letteratura straniera. Preciso inoltre che non ho affatto proposto il taglio delle ore di italiano, ma semmai al contrario di aumentare le ore e l’approfondimento di italiano e letteratura nei licei specializzati in studi letterari come il classico e il linguistico al posto dell’appiattimento presente negli ordinamenti attuali.
A Michele
Caro Michele, perdona il ritardo nella risposta, ma sapevo che Guido Armellini aveva intenzione di rispondere e non volevo sovrappormi.
Sulla scienza: penso che coloro che non si vergognano di non conoscere Petrarca oggi siano più di quanti non credi…
Umanesimo e scienza, cioè il sapere unitario di cui parli, sono oggi entrambi minacciati. Da chi e che cosa? Da nessun Grande Vecchio, da nessun Complotto Universale: ma dallo sviluppo di certe formazioni discorsive, per dirla con Foucault, precisamente da quella ossessione valutativa (efficientista e venale) di cui stiamo parlando in questi giorni qui su LN.
Davanti a ciò, davanti a questa minaccia che accomuna scienza e umanesimo (il sapere) non facciamo come i soliti capponi di Renzo. Pazienza se abbiamo avuto Croce e Gentile. Non è quello che brucia oggi.
Ieri sul Sole24ore c’era un bel pezzo in cui si parlava di quanto gli scienziati fossero una presenza fortissima dentro il Parlamento italiano quando l’umanesimo era ben più forte e la scienza era considerata da Croce e Gentile nel modo che ricordi tu. E’ colpa di questi due signori se oggi il nostro Parlamento di scienziati è privo? Mah…
La tecnocrazia non esiste? Anche in questo caso, qualche paranoico penserà magari alla Spectre, ok, ma il punto è che il potere è un dispositivo che si produce da sé, per ridirla con Foucault.
Le ore di italiano vanno ripensate, ma invece di ragionare per sottrazione (togliamo la letteratura per far spazio ad altro, togliamo parti di programma al di fuori dei classici e degli scientifici), io preferirei ragionare di trasformazione. E va fatta dall’interno, con pazienza, rimodellando i contenuti e le pratiche e non il curricolo (come fanno al Miur, l’unica riforma che sanno fare: cambiare l’architettura. A costo zero. Anzi no: con pesanti tagli). Tutto ciò richiede un investimento forte sugli insegnanti, investimento che al momento non c’è.
Si preferisce sproloquiare di meritocrazia: al ribasso, in condizioni di penuria, che è dire in condizioni di competitività feroce.
Quanto al rapporto tra contenuti (conoscenze storico-filologiche, contenuto di fatto) e attualizzazione (il tuo “Promessi sposi omosessuale o in tempi di crisi”), proprio l’ermenutica letteraria parla di un circolo costante tra identità e alterità, tra presente e passato, tra senso del testo e senso per noi.
Il lavoro sull’interpretazione è centrale e mai a sufficienza percorso nella nostra scuola. Ma non lo si ottiene per legge, né imponendo agli insegnanti controlli terzi, solo con tanta cultura. Non esiste una strada breve in questioni di didattica.
Saluti
poteri e cambiamenti
A Daniele:
effettivamente la concezione di Foucault del potere come proveniente “da ogni dove” e dunque anche da noi stessi è una illustrazione più plausibile dello scenario sociale attuale rispetto a visioni manichee del tipo “noi siamo dalla parte del bene il quale è evidente, facile da comprendere e non ambiguo, è solo a causa di un invisibile trama di nemici molto potenti che gran parte della società è dalla parte del male” ( e questo vale sia per tecnocrazie che per umanesimi anti-scienza), visioni che sono molto comode da accogliere soprattutto a causa di una pigrizia intellettuale che non riesce a riconoscere che certe applicazioni di certi valori funzionavano in contesti sociali passati mentre al giorno d’oggi, anche se manteniamo gli stessi valori non è più possibile continuare queste vecchie realizzazioni pratiche di tali valori in contesti nuovi. E’ tuttavia un atteggiamento di incapacità culturale che ho trovato molto diffuso, ad esempio in vari commentatori di “sinistra” all’ultimo articolo di Piras sul blog “Le parole e le cose”. Per questo mi sono così abituato che ho interpretato articoli come quello che qui commentiamo come facilmente interpretabili in quel modo.
Per il resto preciso che ritengo che il mio pensiero è che l’insegnamento di lettere debba essere ripensato rendendolo più approfondito e specialistico fra studenti futuri professori di lettere e traduttori e meno approfondito ma comunque rilevante tra studenti futuri scienziati, avvocati e artisti di grafica. Mi sembra una questione di buon senso, anche le ore di matematica allo scientifico non hanno ugual numero di quelle del linguistico, e comunque la quantità è secondaria, conta, come tu dici, soprattutto il contenuto che certo non si può imporre per legge ma questo non dovrebbe essere un alibi per far sì che all’interno delle aule tra molti docenti il metodo didattico resti immutato a prescindere da ogni invito a nuovi miglioramenti.