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«Solo ciò che non può essere contato conta davvero»: la «valutazione ermeneutica». Intervista a Guido Armellini

 A cura di Daniele Lo Vetere

D.L.V. Oggi la presenza mediatica del tema della valutazione (prove Invalsi, rilevazioni internazionali sulla literacy) è forte. Si tratta però sempre di rilevazioni standardizzate, allo scopo di rendere i risultati comparabili su scala nazionale e internazionale. Secondo lei tutto ciò sta schiacciando l’idea della valutazione su quella della misurazione?

G. A. A me pare che i paradigmi della complessità della conoscenza, che datano ormai agli anni Novanta, diventando senso comune abbiano prodotto l’effetto contrario alle loro intenzioni. Il rapporto con la complessità avrebbe dovuto farci familiarizzare con il senso del limite, renderci umili e consapevoli della nostra ignoranza, darci insomma una vera e propria «etica del limite». Invece assistiamo a una proliferazione della volontà classificatoria, che viene estesa ad ogni ambito, non solo quello disciplinare, ma anche quello psicologico (si pensi ai disturbi dell’apprendimento), sociale, etico.

In ambito scolastico il concetto di valutazione si fa sempre più coincidere con quello di classificazione, mentre valutare è una cosa più vasta e più seria. Valutare significa dare valore. In una relazione fra esseri umani significa valorizzarsi reciprocamente: un processo che può anche essere conflittuale, ma che si può attuare pienamente solo in un clima di gratuità. C’è poi quell’aspetto specifico e a mio parere secondario della valutazione, che consiste nel classificare gli studenti (cioè nel collocarli all’interno di una “classifica” gerarchica) in base ai livelli delle loro prestazioni in ambiti che dovrebbero restare ben circoscritti e delimitati e che invece tendono ad ampliarsi a dismisura. La valutazione – anche nel suo aspetto classificatorio – dovrebbe essere un mezzo per aiutare gli studenti ad imparare; l’ossessione classificatoria rischia di trasformarla da mezzo a fine dell’apprendimento. Se la valutazione è considerata dagli studenti e dagli insegnanti un mezzo, gli studenti non nascondono i loro errori, anzi li mettono in evidenza perché sperano che l’insegnante li aiuti a superarli. Se invece la valutazione diventa il fine, gli errori vengono tenuti accuratamente nascosti per evitare giudizi negativi, e l’apprendimento ne viene gravemente ostacolato.

D.L.V.: Ma la scuola non ha sempre dato voti, non ha sempre fatto classificazioni e discriminato fra chi sa e chi non sa?

G. A. È una questione di dosi. Valutare è necessario. Anzi un ragazzo, purché si fidi dell’adulto, desidera essere valutato (e vuole a sua volta valutare l’adulto). Bisogna individuare con precisione che cosa valutare, circoscrivere gli ambiti: innanzitutto chiarire che si classificano le prestazioni e non gli esseri umani; in secondo luogo capire che è possibile classificare prestazioni semplici e non prestazioni complesse. Quanto più la valutazione classificatoria diventa invasiva, tanto più si perde di vista tutto questo. Il maestro Manzi, per polemica contro le cervellotiche schede di valutazione introdotte negli anni ottanta, scrisse sulla scheda di ogni alunno questo giudizio: «fa quello che può; quello che non può, non fa». E questo non significa che non valutasse. Continuava a farlo, ma era una valutazione “calda”, umana, globale, dialogica, non classificatoria. A mio parere, il peccato originale sta nelle teorie della valutazione degli anni Settanta e Ottanta, quando si è stabilito che per obiettivo didattico si intende ciò che è verificabile con una prova. Ma in questo modo solo ciò che si può contare conta. Io invece penso che “ciò che veramente conta non può essere contato”, come ha scritto lo storico americano Irwin Thompson.

D.L.V. E nell’insegnamento della letteratura che cosa può “essere contato” e che cosa no?

G.A. Qual è lo scopo massimo di un insegnante di letteratura, la cosa che più qualifica l’insegnamento della nostra materia? Che gli studenti, usciti dalla scuola, continuino a leggere, imparino il piacere della lettura. Ma non si può classificare il desiderio di leggere. Con la lettura c’è un rapporto di gratuità. Il nostro massimo obiettivo non può “essere contato”.

Per capire quali siano le competenze che possono essere contate e quelle che non possono esserlo, occorre ragionare sulla stessa parola «competenza». In ambito buro-pedagogico si susseguono mode linguistiche e alcune parole si caricano di un effetto salvifico, tanto da divenire polisemiche. Su quelle parole i pedagogisti e gli ispettori ministeriali proiettano tutti i propri desideri. Così, per esempio, si attribuisce al concetto di «competenza» il merito di «mettere al centro lo studente». Bella scoperta. Non ne parlavano già Montessori, Pestalozzi… ? A questo significato della parola si è aggiunto quello dei documenti europei che parlano di «competenze chiave»: competenze che – ecco qui il passaggio fondamentale – devono essere certificate. C’è un primo aspetto di tipo politico da considerare: con «competenze chiave» quei documenti intendono in prima istanza le competenze funzionali mercato del lavoro. Siamo sicuri che siano le stesse di cui dovrebbe occuparsi la scuola, che siano solo quelle le competenze necessarie a dei cittadini e a degli esseri umani per crescere e realizzare se stessi?

C’è poi un’obiezione di tipo pedagogico-didattico: in generale con «competenza» si intende un condensato di “sapere”, “saper fare” e “saper essere”: le conoscenze + le abilità + le attitudini umane. Se si leggono i documenti nazionali ed europei sul tema, fra le competenze si trovano requisiti umani encomiabili come «avere spirito d’iniziativa», «essere collaborativi», «saper lavorare in gruppo»… ma se mi prefiggo di sottoporre questi aspetti etico-sociali a una valutazione classificatoria, devo poi fornirne indicatori e descrittori di livello, individuando per esempio una tassonomia dei possibili gradi di “collaboratività”. I risultati che ho visto sono grotteschi: se si dà retta a quelle tassonomie, un ragazzo che fa seriamente il suo lavoro ma è di indole riservata e silenziosa è inesorabilmente condannato ad essere classificato ai livelli più bassi. Quando poi scendiamo nel campo delle materie scolastiche, si naviga nella nebbia. Che cosa significa, poniamo, valutare la “collaboratività” in campo letterario? La scuola è un ambito diverso dal mondo lavoro, è una zona franca, ed è un bene che sia così.

D.L.V. In un recente Quaderno della ricerca Loescher dedicato al progetto Compìta (Per una letteratura delle competenze, a cura di N. Tonelli, Loescher, 2013), a proposito delle tabelle di indicatori e descrittori delle competenze letterarie che quel progetto sta tentando di mettere a punto, lei ha osservato come «forse siano le stesse regole e convenzioni che attualmente governano il genere letterario “tassonomia pedagogica e didattica” a produrre (inevitabili?) aporie e incongruenze», tanto più in una disciplina fondata sull’interpretazione e sulla «centralità del lettore» come la letteratura. Secondo lei, nell’insegnamento della letteratura sono impossibili «formalizzazioni generalizzanti»? Lei stesso scrive in quell’intervento che oggi «l’educazione letteraria non può fare a meno del concetto di “competenza”, inteso nella sua forma più elementare di “saper fare qualcosa di (relativamente) nuovo».

G.A. Un esempio di competenza in campo letterario può essere questo: presento agli studenti un sonetto di Petrarca e uno di Dante mai visti prima e chiedo loro di provare ad attribuirli all’autore giusto sulla base delle caratteristiche del testo, spiegando i motivi dell’attribuzione. Saper riconoscere un sonetto di Petrarca e spiegare in cosa sia diverso da uno di Dante è un esercizio di contestualizzazione ed è una competenza, nel senso che lo studente dimostra di saper fare qualcosa di relativamente nuovo con ciò che sa. Ma con questo non mi occupo del «saper essere» (ad esempio della passione per la lettura), mi concentro su una consegna più specifica.

A me pare che il difetto delle tabelle del progetto Compìta sia che esse assumono come criterio ispiratore la vecchia tassonomia di Bloom, che era fondata su un’idea di apprendimento lineare ed unidirezionale, per successione di obiettivi. Ciò è paradossalmente in contrasto con le intenzioni stesse del progetto, che persegue invece un’idea di insegnamento ben lontana da quella del comportamentismo di Bloom. Ma a voler definire tutto si finisce per dover far ricorso a un complicato linguaggio misto di pedagoghese e critichese. Penso che sarebbe più utile abbandonare la presunzione dell’oggettività e dell’onnicomprensività, e camminare nella direzione dell’intersoggettività. Penso che si possa arrivare a una definizione condivisa di competenze solo costruendo un senso comune fra gli insegnanti e facendo ricorso a una terminologia univoca e semplice, che esibisca la sua convenzionalità. Nel mio ultimo libro [La letteratura in classe: l’educazione letteraria e il mestiere dell’insegnante, Milano, Unicopli, 2008, n.d.r.] ho proposto cinque competenze, descrivendole brevemente: comprendere, analizzare, contestualizzare, interpretare e riscrivere. E’ un repertorio senza pretese, al limite della banalità, ma credo che se lo si sostanzia in operazioni ben precise e adeguate ogni volta ai testi su cui si lavora possa risultare utile.

D.L.V. Proprio nel suo libro La letteratura in classe lei distingue tre forme di valutazione dello studio letterario: una tradizionale, diciamo desanctisiano-crociana, basata sull’endiadi «esporre e commentare» (contestualizzare un testo o un’opera dentro la storia della letteratura e valutarli esteticamente, anche se quest’ultima operazione si riduceva poi spesso alla ripetizione della valutazione estetica dell’insegnante o del critico); una di tipo formalistico, che lei critica apertamente perché riduce il lavoro sul testo a uno smontaggio strutturale fine a se stesso (trovare il punto di vista, le figure retoriche, …) completamente sganciato dalla molla dell’interpretazione, dal desiderio di trovare nel testo il senso per sé; una, ancora tutta da sperimentare nelle nostre classi, che lei chiama «valutazione ermeneutica». Quali sono i presupposti teorici di questo tipo di valutazione e che cosa la rende diversa sia dalla valutazione “tradizionale” sia da quella formalistica? Può farcene qualche esempio concreto?

G. A. Il limite della vecchia pedagogia formalistico-strutturalista stava nel porre come obiettivo autofinalizzato quello dello smontaggio dei testi, che invece dovrebbe restare solo un’operazione strumentale. Gli strumenti narratologici, retorici, metrici sono utili, ma non possono essere usati come fini in sé.

Propongo un esempio tratto dal mio artigianato didattico: stavo leggendo in classe (una terza di istituto tecnico) il sonetto Chi è questa che ven…, del Cavalcanti, e mi ero soffermato in particolare sul secondo verso: che fa tremar di chiaritate l’âre, con l’intenzione di far notare agli studenti che il ritorno, in posizione metricamente forte, di una vocale chiara come la a, unita all’assenza di suoni scuri come u e o, conferisce all’immagine un carattere luminoso, grazie all’alleanza tra il significato delle parole e quello dei suoni. Volevo anche sottolineare che questo fenomeno si verifica solo nella poesia, e quando c’è una certa convergenza tra il senso e il suono delle parole; a questo scopo mi ero preparato anche un contro-esempio: se, in una conversazione quotidiana, dico: “Amo tanto la pasta all’arrabbiata”, le a toniche non producono alcun effetto di luminosità. Questa era la mia intenzione. Invece il discorso si è svolto più o meno così:

PROFESSORE (scrive il verso sulla lavagna): Che cosa notate di particolare?

(pausa di silenzio).

ALUNNO A: ci sono molte r.

PROFESSORE: (preso in contropiede): Eh? Fammi un po’ guardare… (volta la schiena alla classe e verifica sulla lavagna) E’ vero. Dunque… come possiamo interpretare…

ALUNNO B (accusatorio): Leggendo le “rime petrose” lei ci ha detto che le r ripetute danno un’idea di durezza; ma qui la durezza non c’entra proprio per niente.

PROFESSORE :…

ALUNNO C: A me danno un’idea di vibrazione…

ALUNNO A: Come uno sfarfalleggiare…

ALUNNO D: Come una specie di vibrazione luminosa.

A questo punto il mio discorso sulle a poteva integrarsi tranquillamente con quello iniziato dalla classe; ma gli studenti erano già arrivati per conto loro al nocciolo del problema, confrontando le r crude e aggressive delle “rime petrose” con quelle aeree e frullanti del verso in esame.

Nel dibattito gli studenti hanno messo in atto una serie di competenze, applicando conoscenze acquisite a un testo per loro nuovo e contribuendo alla costruzione cooperativa dell’interpretazione. La questione delle a e delle erre è significativa in quel momento, nel contesto del rapporto tra me e gli studenti. Questo processo interpretativo non si presta a misurazione e classificazione, è un processo complesso, ma proprio per questo interessante. L’interpretazione non è la ripetizione dell’interpretazione di qualcun altro, ma la ricerca del significato per me / per noi, e quel significato può essere diverso per me e per gli studenti. Da questo punto di vista l’interpretazione non è una competenza che si raggiunga soltanto da grandi: è il momento centrale dell’esperienza letteraria fin dall’asilo, dalla scuola elementare, quando si iniziano ad ascoltare o a leggere i primi racconti e le prime poesie.

D.L.V. La competenza «interpretazione» come può essere valutata? Può esistere un indicatore come «sa interpretare»?

Si può valutare la capacità di interpretare, ma essa deve essere concretizzata in consegne che garantiscano un certo grado di consenso intersoggettivo (una domanda evocativa del tipo “che sentimento suscita in te questa poesia?” è rigorosamente da evitare). Finché si resta sul piano della comprensione letterale, il grado di oggettività è elevato: i leopardiani sempiterni calli hanno un significato preciso, non stanno evidentemente sulle piante dei piedi del poeta. Su questo non c’è discussione. Ma già la decisione su come valutare la comprensione letterale implica una buona dose di soggettività, perché è l’insegnante che deve decidere quanto vale il fatto di sapere o non saper riconoscere il significato di un’espressione come quella. Questa soggettività non può essere eliminata grazie a un’impossibile oggettività, piuttosto la decisione dovrebbe essere negoziata fra colleghi, risolta intersoggettivamente.

Se passiamo dalla comprensione all’interpretazione, i criteri valutativi si fanno più complessi. Un criterio fondamentale è che nella risposta siano in gioco sia il punto di vista dello studente, sia l’alterità del testo, la relazione tra i due. Posso sottoporre allo studente due giudizi critici contrapposti su un’opera, e chiedergli quale dei due condivide e perché, facendo riferimento alle valutazioni critiche, alle caratteristiche del testo in esame, e alle proprie propensioni o idiosincrasie letterarie. Un approccio di questo tipo, che parte dalla concretezza delle consegne e non dall’astrattezza degli elenchi di “obiettivi”, mi pare più utile che lambiccarsi nell’impossibile tentativo di fare una tassonomia di tutti i possibili percorsi del rapporto con un testo.

Con alcuni colleghi abbiamo lavorato sulle domande dell’analisi del testo dell’Esame di Stato (tipologia A), chiedendoci che tipo di competenze e di abilità presupponessero. La conclusione è stata che si tratta di domande a cui è quasi sempre impossibile rispondere: domande interpretative spacciate per domande di comprensione. Per esempio, a proposito dell’incipit della Luna e i falò: “I paesi e i luoghi della propria infanzia sono indicati dal protagonista con i loro nomi propri e con insistenza. Spiegane il senso e la ragione”. Quale sarà mai la spiegazione del senso e della ragione? Forse non la conosceva neanche Pavese. Non si possono togliere del tutto le pieghe al testo letterario («spiegare» significa proprio questo), il testo letterario ha una sua polisemia e se lo scopo è ricondurre tutto a un’unica spiegazione, a una e una sola risposta giusta, allora è meglio utilizzare altri tipi di testo. Ricordo anche una serie di domande su L’isola di Ungaretti, che è quanto di più inafferrabile ci sia in poesia, domande che presupponevano che si potesse trovare un significato univoco per ogni immagine. Ciò che capita è che persino l’insegnante che corregge la prova di italiano deve cercare di ricostruire ipoteticamente quale brano critico abbia letto l’ispettore ministeriale, perché quelle domande evidentemente presuppongono un’interpretazione precostituita. Con quei gruppi di colleghi abbiamo provato a formulare domande sensate sulla base dei cinque tipi di competenze di cui parlavo prima. È un lavoro interessante e molto impegnativo: fare domande sensate su un testo letterario non è affatto facile. Ma questo è il nostro mestiere: un artigianato che è che anche pensiero, perché implica una riflessione sul senso della letteratura e sul senso dell’insegnamento. Spesso noi insegnanti nutriamo un senso di inferiorità nei confronti del sapere accademico, sia in campo pedagogico sia in campo letterario; ma il nostro mestiere è fondato su un sapere relativamente autonomo, che certo deve interagire con gli altri, ma che ha una sua specificità. Il criterio per valutare la qualità del mio lavoro non sta nella maggiore o minore vicinanza al sapere accademico, ma nella qualità della relazione che si è instaurata fra le opere letterarie e i miei studenti. Il mio scopo non è di trasmettere agli studenti le prospettive più aggiornate e accreditate della critica, ma di aiutarli a sviluppare una loro interpretazione, che può anche andare in una direzione completamente diversa.

D.L.V. Riassumendo: la valutazione è un concetto più ampio di quello di misurazione, classificazione, certificazione. Il rischio maggiore cui stiamo andando incontro è che un’alleanza perversa fra misurabilità degli obiettivi di stampo comportamentista-cognivista e concetto di competenza esteso ad ogni aspetto delle attitudini umane, persino quelle etico-sociali, porti a moltiplicare le tassonomie e a pretendere di certificare persino qualità come la sensibilità alla lettura o la disponibilità agli altri. La valutazione ermeneutica al contrario, cerca di recuperare la complessità della valutazione ma senza cadere in questi paradossi inquietanti.

Una valutazione ermeneutica è dialogica, bidirezionale. Se io dico «Pierino non è intelligente, non comprende, non si impegna», non sto definendo Pierino, ma sto parlando di me, della qualità del mio rapporto con lui. E’ epistemologicamente scorretto trasporre questa notazione relazionale in un giudizio unidirezionale. La forma corretta è: «io e Pierino non ci capiamo, la relazione fra noi non funziona», e se Pierino è grande posso anche sottoporgli questo problema e discuterne con lui. Questo tipo di valutazione, che è fondamentale nella relazione didattica, è del tutto incompatibile con una formalizzazione classificatoria.

Venendo a ciò che invece può essere sottoposto a classificazione, bisognerebbe tener conto del grado diverso di coinvolgimento soggettivo richiesto all’insegnante dai diversi tipi di competenza. Quanto più ci si avvicina alla competenza interpretativa, tanto più entra in campo la soggettività dello studente, e di conseguenza anche quella dell’insegnante. Ovviamente è sempre l’insegnante che si assume la responsabilità finale di classificare, di dare il voto, ma il processo con cui si arriva alla valutazione è dialogico, e comporta una forte propensione all’ascolto e un altrettanto forte disponibilità allo spiazzamento. 

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