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diretto da Romano Luperini

scott bergey.1

Dopo la specialità. Studenti assoluti e studenti relativi

I confini della comunità sono aperti a tutti: anche – e soprattutto – a coloro che sono reciprocamente estranei e che estranei vogliono rimanere.

J. Habermas

L’espressione Bisogni Educativi Speciali è stata impiegata per la prima volta nel rapporto Warnock del 1978 per oltrepassare il concetto di handicap e per tentare di rinnovare il sistema educativo inglese. Oggi, prevalentemente per effetto della circolare ministeriale del 6 marzo 2013,l’acronimo BES dilaga nel dibattito pedagogico italiano, nei corsi di aggiornamento per insegnanti, nelle discussioni tra scettici e persuasi. Prima di prendere posizione sui BES, bisognerebbe però vagliarne i presupposti teorici nella forma quanto più condivisa e collettiva possibile.

Il bisogno clinico pan-inclusivo

I BES si fondano su di un’individuazione diagnostica dei bisogni di ciascuno. Verso tali bisogni i consigli di classe progettano un’azione didattica personalizzata. Nei BES è il singolo a difettare in qualcosa: ad essere disfunzionale in un’area, ad essere fragile in una dinamica, a dover ricevere aiuto e di conseguenza a dover sopportare lo stigma della debolezza, culturale, linguistica, economica, sociale, comportamentale, psicologia o biologica che sia. L’ottica dei BES coincide con una visione clinica delle persone (1): con I BES si vorrebbe superare il “particolarismo” dell’aiuto fornito ai soli alunni certificati, ma per far ciò si sbalzano in primo piano le difficoltà individuali, oggettivandole per via medica e decontestualizzandole. La prospettiva della classificazione ICF in questo modo si infrange contro il muro pan-inclusivo di una personalizzazione tanto capillare quanto invasiva.

Si tratta di un approccio, a ben guardare, non soltanto arretrato sul piano scientifico, ma anche controverso sul versante etico e politico (2). Come già spiegava Foucault nel 1976 (3):

il momento in cui si è passati da meccanismi storico-rituali di formazione dell’individualità a meccanismi scientifico-disciplinari, in cui il normale ha dato il cambio all’ancestrale, e la misura ha preso il posto dello status, sostituendo così all’individualità dell’uomo memorabile, l’individualità dell’uomo calcolabile, questo momento in cui le scienze dell’uomo sono divenute possibili, è quello in cui furono poste in opera una nuova tecnologia del potere ed una diversa anatomia politica del corpo.

L’a-normalità, come si può facilmente intuire, emerge da un confronto con la cosiddetta normalità e viceversa. Nelle società rurali, ad esempio, dove non vi è necessità di ricorrere all’uso quotidiano e sistematico del pensiero simbolico astratto, i deficit cognitivi di natura lieve non vengono neppure notati, o comunque non sono ritenuti problematici o invalidanti per le persone. Nelle società a conoscenza avanzata, al contrario, i ritardi mentali sono considerati gravemente handicappanti, quasi che un difetto di intelligenza mutili i requisiti essenziali stessi della persona (4).

Dell’intrinseca relatività di ogni classificazione – e ancor di più della matrice culturale della tendenza a classificare le persone – insomma, i BES non si fanno carico, contrabbandando un modello pseudo-scientifico a sfondo iatrogeno, come lo ha definito Iosa, per verità.

Sennonché la verità nelle relazioni educative è processuale e provvisoria per definizione. Farsene carico in forma autoriflessiva è il primo passo che un docente consapevole deve compiere se davvero vuole includere e non colonizzare le altrui diversità.

La risposta burocratica

Nel nostro sistema scolastico l’intervento educativo individualizzato per rispondere ai bisogni speciali (ancor più dopo l’emanazione della circolare sui BES) è spesso inteso in forma burocratica: si rilevano gli eventuali disagi con una scheda diagnostica, si progetta un piano di studi calibrato, si predispongono delle misure dispensative o compensative; si stilano, insomma, documenti e si compilano modelli. Scarso, o meramente formale, è invece il richiamo alla cura della didattica, spesso affidata, anche in presenza di docenti specializzati, alla capacità d’inventiva dei singoli. La didattica inclusiva è per lo più estemporanea, improvvisata, o peggio ancora ripetitiva e standardizzata verso il basso, verso una semplificazione del tutto banalizzante dei contenuti. Essa è inoltre quasi sempre delegata al solo docente di sostegno, quasi che le prassi inclusive possano fondarsi su una divisione dei ruoli già di per sé escludente.

Lo studente assoluto

L’enfasi sugli aspetti clinici, iatrogeni e diagnostici dei bisogni individuali, insieme alla risposta didattica formulata in termini essenzialmente burocratici e meramente tecnici producono una scissione nella relazione educativa: lo specialista viene separato dal docente curricolare (a sua volta specialista di un sapere disciplinare), lo studente viene scisso dal docente (cioè considerato il polo oggettuale della relazione educativa), mentre l’alunno normale è scisso dall’alunno speciale (la definizione identitaria antitetica dell’uno appare necessaria alla definizione dell’altro). Lo studente speciale/normale acquisisce così una soggettività reificata, delineata con tratti decisi, dicotomici (clinici/non clinici) e frettolosi (d’improvvisazione didattica).

Lo studente così rappresentato manca sovente di evoluzione e fatalmente conferma i giudizi e le aspettative su di lui avanzate. La sua parabola scolastica – e spesso umana – è ricorsiva. Lo studente, proprio perché drasticamente ridotto a sintomo o a “caso”, diviene in breve un io-assoluto che si ripete nel bene come nel male. Alla base della costruzione dello studente assoluto (5) vi è però uno sguardo pedagogico dilemmatico, basato sulla separazione netta dell’osservato dall’osservatore. Lo studente assoluto, potremmo anche dire, è la messa in essere di un gigantesco effetto Pigmalione che ci attrae perché per gli studenti può risultare autoconfortante (i limiti personali divengono problemi oggettivi invalicabili); mentre per i docenti può essere assolutorio (le azioni educative se risultano fallimentari lo sono di necessità).

La riduzione della realtà a protocollo e delle identità a bisogni apre quindi spazio alla credenza che vi siano studenti a tutto tondo, con tratti comportamentali fissi, prevedibili, ma difficilmente modificabili. Le categorie di lettura di questi studenti sono solitamente povere e, al netto delle parafrasi burocratiche degli insegnanti, si riducono a tre: il rendimento, il comportamento, l’impegno mostrato. A questi studenti così pedissequamente fedeli al punto di vista dell’osservatore se ne possono affiancare altri, a condizione però che le nostre classificazioni e categorie vengano poste sotto esame al pari dei bisogni e delle difficoltà altrui.

L’educazione per tutti

L’UNESCO sin dal 2000 ha sostituito in svariati documenti la parola BES con l’espressione Education for all. L’Education for all, come ha spiegato recentemente Roberta Caldin, scommette su di un modello inclusivo di sistema in cui le buone prassi e le azioni politiche sono volte a modificare il contesto escludente e non già la persona esclusa. L’Education for all presuppone dunque una ecologia dell’azione educativa che si dispiega in una proposta sociale ampia. Il fondamento di questo modello sono i diritti fondamentali delle persone verso cui tutti noi – a condizione che lo scegliamo eticamente – abbiamo una «responsabilità comune differenziata».

Si noterà che parlare di educazione per tutti in luogo di bisogni educativi speciali non esprime solo uno scelta semantica, ma un vero e proprio rovesciamento di paradigma. L’educazione per tutti difatti ci orienta verso una drastica riduzione dell’enfasi sugli aspetti clinici, distanzianti e pseudo-oggettivanti della relazione educativa. La responsabilità della scelta inclusiva in questo approccio viene esplicitamente assunta insieme alla parzialità di visione che essa comporta.

Lo spiega bene Habermas (6) a proposito delle minoranze interne agli stati:

sia nella regolazione di materie culturalmente delicate (…), sia anche in questioni più ordinarie (…) vediamo spesso rispecchiarsi semplicemente l’autocomprensione etico-politica di una cultura di maggioranza, predominante per tutta una serie di ragioni storiche.

Se la cultura di maggioranza si confonde con la cultura politica tutta, difatti, sarà essa a dettare sin dall’inizio i parametri dei «discorsi di autochiarimento». Da questa confusione scaturiranno, proprio come accade nel caso clinico-politico dei BES, forme più o meno velate di discriminazione. La discriminazione non può essere eliminata statuendo mondi separati, ma solo attraverso «una inclusione che sia sufficientemente sensibile allo sfondo culturale delle differenze individuali e di gruppo». Potremmo anche dire che l’inclusione per tutti impone una continua riflessività degli sguardi.

La risposta relazionale

Il campo d’azione dell’educazione per tutti è allora la relazione fra le alterità, ovunque esse si trovino, a scuola, a casa, per strada. In questi ambienti, e vieppiù a scuola, è necessario – necessario nel senso normativo che le scelte etiche impongono – che tutti coloro che partecipano alla situazione educativa in forma implicita o esplicita, formale o informale si adoperino per modificare le situazioni problematiche, discriminanti, fallimentari, dolorose. Per far ciò serve non tanto (o soltanto) stilare carte, approntare protocolli, specializzare insegnanti, separare ambiti d’intervento, quanto:

  1. pre-occuparsi in modo co-responsabile delle relazioni educative e dei loro sfondi culturali. Il che vuol dire saper ricercare “la verità” delle situazioni educative in forma intersoggettiva.

  1. investire la didattica inclusiva di compiti ricognitivi e di mandati sperimentali, affinché si ricavino da essa profili di osservazione più maturi, scelte educative motivate, articolate, condivise. Il che significa stabilire all’interno del campo educativo nessi causali circolari.

La risposta relazionale richiede inoltre che si soggettivizzi (non classifichi) pienamente il polo generalmente più debole della relazione educativa, quello cioè degli studenti.

Lo studente relativo

Gli studenti, al di là dei nostri giudizi stereotipati, sono intrigo di «esposizione e domanda che si costruisce nel tempo e nella relazione» (7). Lo studente quando arriva a scuola e ci parla, quando non torna a scuola e ci interroga, quando fallisce e quando riesce entra in rapporto con un realtà mutevole, storicamente determinata, finita. In rapporto a questa realtà, di cui noi siamo parte, egli è relativo. I suoi tratti distintivi sono: la temporalità (vive in un contesto, in un epoca, in una cultura); la mutabilità (cambia, cresce, evolve, involve); e la relazione (quale luogo indispensabile della reciproca conoscenza).

Il sentimento della relazione guida i suoi sguardi e conduce i nostri ad una costruzione della sua immagine identitaria plurivocale e sfaccettata. Gli studenti relativi, concepiti come esseri umani realmente vivi, dialoganti e responsivi, non possono coincidere con un’idea, con un cliché o con uno stereotipo; non possono essere classificati, ma sono di volta in volta, nell’esposizione all’altro, un nome e un volto singolari. Gli studenti relativi possiedono una soggettività, non una specialità.

La critica delle identità come semper idem e semper unum è iscritta nella tradizione modernista dell’Occidente. E’ bene che anche gli insegnanti ne prendano pienamente atto nelle loro pratiche di lavoro liberando gli studenti dal peso di giudizi insufficienti e inappropriati. L’inclusione, grazie alla radicale alterità e ai continui fallimenti a cui espone chi la tenta, è la migliore occasione per farlo.

_____________ 

NOTE

L’immagine è di Scott Bergey.

1) Sulla visione clinica delle persone interessanti sono le posizioni di Raffaele Iosa nel ciclo di interventi dedicato a La grande malattiaEd anche qui su LN.

2) Il richiamo ai BES come categoria non scientifica ma politica è di Dario Ianes: «il concetto di BES e’ politico, nella misura in cui stabilisce, come macro categoria, quali siano le situazioni che hanno diritto a forme di individualizzazione e personalizzazione nella scuola». 

3) M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2003 (1976), p. 211

4) Cfr. P. Pfanner, M. Marcheschi, Il ritardo mentale, Il Mulino, Bologna 2005 p. 8: «nella condizione del ritardo tutte le capacità appaiono ridotte e le passioni impoverite e distorte. Una condizione-limite che sembra negare, non l’ideale di bellezza o di bontà, ma l’essenza stessa dell’umanità».

5) L’opposizione semantica studente assoluto/ studente relativo ripresa anche in seguito è inspirata alle categorie di personaggio assoluto, personaggio relativo di E. Testa, Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Einaudi, Torino 2009.

6) I riferimenti ad Habermas sono tratti da J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli 2008 (1996), p. 157

7) E. Testa, Cit., p. 103.

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