Leggere a scuola poeti del presente, del passato prossimo e del passato remoto
Ho letto con grande interesse il «Breve annuario di poesia» di Maria Borio. L’ultima parte dell’intervento, dove l’autrice parla di «bilanciamento tra il tradizionale e l’innovativo» e invita a rispettare e assecondare il «dinamismo» della poesia contemporanea, mi ha trovato concorde e, da insegnante, interessato alla proposta. Vorrei aggiungere alle sue alcune mie considerazioni di ordine didattico, forse sparse, non del tutto sistematizzate. Prima però vorrei fare una premessa.
«It’s the end of the world as we know it (and I feel fine)»
Appartengo a una generazione, peraltro la stessa di Borio, cresciuta avendo nel sangue o avendo assorbito col latte materno la familiarità con una communis opinio strana, che oggi mi pare aberrante, storta, un colossale accecamento collettivo: l’idea che la letteratura fosse morta e che essa fosse o un magnifico monumento non più perfettibile, verso il quale era possibile solo l’ammirazione postuma di pochi, o, in alternativa – ed è poi il verso del primo atteggiamento –, una inutile rovina offerta allo sguardo distratto o al disprezzo di molti altri. (Le definizioni generazionali sono dozzinali e generiche, lo so: me lo si perdoni, a beneficio dell’economia del discorso. D’altra parte Borio potrà smentirmi).
Provo a spiegarmi meglio con un aneddoto. Qualche tempo fa, su Radio Tre, un compositore contemporaneo riferiva di aver avuto il seguente scambio di battute con un vicino di scompartimento, incuriosito dal fatto che l’altro stesse appuntando delle note su uno spartito: «Che mestiere fa?»; «Faccio il compositore»; «Il compositore? Ma la musica classica non è stata ormai già scritta tutta?». Insomma: noi veniamo dopo, la storia è finita.
Vale la pena sottolineare che questa percezione, comunissima e pervasiva, di una cesura direi ontologica col passato può non avere assolutamente nulla di drammatico o angosciante. Non si scrivono più grandi libri, non si compone più musica colta? Pazienza, non è mica la fine del mondo. È finita solo la storia e non è grave. Forse postmodernità, a livello di massa (e tutti viviamo immersi nella cultura di massa), significa solo questa quieta coscienza di vivere in un presente ovvio e un po’ scipito, un eterno tempo della cronaca, ma senza che questo provochi nessun trauma particolare. Ci si abitua così a pensare che la grande letteratura sia passata («La letteratura italiana è finita con Fenoglio», mi spifferò una collega, però di una generazione avanti alla mia) e si finisce per ignorare troppo di quella presente, o di riservarle solo gli spazi deputati al privato diletto, all’hobby senza conseguenze sociali. Per la poesia in particolare, ho sempre la sensazione che viga ancora l’assunto che essa sia defunta ben prima della prosa e mai più risorta: si scrive ancora, sì, ma i grandi poeti… Ma vengo alla didattica.
Poeti del presente, del passato prossimo, del passato remoto: contro la «fine della storia».
La difficoltà di insegnare la poesia, credo, viene soprattutto dal fatto che anche noi docenti non ne leggiamo molta, se non in casi rari, e spesso ignoriamo quella contemporanea. Come dice giustamente Borio, portiamo in classe Ammaniti o Saviano, ma non facciamo lo stesso con i poeti loro coetanei. Con la poesia – meno con racconti, romanzi, saggi – noi insegnanti ci troviamo più facilmente a disagio e abbiamo bisogno di una guida: ciò significa, in sostanza, che la affrontiamo solo a patto che essa sia storicizzata, canonizzata, sedimentata nei manuali. Credo che siamo solo poco abituati a leggerla, o meglio, quello strano accecamento collettivo della fine della storia ci ha disabituato a farlo. (O forse ci fa troppa paura? Troppo alta, ermetica, quasi sacrale? Ma ciò non è in contraddizione con la sua proclamata scarsa rilevanza? Chiudo qui la parentesi).
Penso però che se oggi vogliamo diffonderla fra i nostri studenti, dobbiamo riprenderla in mano, tornare a leggerla e a parlarne, dando un’occhiata ai pochi scaffali che le sono dedicati nelle librerie, alla ricerca di qualche novità, o, se su quegli scaffali le presenze sono sparute, frequentando la rete su siti selezionati. Tornare a leggere la poesia. E aggiungerei: farlo con una freschezza nuova, con maggior libertà, vorrei dire anche spregiudicatezza.
A scuola dovremmo riflettere su come “intrecciare” didatticamente la lettura di autori da sempre canonici, di autori che nel canone sono appena entrati, di autori per noi affatto nuovi (cosa che non sempre equivale a dire «giovani autori»). Credo che sarebbe bene perciò muoversi su tutti questi tre piani:
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continuare ad affrontare i poeti che già affrontiamo, anche se temo che tra la vita che fugge, il tempo scolastico che non s’arresta un’ora e le nuove necessità didattiche (come quelle che qui si avanzano: se le si accoglie, ovviamente) dovremo cominciare a discutere di alcune dolorose scelte: se non di rimozioni, almeno di ridimensionamenti;
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aprire ad autori novecenteschi ormai classici, rifornedosi agli inquadramenti critici che già esistono. A me piacerebbe che gli studenti, grazie alla scuola, conoscessero bene (insomma: non una poesia a fine anno e via) almeno un paio di autori a scelta tra Luzi, Giudici, Pozzi, Zanzotto, Sanguineti, Sereni, … se poi sono tre, brindisi!;
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leggere poeti viventi e sui quali i quadri interpretativi sono invece molto labili, sparsi, non sistematizzati.
Specificamente sull’ultimo punto: lo so, è un rischio, perché ci si muove su un terreno molto scivoloso e ignoto. Ma sarebbe bello che la generazione successiva alla mia tornasse a considerare la poesia come qualcosa che ancora accade e i poeti come esseri che ancora respirano, sentono, pensano, amano, scrivono, quando non sono addirittura persone della stessa età del loro giovane insegnante, come Maria Borio (mi rendo conto che quella anagrafica è una notazione frivola e la letteratura è una cosa seria: però anche questo prepara il terreno, anche questo apre le orecchie). In passato la scuola ha letto i poeti del suo tempo ed è soprattutto a scuola che un canone letterario, o almeno letture diffuse, si radicano nella coscienza comune.
Tra il tradizionale e l’innovativo
Nessuna rivoluzione: teniamoci stretti al passato. Ma andiamo anche avanti. In effetti anche io vengo preso spesso dai dubbi: abbiamo tempo a sufficienza? non si rischia di sperimentare troppo senza sapere che cosa si caverà dall’alambicco? finendo troppo a ridosso dei nostri giorni, leggendo autori su cui mancano mediazione critiche, non rischiamo di enfatizzare, anche per la poesia, soltanto la fuga nel privato, nella degustazione soggettiva e destoricizzata? Se non è a scuola che si parla approfonditamente di Ariosto ai futuri adulti (e ciò esclude che si abbia tempo a sufficienza per Sereni), chi, fuori da quel luogo, lo farà? Sono anche le mie domande.
Ricordo però che siamo l’unico paese occidentale che, per complesse ragioni storiche, a scuola studia così tanta letteratura, soprattutto del passato: questo è bello, se sappiamo preservare la letteratura nelle forme giuste, che significa non monumentali (ma, anche con ciò, dovremmo imparare a relativizzare un po’ la nostra posizione). Provo a dirla così, e forse è un modo rozzo: dovremmo cercare di essere più furbi dei molti novatori che ci circondano e non stare fermi. Perché, lo confesso, a volte sono preso dal timore che presto tecnocrati, politici, pedagogisti e psicologi ci cancelleranno, noi insegnanti di letteratura, con un tratto di penna. Ma magari esagero.
Poi forse bisognerebbe dire anche questo: d’accordo, su Ariosto lo studente si fa le ossa, acquista strumenti di lettura che poi applicherà ai poeti che preferirà. Ho solo una domanda: quanti nostri studenti leggeranno un poeta contemporaneo di cui ignorano persino il nome, disperso com’è nel mare dell’irrilevanza? Forse lo studente penserà solo che i poeti son tutti morti da almeno cento anni e che la poesia è morta con loro. Ciò non è un bene né per lo studente che, pago del proprio tempo, al passato non guarda affatto, né per lo studente che di quel passato si è innamorato, perché esso potrebbe apparirgli così irripetibile da gettare una triste luce di volgarità sul presente.
Per una «lettura anarchica»? No, ma…
L’intersezione dei tre “piani” che ho sopra elencato potrebbe risultare proficua, se ci è chiaro in che modo muoversi su ciascuno di essi. Detto molto semplicisticamente e per diagramma: con Petrarca indagheremo l’archetipo letterario del libro-canzoniere, il sorgere di una coscienza preumanistica, il recupero di Agostino e dell’interiorità, ecc… insomma, ne faremo il campione di un’epoca e di una tradizione e leggeremo il suo tempo in lui, come capita ogni volta che si storicizza un autore (ma non dovremmo esagerare, perché ai ragazzi resta memoria soprattutto di una fisionomia personale, di una voce individuale che parla loro, o non parla loro); con Giudici (e Luzi, Pozzi, ecc…) leggeremo una poesia vicina alla nostra lingua e alla nostra sensibilità, in cui si coagulano, tipizzati ed emblematizzati, alcuni rovelli della coscienza novecentesca, che in fondo è in larga parte ancora la nostra; con Cavalli, Magrelli, Valduga, Mussapi faremo esercizi di lettura, tentativi di interpretazione, approssimazioni alla poesia.
Preciso che l’ultimo ovviamente non è un elenco con la pretesa di fornire indicazioni di lettura a nessuno, perché sono solo quei pochi che io stesso ho letto privatamente: poeti di cui magari sono andato alla ricerca per la banale ragione che li avevo sentiti parlare o recitare proprie composizioni alla radio o a una serata di letture poetiche, e mi avevano colpito; poeti meravigliosi o soltanto interessanti come sicuramente molti altri di cui ho letto appena una o due poesie in antologia o in rete, o che non ho letto affatto, o che addirittura ignoro; poeti su cui non ho altro orientamento critico che quello povero e impressionistico che posso darmi da solo. Poeti, però, che ho incontrato nella mia epoca, vivendo e leggendo.
E se ciascun insegnante portasse i “suoi” poeti in classe? se provasse a offrire agli studenti una loro poesia – solitaria sul bianco della pagina, non una nota e un cappello d’introduzione –, una poesia che nessuno ha mai spiegato prima a nessun altro, neanche un critico all’insegnante? Le scoperte, anche imperfette, gli errori, gli avvicinamenti di sbieco, non sono utili a soggetti in formazione? E noi insegnanti possiamo continuare a far credere, per dovere istituzionale, che in un mondo complesso come quello attuale il nostro fascetto di conoscenze e certezze basta a rispondere a tutte le domande? Non dobbiamo provare a ipotizzare altre risposte, non avendo paura di rappresentarci nell’atto e nella condizione di chi è in cerca come tutti, per quanto ciò sia faticoso e per quanto, ogni tanto o spesso, sbatteremo il muso contro il muro?
La precisazione finale è d’obbligo. Come con Petrarca, anche in questo caso non bisogna esagerare: un poeta non è una monade, è soggetto alle regole della sua epoca, della sua lingua, di una condizione sociale, di un mercato letterario, a quelle di generi e tradizioni… perciò bisognerà fare anche lo sforzo di superare le impressioni personali e gli stentati abbozzi critici, tentando di connetterli agli inquadramenti più meditati di chi è esperto, inquadramenti come quelli offerti dalla ricognizione di Borio, cui spero seguiranno, qui su LN, altri utili strumenti di orientamento.
P. S. Ma, per fare tutto questo, occorre rispettare un rigoroso ordine cronologico? Dubito che sia possibile: partendo da «Sao ko kelle terre», a leggere Cavalli o Magrelli arriveremmo forse a maturità ormai conclusa, predicatori solitari sotto il solleone agostano. Potremmo provare invece a innestare la lettura di un poeta contemporaneo dentro le “tradizionali” lezioni, a fargli fare scintille nel cozzo col poeta antico (non a caso, ovvio: per una sua affinità o contrasto o diversa modulazione tematici, stilistici, linguistici, … rispetto al poeta canonico in esame). Forse è più difficile da immaginare e da costruire, perché mancano modelli e buone pratiche, forse non è nemmeno auspicabile, ma magari potremmo anche fare il contrario, collocando sapientemente dentro una lezione su autori contemporanei un Dante, un Petrarca, un Leopardi, un D’Annunzio («vedi: qui, con lui, è nato ciò di cui parliamo oggi»).
__________________
NOTA
Per un confronto sui curricoli e i metodi di insegnamento della letteratura in Italia, Germania, Inghilterra, Francia, Spagna, cfr. D. MEDICI, L’insegnamento delle letterature nazionali nelle scuole europee, in ID. (a cura di), Che cosa fare della letteratura? La trasmissione del sapere letterario nella scuola, Milano, Franco Angeli, 2001.
Alla fine degli anni Settanta, sulle pagine dei quotidiani e delle riviste (alcune di diffusione non solo specialitica: ahimé i tempi sono cambiati. Forse il passato era davvero migliore?), si svolse un dibattito acceso, per alcuni versi datato per altri credo ancora piuttosto istruttivo, tra fautori di una «lettura anarchica» della poesia e difensori di un approccio al testo rigoroso e analitico, in gran parte fondato sugli strumenti della allora recente critica semiotica. Esso può essere ricostruito, per chi lo volesse, sui seguenti interventi: H. M. ENZENSBERGER, Una modesta proposta per difendere la gioventù dalle opere di poesia, in «Quaderni piacentini», nn. 67-68 (1978); A. BERARDINELLI, Chirurgia estetica, in «Quaderni piacentini», nn. 67-68 (1978); C. CASES, Il poeta, il logotecnocrate e la figlia del macellaio, in C. Acutis (a cura di), Insegnare la letteratura, Parma, 1991 (1a ed. 1979), già in «Quaderni piacentini», 69, con il titolo Il poeta e la figlia del macellaio; G. GIUDICI, Questi versi li leggo come voglio, in «L’Unità», 10 settembre 1978, poi in ID., La dama non cercata, Milano, 1985, con il titolo I misteri della poesia; C. SEGRE, Cases, la figlia del macellaio e la logotecnocrazia, in «Alfabeta», 1979, 1; W. SITI, Come insegnare la letteratura, «Il Manifesto», 20 maggio 1979; P. M. BERTINETTO – C. OSSOLA, Tristi tropi: «la figlia del macellaio». Ipotesi a confronto per la didattica della letteratura, in ID. Insegnare stanca. Esercizi e proposte per l’insegnamento dell’italiano, Bologna, 1982.
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Caporedattore
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Editore
G.B. Palumbo Editore
poeti del futuro anteriore
Per la prima parte io aggiungerei soltanto che è la fine del mondo come ce lo siamo raccontato. Tutti i discorsi sul passato glorioso sono valide alternative a quelli sul clima per togliere l’imbarazzo del silenzio. E il rincoglionimento colpisce tutti.
Io vedo una forzatura di fondo. Se l’insegnamento è l’insegnamento di un metodo, la trasmissione degli strumenti interpretativi, l’utilizzo di un canone o la divergenza da esso non credo comporti una sostanziale differenza. Si privilegia il canone perché ha più senso in generale, per una connessione storica e per una certa uniformità, anche di controllo. Ma qua parlo per sensazione, non so nulla di didattica. Se però gli insegnanti leggono poca poesia è perché non gli piace, e c’è poco da fare. Così come poco piacerà agli studenti. È probabile che i poeti contemporanei susciteranno più favore, faranno più breccia, ma la poesia con quella forma non è così decisiva nella vita delle persone. La poesia poi sta in tante forme. Volersi ostinare a diffondere solo quella scritta mi pare uno spreco di tempo e di energia. Io spero che se un insegnante porta Saviano lo fa perché ci crede, non perché vuole acchiappare. Per il resto, sui tre punti il mio appoggio è totale. Ora sono all’ultimo anno di serale, ma penso che mi sarebbe piaciuto averti come insegnante. Sui dubbi: non conosco Ariosto, ma siamo sicuri che ciò che si può imparare studiandolo non si possa plasmare o trovare o almeno integrare con altre parti? Non è un po’ il vizio di fondo di un’epoca idealista? Non è lo snobismo di Marx che si permette di tacciare Darwin di essere un rozzo analista? E poi, perché solo l’insegnante porterà i “suoi” poeti? Perché non farli portare anche agli studenti, magari insieme a qualche autore di canzoni pop? De André cita Edgar Lee Masters, i Baustelle citano Leopardi, i Joy Division e i Massimo Volume citano Rimbaud, i Cure citano Camus. Oppure: si parte da A Serious Man e dall’Uomo che non c’era dei Coen, per parlare di Heisenberg e dell’uso delle metafore scientifiche nei discorsi del Novecento. E infine sì, morte all’ordine cronologico.
cinque punti
Caro Dfw, grazie della lettura.
Provo a risponderti, ma sollevi molti problemi, e complessi, così che dovrei scrivere un post chilometrico. Mi perdonerai se su alcune cose andrò un po’ per le trippe.
1) Non c’è dubbio che la fine del mondo, almeno finché non finirà la specie umana, è una fine del mondo raccontata e non “oggettiva”. Il punto è che cosa fare di questo racconto apocalittico, come uscirne, che significa poi quale altro racconto sostituire ad esso. Non è facile, non lo si fa da un giorno all’altro, perché il nuovo racconto deve essere persuasivo, credibile, appassionante, altrimenti si scoprirà presto che è farlocco. Ci vuole pazienza, e molta fatica, per fare questa ricerca.
2)Sul canone potresti leggere il saggio che hanno appena pubblicato proprio su questo blog, di Cesare Segre, al solito di chiarezza esemplare.
3) Se i poeti morti, remoti e prossimi, non fanno più breccia, be’ io credo che invece che buttarli via sarebbe il caso semplicemente di imparare a leggerli in un altro modo. Non sono i testi (almeno, tutti i testi) ad essere polverosi, ma le parole pronunciate inerzialmente intorno ad essi: la polvere è polvere didattica e critica che su di essi si è depositata. Quella andrebbe spazzata via (diciamo spazzolata via, avrai capito che non mi piacciono le affermazioni ultimative).
4) I “collegamenti” fra Leopardi e i Baustelle dovremmo imparare a farli, sì, speriamo nei giovani insegnanti, il cui ingresso nella scuola e la cui adeguata formazione è ahimé un tema pessimamente affrontato.
Ma chi pensi che abbia insegnato ai Baustelle a citare Leopardi, se non la scuola? Sarebbero contenti i Baustelle di una scuola senza più Leopardi?
Inoltre i reciproci valori vanno riconosciuti: la veggenza di Rimbaud e la veggenza di Ian Curtis hanno significati profondamente diversi, anche solo sociologicamente diversi. Un conto è essere un poeta simbolista dell’Ottocento, un conto essere un giovane cantante dark degli anni Settanta in una cultura di massa. E non sempre è questione di superiorità della poesia scritta su quella cantata: i morti della collina di De André parlano molto meglio di quelli di Lee Masters, secondo me.
In ogni caso, bacilli di cultura pop (e di poeti non ancora canonizzati) devono essere inoculati con moderazione nella scuola, come ho cercato di dire, proprio perché ancora non ci è chiaro il loro valore.
Inoltre c’è un problema mai a sufficienza considerato da tutti gli innovatori e i rivoluzionari della didattica: l’insegnamento è fatto per lo più di pratiche, ha bisogno di qualche forma di standardizzazione (questa è la ragione per la quale si corre sempre il gravissimo rischio di scadere nella routine). Dunque non puoi pensare di riscriverne da cima a fondo i contenuti, e da un giorno all’altro.
Per tenere una lezione su un argomento nuovo, del tutto nuovo, mi ci vanno alcune ore di preparazione, e se ne dovessi fare una nuova ogni giorno (senza alcun manuale d’appoggio e senza l’esempio degli antenati), credimi, non mi basterebbero 36 ore a giornata. Così, per alcuni argomenti, un insegnante è costretto a limitarsi a seguire una pratica standard, di volta in volta innovando segmenti ben individuati.
Dare il tana libera tutti agli insegnanti, pensare di cambiar tutto e in fretta produrrebbe solo caos e pessima improvvisazione.
C’è poi un altro aspetto. Immagino che tu ami particolarmente un certo tipo di musica, visto che citi Joy Division, Baustelle, Cure, … Credo che se tu fossi insegnante, e fossi in grado di trattarli adeguatamente, faresti bene a portarli in classe, o a farli portare agli studenti. Io preferirei, per gusto e conoscenze personali, parlar loro dei Deep Purple, dei Led Zeppelin, dei Pink Floyd, di John Coltrane. Fino a una certa misura va bene, mostreremmo un concetto meno angusto di cultura, apriremmo alla musica, grave lacuna delle nostre scuole superiori, potremmo fare i “collegamenti” di cui sopra. Ma per tutto il resto del tempo dovremmo continuare a ruotare intorno a un canone, se no finirà che i tuoi allievi non sapranno neanche riconoscere il riff di Highway star e i miei, guardando This must be the place, non capiranno a chi si è ispirato Sorrentino. Perfino della cultura pop dovremmo stabilire un canone, qualcosa di condivisibile e irrinunciabile (è quello che, in parte, voleva forse dire Arminio, sotto il cui post è iniziata questa discussione). Dunque, canone per canone, perché fare a meno di quello letterario, perché fare a meno della vecchia e venerata tradizione?
5) Su Ariosto e Marx temo di non avere capito cosa tu intenda.
Saluti
teacher, don’t leave the kids alone!
@ Lo Vetere
Grazie per la risposta, ormai mi devo scervellare per fare il rompiscatole. Sono d’accordo credo su tutto, integro solo per spiegarmi meglio.
1) Io vedo un sacco di bellezza in giro, sono felice di poter ascoltare Bach e i Joy Division o i Radiohead, e per me non c’è una differenza di valori tra loro. C’è una differenza di forme. Poi non voglio che al Conservatorio i prof si mettano a spiegare com’è fatta la musica dei Radiohead, perché mi interessa sapere come componeva Bach ( così come a scuola non voglio che si studino i Baustelle al posto di Leopardi ). E i giovani compositori oggi discutono dei propri errori. Ma il modo per uscire dalla visione apocalittica è riconoscere che è una visione sbagliata, oggettivamente sbagliata. Se una persona crede che la letteratura italiana sia finita con Fenoglio, educatamente ( magari in maniera indiretta, mostrandogli degli esempi ) gli si fa capire che è una sciocchezza. Che la ragione per cui crede questa cosa risiede nel fatto che ha una visione essenzialista e teleologica delle cose, visione spazzata via da Darwin in poi. Oggi sappiamo che siamo preda di vari bias cognitivi. C’è anche il contro-altare della fallacia astorica, per cui tutto ciò che viene dopo è migliore. Tutto questo non significa che allora una cosa vale l’altra, che ognuno insegni ciò che vuole. Significa solo smettere di credere a un passato glorioso che ha raggiunto vette dalle quali si può solo scendere, significa saper leggere la realtà nella maniera più corretta possibile. Non credo che il racconto sia diverso, sempre per stare a Leopardi rifiutiamo la consolazione e l’inganno puerile, piuttosto viviamo e confortiamoci assieme, o per dirla con Antonio Pascale, non il diritto alla felicità, ma il dovere dell’inquietudine. Non lo si farà da un giorno all’altro, ma lo si faccia.
2) grazie del consiglio
3) sì, io poi un po’ provoco, qualche poesia di Pascoli ha fatto breccia in me, D’Annunzio ne il Piacere fa il piacione citando il Chiaro di Luna di Beethoven ( e il pescatore che stringe con rabbia la canna da pesca è vivo e lotta insieme a noi ) e sapere di Ungaretti che a Parigi fa amicizia con Mohammed Sceab e si scambiano i filosofi preferiti dà tutto un altro sapore alle sue cose.
4) D’accordo, io ovviamente non ho nessuna esperienza e capisco la responsabilità che si ha insegnando, quindi il tuo discorso ponderato e “ben temperato” lo capisco e lo apprezzo.
5) Nel bel libro di Silvia Dai ‘Pra, Quelli che però è lo stesso, c’è un momento in cui una studentessa si lamenta perché oltre ai poeti morti male e disperati lei ( è un reportage su alcune esperienze da insegnante fatte nelle scuole della periferia romana ) le fa ascoltare Kurt Cobain al posto di Gigi d’Alessio, un altro che urla come un matto. Ecco, io non vorrei certo un uso normativo del pop. Immagino che il pop, nelle sue varie forme, libri, film, musica eccetera, possa essere un grimaldello, una chiave di lettura. Poi è chiaro, nel tempo i lavori di maggior spicco saranno posti al vaglio con gli stessi strumenti che si usano per il canone tradizionale. Ciò che intendo è: parliamo di Ariosto, qual è il cuore di Ariosto? Ci si può arrivare in un solo modo, o anche per vie traverse, magari attraverso il pop? Ogni studente potrà e sarà stimolato a cercare ciò che attorno a lui può vivere nei testi degli autori che si studiano. Usare John Coltrane non per calare dall’alto un altro totem, ma per ciò che può dare, che sia una visione anti-romantica del genio artistico, o smontare il fascino dell’auto-distruzione. Quando studiavo ( davo un’occhiata, via ) composizione un mio compagno parlò al nostro prof di Giovanni Allevi. Il prof non è che svenne o diede di matto, disse d’accordo, ti piace Allevi, studialo, mettilo alla prova, dimmi com’è fatto.
concordia
Caro Dfw, direi che anch’io sono d’accordo con te.
(Forse sono un po’ più scettico di te sulla forza chiarificatrice della scienza, nel senso che essa agisce solo a livello razionale, non emotivo: alle illusioni non si rinuncia se non a prezzi psicologicamente alti. E se il prezzo Leopardi l’ha pagato, non possiamo pensare che tutti i nostri simili abbiano una tale forza speculativa. Ma questo è un altro discorso e nella sostanza non intacca l’accordo fra noi).
Saluti
cronologie e innovazioni
Come tu, Daniele, mi hai suggerito, eccomi qui a commentare direttamente su “La letteratura e noi” questo tuo contributo sulla didattica della poesia a scuola:
sinceramente ritengo che sull’innovazione della didattica sia meglio essere troppo rivoluzionari che troppo conservatori per il semplice fatto che la società è fin troppo cambiata dai tempi del De Sanctis ad oggi e preoccupazioni come ” Se non è a scuola che si parla approfonditamente di Ariosto ai futuri adulti (e ciò esclude che si abbia tempo a sufficienza per Sereni), chi, fuori da quel luogo, lo farà?” rischiano di ignorare totalmente che al giorno d’oggi si impara per tutto l’arco della vita e non solo nel periodo di scolarizzazione e compito della scuola dovrebbe essere quindi quello di fornire strumenti per formare buoni lettori e apprezzatori di testi letterari e dunque non dovrebbe esserci nessuno scandalo se usciti da scuola degli studenti non abbiano mai letto una riga di Ariosto (preferendo magari approfondire di più pagine del Tasso o meglio ancora, più pagine di Shakespeare) tanto, grazie ai pochi ma approfonditi esempi che hanno avuto a scuola di come si legge e apprezza una poesia, i ragazzi avranno una vita intera per leggere Ariosto e tanti altri autori (e grazie alla scuola avranno tutti gli strumenti e l’interesse per leggerli, comprenderli ed apprezzarli).
Inoltre, secondo me il metodo “cronologico” molto più in letteratura che in altre materie come filosofia e arte lo ritengo altamente controproducente per il fatto che, come ho già detto, proponendo agli studenti più giovani come letture iniziali come Quelle di Lentini e della Scuola Siciliana la cui distanza non solo culturale ma anche e soprattutto linguistica è la più lontana da noi mi sembra come pretendere di insegnare la matematica alle scuole elementari o medie partendo dalle equazioni differenziali, insomma non si può partire a lavorare da testi la cui complessità di “decodificazione” e maggiore dei testi su cui si lavora nell’ultimo anno. E questo mi sembra debba valere anche in un metodo cronologico un po’ più “libero” in cui si possano fare collegamenti con testi più recenti in parallelo a testi dell’epoca trattata, anzi mi sembra sia un metodo di cui molti docenti possono approffittare per generare un “effetto Gattopardo” ovvero a parole si adotta di facciata questo “nuovo” metodo ma alla fine nella pratica ciò che si fa in classe non cambia nulla. Perciò l’invito al “minuto fare quotidiano” ovvero a una buona pratica mi sembra del tutto secondario se l’essenza della “forma” della didattica non cambia.
Un ultimo appunto: sinceramente trovo doverosa una differenziazione tra le filiere, ovvero le ore di letteratura dovrebbero essere più numerose, con più approfondimento e più temi negli indirizzi più umanistici come gli attuali liceo classico e linguistico mentre negli altri indirizzi (licei scientifici e ancor più gli istituti tecnici e i professionali) le ore dovrebbero essere di meno, con meno temi e autori e meno specializzazione (sia ben inteso, sto parlando delle ore di lingua italiana ma di quelle di letteratura, anche la distinzione – ma non separazione – tra le due discipline meriterebbe un discorso a parte). Spero infine che non ci siano troppi docenti che si opporrebbero a togliere l’obbligo dei Promessi Sposi nel secondo anno (povero Manzoni, penso che nulla abbia fatto tanto male alla sua reputazione popolare che imporlo in modo iperapprofondito nelle scuole…).
oltre la conservazione e l’innovazione
Caro Michele,
forse sulla questione “innovazione VS conservazione; nuove forme VS minuto fare quotidiano” rischiamo di scadere nel dibattito nominalistico, perché mi pare che intendiamo, con le stesse parole, cose diverse, e di segno opposto per ciascuno di noi due, per cui provo ad andare oltre.
1) Sono così poco conservatore che non mi scandalizzerei se un ragazzo uscito dalle superiori non avesse mai letto una riga né di Tasso né di Ariosto. Se hanno fatto bene Shakespeare o Molière o Rabelais o Cervantes, potremmo forse consolarci. Non è un problema di nomi, hai ragione, sarebbe sterile stabilire priorità su base nazionalistica o d’altro genere. Sarebbe ora di avere un canone europeo. Visto l’orrore tecnocratico che l’Europa ci offre quotidianamente, assisterei volentieri a una discussione fra i migliori critici e storici della letteratura di tutta Europa per la scrittura di quel canone (anche se probabilmente assisteremmo a un dibattito infinito, e a parecchi litigi, magari nazionalistici).
Questo, idealmente. In pratica credo che si possano muovere alcune obiezioni a quest’idea.
Prima. Credo che una qualche curvatura nazionale dei programmi sia ancora auspicabile: anche io mi arrabbio a pensare che gli allievi abbiano magari letto Parini (no dai, dico Alfieri, che amo, così mi faccio male da solo) e mai Shakespeare, o conoscano Nievo ma non Dickens. Però, una volta fatti i grandissimi, e se c’è tempo, sulle seconde file forse il criterio dell’italianità potrebbe ancora funzionare.
Seconda. Un qualche rispetto dei contenuti abituali nella nostra scuola forse è necessario. Non perché siano giusti in sé, non perché non si possano cambiare, ma perché per cambiarli ci va tempo (personalmente saprei tenere una lezione su Ariosto o Tasso con una piccola preparazione domani, ma sugli stranieri che ho citato avrei bisogno di più tempo, perché non ne ho una conoscenza sedimentata, ma, talvolta, sparse impressioni di lettura, talaltra, vera ignoranza).
Terza. Proprio nell’ottica di un canone europeo, forse Tasso e Ariosto scopriremmo che non sono così secondari, perché hanno fornito un esempio di poema cavalleresco a tutta l’Europa. Forse dovrebbero studiarli anche negli altri paesi. (Ma questo è ovviamente un argomento tutto interno a una cultura europea alta, e oggi la scuola ha anche altre funzioni, oltre a quella di trasmettere questa cultura per lungo tempo d’élite).
Quarta. Siamo così sicuri che i ragazzi, usciti da scuola, leggeranno proprio Ariosto? Forse Grossman, Ammaniti, Marquez. Ariosto, ahimé, ne dubito. La faccenda del life-long learning non mi convince proprio, anche perché è stata formulata in sede europea avendo in mente la formazione permanente utile alla riqualificazione dei lavoratori (flessibili o precari, a seconda dei punti di vista), non certo la lettura privata dei classici della letteratura, e non so se si possa estendere il concetto anche a quest’ambito. Forse la scuola deve continuare anche a preoccuparsi di trasmettere alcune conoscenze fondamentali, non può pensare di diventare una scuola delle competenze pure. Un autore non vale un altro, nessuno è perfettamente sostituibile. Un ottimo scrittore di cose di scuola, insegnante, Armellini, ha suggerito una sorta di “Credo laico” di conoscenze, autori, da ricordare, per salvaguardare la continuità culturale che fonda le comunità (La letteratura in classe, Unicopli). Poi, sono il primo a riconoscere che alcune dolorose, dolorosissime rinunce dovremo prima o poi avere il coraggio di farle (l’ho scritto anche nel mio pezzo).
2) Il problema della decodifica linguistica che poni è serio. Credo che manchi agli insegnanti, specie del triennio, una formazione linguistica adeguata, che si ripercuote in una scarsa attenzione verso aspetti come la comprensione letterale e verso il lavoro sul tessuto linguistico dei testi. Un testo contemporaneo pone problemi di comprensione e interpretazione diversi da un testo del passato. Su tutto ciò dovremmo ragionare.
Poi la prospettiva storica si può dare anche senza cronologia, lo credo anch’io, anche se non penso che basti una prospettiva per temi o generi, semmai ci vorrebbe un’impostazione ermeneutica, che faccia la spola costantemente tra passato e presente (tra storicizzazione e attualizzazione). Però non si può affrontare questo tema qui, è troppo complesso, mi devo fermare.
3) Che cosa succede nelle classi? A me piacerebbe saperlo. Sarebbe interessante fare un sondaggio per sapere quanti insegnanti usino ancora i Promessi sposi, forse avremmo sorprese e scopriremmo che non pochi usano ormai altri libri. Ma è un’ipotesi. Sono d’accordo che la trimurti “Promessi Sposi – lettura obbligata – analisi formalistica” abbia falcidiato passioni per lettura in erba.
Sulla caratterizzazione dei tre percorsi, liceale, tecnico, professionale, sono d’accordo con te: la cultura umanistica ha da dare qualcosa in tutti e tre, ma in forme diverse.
Saluti
curvature e competenze
Caro Daniele,
mi fa piacere sentire da te un invito a superare divisioni nominalistiche, peraltro tutto sommato io non mi sento neppure così esterofilo nell’innovare la didattica di letteratura, in quanto ritengo che, non dico una curvatura nazionale, ma un occhio di riguardo alle opere nella nostra lingua all’interno dei programmi sia inevitabile soprattutto nel lavorare con opere in versi, e più in genere in tutti i testi letterari che se letti solo in traduzione vengono percepiti come molto più impoveriti rispetto ad altri. La tua seconda obiezione è più di carattere “logistico”, e al massimo porta a un “periodo di transizione” nell’attesa di formare docenti preparati anche a far lavorare gli studenti anche su Molière o Dostoevskij.Anche la tua terza obiezione può andar bene, a patto però di mettere Tasso e Ariosto a pari classifica di vari altri autori stranieri da scegliere in alternativa.
Per la quarta obiezione mi sembra che il long-life learning sia inevitabile di fronte a una società non solo sempre più in mutamento nelle innovazioni scientifiche e tecniche, ma anche in una società sempre più in mutamento dove culture e pensieri diversi si incontrano sempre di più grazie anche ai nuovi mezzi di comunicazione, disponibili a molte più persone di quanto era possibile un tempo. Secondo me anzi, un tempo a scuola molto spesso e soprattutto in letteratura, non si apprendevano affatto vere e proprie “conoscenze” nel vero senso della parola ma al massimo “contenuti” trasmessi passivamente e quasi come “atti di fede”, in parte per il fatto che per i ragazzi del tempo non c’erano i mezzi (sia tecnologici che economici) per approfondire da soli i motivi per cui quei testi letterari avevano così tanto valore, e in parte anche per l’esigenza di “fare gli italiani” con un insieme unitario di lavori. Ai ragazzi di oggi invece non deve essere imposto alcun “credo laico”, semmai occorre dare loro un “metodo” e degli “strumenti” affinché possano conoscere (e il conoscere è qualcosa che un soggetto fa attivamente, non mediante trasmissione passiva!) spontaneamente il valore dei classici, i quali dunque non potranno che sopravvivere solo mediante le proprie forze, mediante il loro valore, accessibile appunto a chi ha gli strumenti per rilevarlo. Le competenze non solo non minacciano le conoscenze, anzi, è grazie alle competenze (certo non in modo puro, evitando di pensare che certi dati di partenza su cui formare le competenze valgano gli altri) che si acquistano autentiche conoscenze.
Per il resto direi che è secondaria una divisione del programma in generi o temi o di altro tipo, basta che si comprenda che è bene superare il dogma di origine storicistica dell’ordine cronologico e soprattutto occorre far comprendere che non si può insegnare letteratura nelle scuole più varie allo stesso modo, dato che non tutti gli studenti sono destinati a diventare italianisti o letterati.
Saluti.