Poesia e didattica/1. Piccoli esperimenti per grandi problemi
Ci occupiamo con due interventi della didattica della poesia. L’autore del primo articolo è Roberto Cescon, giovane professore friulano che lavora a molti progetti sulla diffusione della poesia tra i ragazzi. Seguirà un intervento di Giuliano Ladolfi, professore per vent’anni e preside in un liceo piemontese, fondatore della rivista «Atelier».
Cosa si può fare?
La poesia a scuola è un argomento difficile da maneggiare, poiché si presta a dire cose tanto sensate quanto superflue, con il rischio di non misurarsi con una realtà spesso distante dalle aspettative. Questo perché la poesia a scuola arranca, soprattutto per tre ragioni: innanzitutto la letteratura e la cultura di fatto non sono più esperienze estetiche primarie nella formazione dei ragazzi, in secondo luogo la forte seduzione dei new media muta i paradigmi della percezione (piacevole fa rima semplice, mettersi in gioco è noioso), infine è lo stesso modo di proporre la letteratura a scuola ad allontanarla dal sentire dei ragazzi.
Tuttavia, invece di lamentarci, cosa si può fare? La bella provocazione di Rondoni di rendere opzionale l’insegnamento della letteratura per riscoprire il suo essere un bene antropologico e nazionale fondamentale è fragile dal punto di vista operativo. D’altro canto, quando si va a discutere sull’impostazione gentiliana e diacronica dei programmi (ora indicazioni nazionali), ci si muove come elefanti in un negozio di cristalli: la letteratura e i testi aumentano, ma il tempo didattico rimane uguale; inoltre vengono richieste le competenze di cittadinanza e la costruzione del sapere basato sugli assi culturali, ma la prova dell’Esame di Stato resta identica. Si aggiunge, ma non si toglie, per non scontentare nessuno, né i pedagogisti né i disciplinaristi. Non si compiono cioè delle scelte, demandando tutto all’insegnante, che deve far entrare tutti gli argomenti in una valigia sempre più stretta.
Non insegno da molti anni. Col tempo ho imparato a avere meno timore di togliere e organizzare gli argomenti (moduli? Unità di apprendimento?), deviando dalla strada segnata, anche se continuo a restare fedele all’impianto concordato con il mio dipartimento, perché le novità in sé non siano fuochi di paglia e perché non è da trascurare la responsabilità di fornire agli studenti una formazione solida. Lo stesso Armellini diceva di procedere per tagli e campioni. D’altra parte, i miei studenti forse direbbero che sono comunque troppe le cose che facciamo…
Due aspetti: il tempo e le persone
Per non parlare a vuoto, ritengo che qualsiasi cambiamento debba però partire da due aspetti imprescindibili per chi fa questo mestiere. Innanzitutto bisogna sempre considerare i numeri: ogni anno nelle classi del triennio del Liceo ci sono 132 ore di insegnamento di italiano, alle quali vanno sottratte circa 30 ore di compiti e interrogazioni, 15 di scrittura e 10 che sono sempre “perse” (assemblee, conferenze, viaggio d’istruzione, varie ed eventuali). Rimangono circa 70 ore. Non sono così tante, rispetto alla mole di argomenti da infilare nella valigia. Bisogna partire dunque dalla domanda: cosa propongo in 70 ore ai miei studenti?
Il secondo aspetto da valutare è che “la guerra si fa con le armi che si hanno”, ovvero ogni classe è un universo a sé stante. Ci sono gruppi più autonomi, altri che devono essere più guidati, classi con gravi difficoltà nella scrittura, altre in cui prima di ogni altro discorso occorre recuperare l’interesse per lo studio. Con il lavoro puoi agire e migliorare chi hai di fronte, ma spesso la condizione di partenza determina la prassi didattica di un anno scolastico. In genere gli studenti che vedo hanno in comune una debole padronanza del testo e del tessuto argomentativo che lo costituisce e tendono a non mettersi in ascolto del testo, atteggiamento che presuppone anche una certa fatica di analisi e rielaborazione.
Il problema della vastità dei programmi non è da trascurare, in quanto spesso si arriva a alle “due corone” del Novecento, Ungaretti, Montale e, per quanto riguarda la narrativa, a Svevo e Pirandello. Coloro che si spingono più in là sono mosche bianche. Così tutto il secondo Novecento appare come un magma indistinto di cui è complicato tirare le fila. Però c’è un problema: di fatto questi autori sono gli stessi che sono stati proposti a me nell’ultimo anno di Liceo e gli stessi che sono stati proposti alla generazione precedente alla mia, con la differenza che nel frattempo qualcosa è accaduto.
La scelta classicista e la contemporaneità
Ritengo ineccepibile la scelta di chi è convinto che la letteratura contemporanea sia da accantonare in favore dei grandi autori della letteratura italiana. È una scelta classicista, che ha però la dignità di cercare nel passato i modelli con cui guardare il presente. C’è un canone? Concentriamoci su quello. Tuttavia il ragionamento alla base di una scelta classicista non sempre è consapevole, ma spesso è di comodo. Ritengo invece che l’attenzione alla contemporaneità possa essere utile agli studenti di oggi. Utile proprio perché essa può dar loro strumenti per guardare questa realtà in modo più attento. In particolare ai ragazzi può servire la poesia perché da un lato è un antidoto contro la velocità e vetrinizzazione di sé, dall’altro impone continuamente di fermarsi (molto più che la narrazione, portata per sua natura al procedere). La poesia si pianta come un chiodo e costringe a guardarsi dentro e fuori, a prendere coscienza che si è in un luogo, in una vita.
Quando ho curato insieme a Piero Simon Ostan alcuni laboratori di poesia alle scuole primarie e secondarie, le maestre, prima che cominciassimo, si sono preoccupate di avvisarci che non erano ancora “arrivate ad insegnare” le figure retoriche, ma in quei laboratori noi volevamo concentrarci su qualcosa che viene prima delle figure retoriche: è vero che la poesia è un patrimonio di regole con una sua tradizione che attraversa le generazioni, ma per rapire delle menti così giovani la speranza è far loro capire che la poesia è prima di tutto nello spazio tra le parole, che è poi lo spazio tra gli individui, quando ci sentiamo di essere parte di qualcosa che eccede la contingenza, riconoscendoci nelle parole ascoltate, perché ci fanno capire meglio cosa siano i nostri giorni. Questo credo sia utile non solo agli studenti. Avranno tempo per misurarsi con la dimensione artigianale dell’arte (perché bisogna conoscere le regole per deviare da esse e perché il talento – termine “televisivo” purtroppo frainteso – è un fuoco di paglia se non supportato dall’ars), ma prima è bene che capiscano questo.
Nelle mie classi
Nelle mie classi ho l’abitudine di leggere una poesia gli ultimi o i primi minuti della lezione, senza l’intenzione di commentarla, ma lasciando spazio a ciò che le parole muovono nei ragazzi. Non sempre funziona: c’è chi è sordo, semplicemente perché cerca le stesse cose in altri modi che ritiene migliori, chi tace e macina dentro, chi quando la lezione finisce si avvicina per chiederti di prestargli il libro che hai appena letto.
Viene da qui l’esperienza del blog www.ipoetisonovivi.com nata a sua volta nelle riunioni di Dipartimento, dove si discute (spesso a vuoto) sull’importanza della poesia e sui suoi problemi didattici. Non mi sono fermato a constatare che a scuola la poesia non piace, che non si legge più la poesia contemporanea, che è sentita come qualcosa di difficile e stravagante, ma ho deciso di creare uno spazio visibile a tutti dove proporre ogni giorno una poesia di un autore vivente. Certo, lo so bene che certi poeti morti sono più vivi dei vivi e resteranno tali per sempre, ma la scelta dei poeti vivi serviva a comunicare l’idea della poesia che si continua a scrivere e che i poeti non sono solo quelli morti stampati nelle storie letterarie. In realtà, avevo già avuto questa idea durante una lezione, quando prima di leggere una poesia uno studente ha alzato la mano e mi ha chiesto anche questo autore è morto? Invece con questo blog vorrei dire che la poesia è una cosa dei giorni e che ha che fare con la vita delle persone. Vorrei che fosse messo da parte l’atteggiamento snobistico che critica sempre le operazioni nelle quali la “cultura” si apre ad un pubblico più vasto, perché la chiave per ridare vita al bisogno di poesia è proprio legare in modo dignitoso l’alto e il basso, senza paura di sporcare la poesia, altrimenti resta solo un piatto da ristorante Michelin. La bellezza della poesia non deve temere di sporcarsi.
Niente di nuovo sotto il sole: altre esperienze simili sono state fatte nel corso degli ultimi anni, quindi il mio voleva solo essere un modo per non lasciar svanire come sempre le lamentazioni fino alla successiva riunione di Dipartimento senza aver tentato nulla. È un punto di partenza, certamente si può migliorare, ma sta avendo risultati lusinghieri. Accedono al blog studenti (qualche classe addirittura vota e commenta la poesia che è piaciuta), addetti ai lavori, poeti, appassionati di poesia, non solo dall’Italia, ma spesso anche dall’Europa e dall’America. Inoltre, in occasione della Giornata Mondiale della poesia, abbiamo chiesto per tutto il mese di marzo a 23 poeti (quanti sono i giorni di scuola di marzo) di consigliare un poeta vivente e di commentarlo brevemente. Anche questo è un modo di far crescere la poesia con le parole di chi la fa.
Infine, il 15 aprile nella mia scuola Fabio Pusterla incontrerà i ragazzi delle quinte, dopo che questi lo avranno già studiato tanto da costituire un argomento del Documento del 15 maggio. Quale effetto farà aver studiato un poeta cui possono parlare? Insegnare letteratura è per me avere la possibilità di raccontare ogni giorno una cosa che non solo mi piace, ma è anche uno dei motivi per cui respiro. D’altra parte non si tratta solo di trasmettere conoscenze, ma anche di far scoccare scintille, cercando di far capire ai ragazzi cosa desiderano, cosa li muove determinando ciò che saranno. Il risultato è sempre sospeso, poiché i giovani sono ridenti e fuggitivi, ma l’importante per loro è capire che ciò che stiamo facendo ha un senso, perché loro, prima di tutto, hanno un terribile bisogno di senso.
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