«Segnare dentro». Intervista a Gian Mario Villalta su letteratura e insegnamento
A cura di Maria Borio
Gian Mario Villalta insegna in un liceo di Pordenone ed è direttore artistico di Pordenonelegge, la manifestazione nel campo dell’editoria che si svolge tutti gli anni a Pordenone nel mese di settembre e che nel 2012 è giunta alla tredicesima edizione. I suoi ultimi libri di poesia sono Vedere al buio (Sossella, 2007) e Vanità della mente (Mondadori, 2011). Ha curato, insieme a Stefano Dal Bianco, il Meridiano di Andrea Zanzotto, Le poesie e le prose scelte (Mondadori, 1999).
Che cosa significa, per Gian Mario Villalta, insegnare letteratura?
Sarei tentato di dire che significa adempiere a una mia profonda vocazione, legata alla radice con la passione per la letteratura. Ogni forma letteraria, e la poesia innanzi tutto, è una forma dialogica. Perché inscrive in sé un lettore e, ancora più radicalmente, perché è la formula antropologica di una comunicazione sociale e umana che va oltre il rapporto mittente/destinatario della normale intenzione comunicativa. Racchiude la temporalità dell’esistenza e il tempo della storia, l’istanza del sacro e l’apertura del desiderio. Quindi, il dialogo sulla letteratura fa parte della letteratura. «Insegnare», però, è una parola forte, significa «segnare dentro», e comporta una pratica che ha diversi riscontri, etici e politici, oltre che di conoscenza. Ho imparato a mettere in gioco la mia passione per la letteratura, senza nascondermi dietro il “valore” della cultura, pur tenendo conto del fatto che devo rispettare un mandato istituzionale. C’è un aspetto “educativo” (lo scrivo tra virgolette) che fa parte di questo mandato e che riguarda la crescita interiore e relazionale delle persone a cui insegno. Ogni individuo, ogni gruppo (classe) ha sue motivazioni, sue mancanze di motivazioni (non meno “sue” perché sono mancanze), suoi modi di ricevere e di rispondere. Spero sempre che percepiscano soprattutto il mio interesse vero, la necessità di condividere questo interesse. Parto da lì, sempre, anche se le frustrazioni a volte sono pesanti.
Quali sono gli autori e gli argomenti di cui preferisce parlare in classe?
Mi sento in dovere di seguire una scansione di argomenti e autori abbastanza istituzionale e mi uniformo generalmente al piano di lavoro concordato con i colleghi. Mi piace lavorare sulla sostanza antropologica della letteratura e sul rapporto tra le poetiche e la forma del testo. Ci sono autori e argomenti che mi appassionano di più, com’è naturale, e credo che gli allievi se ne accorgono. Vedo anche loro più attenti e interessati, più soddisfatti, a volte, e a volte meno. Ma credo che sia naturale. Cerco, inoltre, di far passare la mia passione per la poesia, che è relegata oramai, nella scuola italiana, a un obbligo istituzionale e, direi, a oggetto di informazione culturale, sempre più distante dall’essere un’esperienza estetica fondamentale.
I suoi studenti amano di più la poesia o la narrativa? Sono più attratti dalla letteratura italiana o da quella straniera?
I miei studenti appartengono a una generazione per la quale la letteratura non ha più un ruolo di centralità. Non devo mai commettere l’errore di dimenticarlo. Pochi di loro arrivano al triennio delle superiori (insegno in un liceo) con una qualsivoglia “preferenza” letteraria. La letteratura, per la maggior parte di loro, ha sempre significato soltanto “scuola”. A partire da questo dato, ciò che conoscono e generalmente li attrae ha a che fare con il recente (poco più di una decina d’anni) consolidamento di un rapporto sistemico tra letteratura e mondo mediatico: il libro, per loro, è il libro scritto da un autore-personaggio pubblicamente riconoscibile, attraverso i media; è il libro di un autore che passa in televisione o vi ha un ruolo fisso, i cui libri diventano serie tivù, film, leggende metropolitane del web. Si raccoglie quel che si semina. Compresa la cultura bestselleristica dominante: se hanno letto qualcosa, se si sono appassionati a un libro, è uno di questi. D’altra parte, ci sono insegnanti che non hanno orizzonti diversi, e danno ai ragazzi come lettura “contemporanea” i libri di Fabio Volo. Con tutto il rispetto. «Purché leggano», si dice. Non so più se questo «purché leggano» vada bene. Per rispondere alla domanda: leggono, quando leggono, qualche romanzo, tra quelli che si indovinano nel quadro che ho descritto. Non sempre stranieri, e questa è una novità rispetto alla massiccia esterofilia nazionale dei decenni passati. Di poesia non se ne parla. Non hanno mai sentito nominare Luzi, Caproni, Sereni, Zanzotto, Raboni etc., ma c’è chi sa che c’è una famosa poetessa: Alda Merini.
E che cosa pensano di Pordenonelegge? Quali stimoli didattici può offrire a un insegnante un’iniziativa come Pordenonelegge?
Pordenonelegge è un evento che coinvolge tutta la città e che li fa sentire almeno un po’ partecipi di quello che succede nel “mondo” (ne parlano i giornali, le tivù locali, ci sono giorni di vera “festa” culturale). Un insegnante – in questo caso non parlo di me ma di alcuni miei bravissimi colleghi – può trovare in Pordenonelegge veramente qualcosa che aiuta a “mettere in pari” almeno un po’ il suo normale lavoro con l’orizzonte vivo della cultura. Non solo dal punto di vista più superficiale della partecipazione a una “vetrina” di eventi. Questo, anzi, rischierebbe di essere sbagliato. Questi miei colleghi lavorano durante l’anno in vista di un momento attivo a Pordenonelegge attraverso laboratori, letture, seminari. Ancora di più e meglio, fanno leggere i libri di autori (avvertiti con mesi di anticipo) che poi incontrano a Pordenonelegge, sui quali lavorano in seguito. Accade che qualche insegnante di lingua e letteratura straniera, per esempio, continui dopo l’incontro a Pordenonelegge un lavoro con la classe che mantiene via e-mail il dialogo con l’autore. Questo è molto interessante e gratificante.
In base alla sua esperienza di professore, esiste un metodo didattico più efficace per insegnare la letteratura a scuola?
Di «metodi», intesi come modo di organizzare e distribuire un sapere in relazione all’apprendimento, ce ne sono molti. Forse validissimi, se si attagliano alla personalità e al sapere dell’insegnante. Ma l’insegnamento ha qualcosa di “impossibile” da realizzare attraverso un metodo, ed è l’innesco della relazione attiva di apprendimento nello studente. Per questo dicevo che è essenziale metterli in gioco. Parlo dell’insegnamento in una scuola, dove l’età dei discenti, la strutturazione dell’orario, il modo in cui i discenti sono condizionati praticamente è importantissimo. Il metodo efficace è quello che riesce a motivare gli studenti, a farli “stare bene” durante le ore del tuo insegnamento, a far pensare loro che fanno qualcosa che ha un senso e, infine, a farli rendere coscienti e protagonisti delle loro potenzialità, delle loro capacità e delle personali conquiste conoscitive.
Che cosa cercano, secondo lei, i ragazzi nella letteratura?
Quando riescono a incontrarla veramente, quello che cercano tutti: domande e risposte, sulla vita, sul rapporto con gli altri, sul rapporto tra l’immaginazione, i desideri, le paure e la realtà. La letteratura, la poesia, le narrazioni che si realizzano nella scrittura, sono ancora oggi, pur nell’universo mediatico e telematico istantaneamente totalizzante, il luogo del più profondo e necessario collaudo della propria vita simbolica con la realtà (e, come ha insegnato Zanzotto, c’è un antico cum laudare, una laude in comune, in collaudare).
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