DANTE&ME /4. Cinque domande a Pietro Cataldi
Il 2021 vedrà moltissime iniziative nel nome di Dante Alighieri, nella ricorrenza dei settecento anni dalla sua morte. La redazione de Laletteraturaenoi ha voluto dedicargli uno spazio di riflessione che possa essere luogo di incontro fra università e scuola, proponendo a studiosi e studiose d’Italia di rispondere a cinque domande-chiave per entrare nell’universo dantesco. Pubblicheremo periodicamente le loro risposte. Sono state già pubblicate quelle di Giulio Ferroni, Loredana Chines e Nicolò MIneo.
A cura di Luisa Mirone
D1. Cosa ha significato, cosa significa nel suo percorso di studioso di letteratura l’incontro e la frequentazione con Dante Alighieri?
R1. Ho incontrato la Commedia molto presto, prima ancora che l’insegnante ce ne facesse leggere qualche brano alle medie. Mi avevano detto che era l’opera più importante del mondo, e mi misi in testa di leggerla. Non capivo quasi nulla, ovviamente; ma ero affascinato dal ritmo, dai suoni, da alcune immagini. Credo che il modo in cui ho sempre continuato ad amare Dante e a sentirmene accompagnato negli anni abbia le radici in quel contatto iniziale, e che Dante sia rimasto per me il modo forse più intenso (o da paragonare solo ad alcune esperienze musicali) di disegnare un orizzonte di coinvolgimento emotivo integrale senza rischi di dissoluzione dell’io: una possibilità di abitare in uno spazio circoscritto e al tempo stesso infinito, come il Dio puntiforme dei canti XXIX-XXX del Paradiso, che tutto contiene «parendo inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude». Dante, insomma, come utopia di significato che tiene insieme il soggetto e una comunità-mondo senza limiti. Per questo mi è accaduto di cercare Dante nei momenti difficili, quando solo le cose davvero serie appaiono ancora affidabili, e non si vuole, o non ancora, che la cosa seria sia la morte. Se la Commedia smettesse di esistere, o se ne smettessero di esistere i lettori, anche i più giovani, con cui condividerne l’esperienza, questa funzione si dissolverebbe. Consegnare questo libro a chi viene dopo di noi è dunque anche un atto necessario a non perderlo: a non perderlo noi.