“Le parole formano il pensiero”: modi di dire sessisti nel linguaggio sociale. Storia di un percorso di Educazione civica dentro la scuola a scuola
Premessa
Questo percorso nasce da una necessità imprevista. Durante il primo quadrimestre di questo a.s. 2023/2024, sull’onda emotiva collegata al 25 novembre, quasi tutte le classi della mia scuola sono state coinvolte, ex abrupto, approfittando di un’offerta vantaggiosa di uno dei cinema main stream della mia città, nella visione del film C’è ancora domani di Paola Cortellesi.
Non avevo preventivato (né del resto era stato deliberato nella programmazione condivisa del consiglio di classe) di far vedere questo film in questo anno scolastico: nello stesso tempo, di fronte a una tale adesione di massa, ho avuto ben presto la consapevolezza che rifiutare alle mie sole classi di partecipare a qualcosa che stava diventando, a torto o a ragione, di tutti, le avrebbe poste in una condizione di esclusione (pur in nome di ragioni molto cogenti) che consideravo educativamente altrettanto sbagliata.
Ho deciso dunque che avrei aderito anche io, obtorto collo, a questo grande rituale di massa; e che, proprio per questo, avrei dovuto integrare la mia programmazione didattica in modo che la visione non fosse un evento “appeso” (là dove per appeso intendo anche la troppo consueta triade: visione-discussione-riflessione scritta) nel mezzo del nostro viaggio scolastico, ma fosse viceversa inserita in una serie di scelte dotate di senso dentro la scuola a scuola.
Il percorso che ne è derivato (valorizzato poi ex post nella nostra programmazione condivisa come Consiglio di classe) è quello di una classe terza di un istituto tecnico tecnologico, articolata su due indirizzi (Chimica e Moda), con alunni/e che si conoscono dalla prima e che a partire dalla terza continuano a seguire le materie di area generale insieme.
1. Novembre-dicembre: gettare le basi
Il primo passo è stato quello di impostare una riflessione sui diritti delle donne in Italia che fosse basato su dati solidi. Ho dunque condiviso su piattaforma virtuale con la classe una brevissima scheda elaborata a partire dalla “timeline sintetica, costruita sulla situazione italiana” di Daniela Brogi nello Lo spazio delle donne (2022): le voci sulle diverse acquisizioni di legge sono state integrate con lo stato del diritto sostanziale a oggi. Ne è venuto fuori un brainstorming interessante, nel quale la cornice normativa e la sua effettiva applicazione sono state messe alla prova del vissuto dei ragazzi e delle ragazze. Questo ha permesso di fare emergere in maniera diretta come l’esperienza dell’abitare sociale – anche in una classe in cui (per ‘fortuna’) la discriminazione di genere è stata limitata all’’ordinaria’ casistica di una qualunque donna nell’Italia degli anni Zero – non possa che essere fortemente condizionata dal proprio genere.
Tra le varie osservazioni emerse, quella di G. è stata un filo rosso che mi sono portata dietro nello scandire i passi successivi. In prima battuta, G. ha raccontato a me e alla classe di avere subito molestie verbali sull’autobus che la portava dalla città a casa nel tardo pomeriggio, sempre dalla stessa persona, sempre allo stesso orario. Per questo il suo ragazzo le ha proposto di chiamarla e di stare al telefono con lei lungo tutto il tragitto, come misura di prudenza e ‘protezione’. Ascoltando G., mi è sembrato di notare un’esitazione mentre procedeva nelle diverse fasi del suo racconto; dunque, dopo avere negoziato con gli occhi il suo permesso, le ho posto una domanda che mi pareva importante per spostare il livello del dibattito su un piano più alto. Le ho infatti chiesto se, come mi sembrava, pur essendo grata dell’intervento del fidanzato (tanto da non riuscire, per sua stessa affermazione, a rinunciarvi), nello stesso tempo sentisse tutto il peso di quello che siamo arrivati a definire il ‘paternalismo involontario’ a esso sotteso. La risposta affermativa di G. ha aperto un ulteriore spazio di riflessione; l’attenzione e la volontà di intervenire da parte del fidanzato si colorano infatti di una doppia sfumatura: da un lato segno di sostegno e supporto, dall’altro cartina di tornasole di una imposizione culturale che fa calare sulla donna “salvata” la percezione della propria oggettiva difficoltà di autonomia nella gestione di alcune ben precise situazioni sociali.
Il confronto comune si è così spostato sulla questione dell’involontarietà e degli atteggiamenti micro-discriminatori ‘in buona fede’, nei fatti, così come nel linguaggio. In questa prospettiva, la discussione si è conclusa con la visione del monologo di Paola Cortellesi ai David di Donatello 2018 sull’uso del linguaggio sessista, attraverso il quale il dibattito nato dalla testimonianza personale di G. è stato riportato a una riflessione di portata più generale.
Il secondo passaggio ha previsto la lettura della Bambola a transistor, una delle Novelle fatte a macchina (1973) di Gianni Rodari – racconto che consente di verificare con un apologo semplice la questione del genere come costrutto culturale e sociale secondo la cornice teorica proposta da Gianini Belotti in Dalla parte delle bambine (pubblicato nello stesso 1973). Quest’ultima è stata messa alla prova con una analisi del testo (assegnata come lavoro per le vacanze di Natale) costruita sul modello della tipologia A della I prova per l’Esame di stato e che ha recuperato, nella parte di Interpretazione, alcune delle letture fatte nel I quadrimestre.
In questo modo, al ritorno delle vacanze, il lavoro di approfondimento svolto e riconsegnato sulla novella è andato a confluire nel bagaglio di contenuti e riflessioni propedeutico alla visione del film promesso.
2. Gennaio-febbraio: l’oggi di quel “Domani”
Il primo sabato di gennaio, al rientro delle vacanze, anche le mie classi hanno finalmente potuto accedere al tanto agognato empireo di C’è ancora domani. Il mio cedimento era annunciato, ma non per questo privo di alcune civetterie differenzianti. Innanzi tutto, non sono andati insieme a tutte le altre classi: fin da novembre, infatti, i miei alunni e le mie alunne hanno saputo che avrebbero ricevuto anche loro la dose stabilita di cinema, ma non prima di Natale, perché la visione andava seminata e fertilizzata opportunamente; in secondo luogo, il cinema prescelto non è stato quello di prima visione che aveva ospitato la maggior parte delle scuole a novembre, ma il cinema d’essai (collegato alla rete della Mediateca regionale toscana) della nostra città.
Circa una settimana dopo, ho dedicato le due ore del sabato a una seconda riflessione condivisa. La discussione, a partire da alcuni input dati, era basata su una prima divisione di massima “Forma”/”Contenuto”, volta a educare anche alla grammatica specifica stilistica del testo filmico. Lo scopo delle domande guida era quello di far riflettere alunni e alunne su alcune direttrici essenziali, sia tematiche, sia stilistiche. Dal punto di vista formale, gli elementi più significativi che sono emersi hanno riguardato l’uso del bianco e nero e quello della colonna sonora (ho usato come materiale di supporto la recensione di Teresa Monaco pubblicata su Cinematographe); questo ha permesso di introdurre il concetto di anacronismo e di verosimiglianza storica. Da qui abbiamo costruito anche il collegamento con la storia dei diritti analizzata a novembre e dicembre, interrogandoci sulle ragioni per le quali una regista sceglie di ripartire, per veicolare un film che siamo arrivati a definire “a tesi”, dalla partecipazione delle donne alle elezioni/referendum del 1946. In questo modo, abbiamo potuto stabilire un collegamento proficuo con la prima e soprattutto con la seconda parte dell’art. 3 della Costituzione, riflettendo sul fatto che l’impegno all’eliminazione degli ostacoli “al pieno sviluppo della persona umana” è di rango primario e costituzionale.
Il passo successivo è stato proseguire nel percorso sulla ricognizione del sessismo presente nella società contemporanea italiana attraverso la visione del Corpo delle donne di Lorella Zanardo. Ho anticipato la visione con una breve contestualizzazione, sottolineando marcatamente l’anno di uscita (il 2009!) del documentario. Al termine, abbiamo riflettuto sulla persistenza di un analogo uso delle immagini nel linguaggio pubblicitario italiano a 15 anni di distanza, in modo che fossero gli alunni e le alunne a portare esempi di pubblicità attuali. Ho usato come materiale di supporto l’articolo La rappresentazione delle donne nelle pubblicità di Giada Ranghi (Il Controverso, 2022), che ci ha fornito immagini attuali (e perturbanti) di educazione al genere fin dall’infanzia – elemento che ci ha permesso di recuperare nel dibattito le osservazioni rese nelle singole analisi della novella di Rodari.
Questa parte di riflessione si è conclusa con la visione del video Libere sempre (realizzato da ANPI Nazionale per il 25 aprile 2021), attraverso il quale abbiamo sottolineato il legame (già emerso durante la discussione sul film) tra Assemblea Costituente, guerra civile e Resistenza delle donne. Ho assegnato come materiali di approfondimento possibile un altro film e un libro, rispettivamente il film Il diritto di contare di Th. Menfi (con allegata la scheda di analisi prodotta da Leonardo Moggi e Andreina Di Brino per la Mediateca regionale toscana) e il libro Dodici parole (2019) di Gabriela Jacomella. Un altro possibile approfondimento, che nel mio caso non ho condotto per motivi di tempo (e perché il mio scopo era arrivare a lavorare specificamente sul linguaggio sessista), è ovviamente legato alla lettura, per stralci o integrale, della Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi.
A questo punto, i tempi erano maturi per un altro passo di consolidamento, che si è tradotto in una nuova prova di elaborazione scritta, svolta in classe, sul modello delle Tipologie B e C della I prova dell’Esame di stato. Ho assegnato tre tracce. Una di tipologia B a partire da una recensione moderatamente negativa a C’è ancora domani di Gianluca Pelleschi pubblicata sugli Spietati (2023), un’altra di tipologia B a partire da un articolo di Margherita Hack sui Contributi delle donne alla scienza: ieri e oggi quasi coevo al documentario di Zanardo (2008) e una terza di tipologia C a partire dal commento di un passo tratto dallo Spazio delle donne. In questo modo ciascun* alunn* ha potuto mettere alla prova quanto approfondito fino a quel momento con l’approccio a lui/lei più congeniale.
3. Marzo-aprile: “Siamo quel che parliamo?”: discriminazione di genere a parole
L’ultima parte del percorso prevedeva di concentrarsi sull’analisi di immagini e linguaggio svolta fino a quel momento in maniera più attiva. Il punto di partenza è stata una serie di tre Reel di Instagram realizzati nel 2023 dall’attrice Elisa Maria Bottiglieri (che si possono guardare rispettivamente qui, qui e qui) per l’associazione Donne in Rete contro la violenza. Ai miei tempi si sarebbe definita una “pubblicità progresso”: si tratta di una campagna dal titolo È solo un modo di dire, che spinge a riflettere sul sessismo implicito presente nei proverbi di uso corrente.
Questa fase si è concentrata soprattutto, dopo la visione e analisi in classe dei tre Reel, su un lavoro domestico individuale con revisione periodica da parte mia.
Su una bacheca virtuale condivisa, gli/le alunni/e hanno avuto il compito di identificare una serie di modi di dire sessisti: occasionalmente, in quei momenti di pausa tra un’ora e l’altra che ciascuno di noi ben conosce, io ho man mano visionato e commentato insieme alla classe i proverbi che venivano postati (aggiungendone un paio a mia volta). Per questa attività la consegna era di identificarne almeno uno per alunn*, indipendentemente da chi fosse stato l’autore del post: ne sono stati identificati 52 (oltre a quelli postati da me). A questo punto, ciascun* alunn* si è scelto un modo di dire diverso e (dopo la mia revisione sulla scelta) sono cominciate le ultime due fasi (integrate) del percorso.
Queste consistevano nella realizzazione di un Reel secondo la struttura identificata nei tre modelli, attraverso la scrittura di un copione (prima) e la realizzazione del video (poi). Per entrambe queste attività era prevista una interlocuzione costante con me, tanto nella fase di scrittura, quanto in quella di realizzazione del video.
Questo ultimo lavoro si è svolto lungo un arco di tempo di più di un mese, attraverso il susseguirsi, alunn* per alunn*, delle revisioni, che hanno portato al Reel finale per approssimazioni successive. Al termine, e con non poche complicazioni della trama (che hanno coinvolto le vacanze di Pasqua, la gita, attività di PCTO e un corso per la sicurezza), tutt* gli/le alunn* hanno realizzato il loro Reel: l’antologia completa è stata poi guardata e commentata in classe, tutt* insieme.
Durante le tappe che hanno scandito questo lungo lavoro, ho visto, piano piano, mutare la consapevolezza sia analitica (rispetto alla ‘lettura’ del mondo intorno a loro) sia discorsiva, della maggior parte di studenti e studentesse. Da un lato, l’abitudine a porre l’attenzione sul sessismo, sia quello pervasivo e volontario, sia quello che abbiamo definito ‘in buona fede’, di immagini e linguaggio ha indubbiamente alzato il livello di metacognizione di alunni e alunne della mia classe terza, tanto che non è raro che, durante le lezioni, arrivi un commento su una battuta poco felice, la segnalazione di una pubblicità vista, il tentativo di autocorrezione (o di scusa) per un modo di dire che arriva alle labbra spontaneamente. Abbiamo cominciato, insomma, a costruire dentro la scuola quella grammatica plurigenere (che ancora spesso latita) di cui ha parlato Stefano Rossetti.
Dall’altro lato, queste stesse capacità analitiche sono state messe a servizio di una argomentazione più stringente, nella consapevolezza (ovviamente ancora parziale) che solo un discorso rigoroso, e fondato su dati e prove, può portare alla concreta messa in quadro del proprio punto di vista. Questo dato, innestato su una classe di per sé portata a dare estremo valore all’adesione emotiva alle cose, mi porterebbe a dare una valutazione molto positiva di tutto il percorso se anche non ci fossero (come invece ci sono) anche altre questioni più ampie da proporre.
4. “O mythos deloi oti…”: a mo’ di conclusioni
Vi sono alcune riflessioni da fare (e che infatti abbiamo fatto insieme, sia con i/le collegh*, sia con gli/le alunn*), che assumono un carattere sia metodologico, sia più propriamente civico e politico.
Innanzi tutto, alunni e alunne si sono resi conto, toccando con mano la fatica, il percorso di avvicinamento, il labor limae necessario per realizzare, solo alla fine, delle piccole opere proprie, che percorsi del genere – anche se annunciati come più coinvolgenti e ‘diversi’ dalla didattica ‘tradizionale’ – pretendono cura, e tanto tempo, e non possono in alcun modo essere improvvisati. Si riafferma così il ruolo della scuola pubblica come agente culturale consapevole e ‘forte’. Scegliere di accogliere una attività nel proprio percorso scolastico significa infatti decidere di donare a questa attività quell’aura di cultura scientificamente valida che solo la scuola, come istituzione educativa, è in grado di dare. La differenza tra andare a vedere il film di Paola Cortellesi “perché siamo vicini al 25 novembre, e ce lo dice il calendario civile” e inserire questa stessa visione (pur in qualche modo imposta dalle circostanze) in una cornice di senso, in fondo, sta tutta dentro questa consapevolezza. Nessuna azione che si compie a scuola, insieme, dentro quella comunità ermeneutica costituita dalla classe, può essere svolta ‘a caso’ e qualunque atto in questo senso implica, forzatamente, da parte di tutti i partecipanti, ma in primo luogo da parte dei/delle docenti, una assunzione di responsabilità professionale che, in quanto tale, non può essere né delegata, né derogata. Sono importanti, a questo proposito, le osservazioni sull’”ora di lotta al femminicidio” di Emanuela Bandini.
La seconda osservazione si collega a quanto scritto recentemente da Stefano Rossetti sulla cosiddetta “scuola autentica”. Se la “la misura” di “realtà, autenticità, verità” nella scuola riguarda, prima di tutto, “la qualità della relazione e il quadro etico nel quale l’esperienza stessa si colloca”, posso dire con serena tranquillità che in questi mesi di rimodulazione forzata abbiamo prima dimostrato e poi convenuto, tutti quanti e tutti insieme, docenti e alunn*, che, per dirla con la formula con cui ho voluto intitolare questo articolo, “la scuola si fa a scuola”. Tempo verrà (e sarà lungo, e complesso) per alunni e alunne, di verificare sul campo del mondo un ventaglio variegato di altri incontri e di altri progetti. Vi sono però alcuni tipi di esperienze (come quelle che, giorno dopo giorno, abbiamo messo in pratica durante questi mesi) che, in quanto tali, possono essere agite solo a scuola, nella pienezza di una esperienza conoscitiva che si articola nella relazione docente-alunn* permessa dal sistema classe, con i suoi ritmi, i suoi modi, il suo procedere per sistole e diastole, gli intoppi, il senso di smarrimento per una difficoltà non calibrata o non prevista, le soddisfazioni sudate a caro prezzo, i suoi singoli elementi e la sua coralità.
Infine, tutto questo si innesta nel più vasto alveo della necessaria riflessione sistemica sulle modalità e sulle conseguenze dell’introduzione dall’alto della valutazione in pagella come voto separato dell’Educazione civica così come è stata prevista dalla L. 92/2019. Ho trattato le criticità e le conseguenze negative di questa ‘riforma’ in un mio intervento sulle Parole e le cose del 2020, al quale rimando; vorrei però sottolineare almeno che, a quattro anni quasi compiuti dall’entrata in vigore di questa ‘novità’, i nodi profetizzati allora, uno per uno, sono venuti prevedibilmente al pettine. Avere ‘regalato’, arbitrariamente e ope legis, a tutti/e i/le docenti italiani/e, una abilitazione di educazione civica (che solo i/le docenti di storia, fino a una certa data, hanno invece conseguito professionalmente), indipendentemente dalla disciplina insegnata, ha comportato un inevitabile abbassamento di competenza nell’insegnamento dell’Educazione civica stessa, nonché, alla lunga, un suo snaturamento. Perché l’Educazione civica, quella vera, pretende di essere trattata con il dovuto rispetto scientifico e, proprio per questo, si giova di una consapevolezza metodologica che scaturisce, come per qualunque altra disciplina, da una formazione dedicata e specifica – quella che, nel migliore dei mondi possibili, una volta fornita a livello iniziale, sfocia poi nella maturazione delle competenze professionali necessarie per acquisire una abilitazione. Ed è proprio la riflessione disciplinare, teorica e metodologica sottesa ad un’abilitazione che permette di padroneggiare, e mettere in pratica (anche all’occorrenza ridisegnando la strada in medias res, attraverso una rimodulazione integrale di percorso), un pensiero didattico consapevole. Questo tipo di padronanza non si ottiene con un corso di “disseminazione” a cascata, di poche ore, “erogato” come ineludibile adempimento, ma innestando l’educazione civica (materia delicata e complessa e affine, per sua natura, più ad alcune discipline che ad altre) in un sistema di conoscenze, competenze e riflessione professionale specifico. Non è un caso che il D. n. 585/1958 (istitutivo dell’Educazione civica all’interno della disciplina storica), nell’individuare la primaria esigenza che tra “Scuola e Vita si creino rapporti di mutua collaborazione”, avesse distinto tra quelle “singole materie di studio” che “non bastano a soddisfare tale esigenza, specie alla stregua di tradizioni che le configurano in modo particolaristico e strumentale”, le materie per loro natura più affini (“le lingue, la storia, la filosofia, il diritto – nelle quali pur sono impliciti”) e, infine, la storia “che ha dialogo più naturale, e perciò più diretto, con l’educazione civica, essendo a questa concentrica”. Nulla vieta, ovviamente, di individuare, quale disciplina associata (o di partenza per poter prendere una abilitazione), anche altre materie ‘affini’ oltre alla storia (“le lingue, […], la filosofia, il diritto”), ma sempre ponendo attenzione, prima di tutto, alla costruzione di un percorso di formazione serio, e, in secondo luogo, a rispettare sia le caratteristiche specifiche dell’Educazione civica, sia le competenze disciplinari necessarie per costruire intorno a essa un sistema didattico coerente. Perché, per esempio, “fare” un programma per conteggiare il proprio risparmio energetico nell’ambito di un approfondimento di informatica non significa fare educazione civica, significa “presentare una ricaduta pratica della propria disciplina”; una cosa molto utile, probabilmente necessaria, ma che non c’entra nulla con l’educazione civica, che è, e dovrebbe restare, una disciplina con uno statuto epistemologico proprio.
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Caporedattore
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Dalla esposizione di questa esperienza didattica e dal corredo di annessi e connessi educativi, cinematografici e civili che l’accompagnano si capisce che l’autrice dell’articolo non disdegnerebbe, per contestare i modi sessisti di dire nel linguaggio sociale, di rivolgersi, per ottenere una legittimità piena ed autorevole, alla… Magnifica Rettrice Flavio Furlan. No, il lettore non si è ingannato nel leggere e non si tratta di un semplice refuso. Anzi. l’intento delle autorità accademiche trentine che hanno redatto un documento di cinquanta pagine invertendo – bisogna pur dire, con supremo sprezzo del ridicolo – la concordanza grammaticale, designando tale inversione come ‘femminile sovraesteso’ e trasformandola, con esiti tra il goffo e il grottesco, in una vera e propria regola; l’intento, si diceva, è quello di compiere, secondo quanto sta scritto nel Regolamento di Ateneo approvato il 28 marzo scorso, “un atto simbolico per dimostrare parità a partire dal linguaggio dei nostri documenti”: «Nell’università di Trento è vietato usare il maschile. Il contenuto di tutti i documenti sarà espresso al femminile». Queste sono, pertanto, le conseguenze derivanti dall’applicazione del cosiddetto ‘femminile sovraesteso’: “La Magnifica Rettrice Flavio Furlan, La Chiarissima Professoressa Claudio Agromonte, La Ricercatrice Luigi Congiu”. Orbene, non vi è dubbio che l’innovazione dei Soloni trentini meriterebbe di essere archiviata tra quelle esagerazioni prodotte da un’applicazione schematica dell’istanza antisessista per definire le quali gli inglesi adoperano il termine di ‘self-stultifying’, che in italiano si può rendere con l’espressione: “ciò che rende stupido sé stesso”. Sennonché anche da una tale manifestazione di insipienza linguistica si può ricavare qualcosa di utile e di istruttivo riguardo al rapporto tra le parole e le cose e, di conseguenza, riguardo all’insegnamento della educazione civica. È evidente, infatti, che i fanatici della ‘political correctness’, ponendo al femminile il nome che qualifica la funzione svolta da individui di sesso maschile (ossia “Rettrice”, “Professoressa” e “Ricercatrice”), sono incorsi nello scambio fallace tra una pura asserzione grammaticale e un genere biologico, finendo con l’elevare al rango di sostanza reale quella che è una pura forma grammaticale (o, volendo esprimerci nei termini della filosofia del linguaggio, scambiando un’‘esistenza reale’ con un’‘esistenza semantica’). Porre in risalto questa fallacia potrebbe quindi arricchire il tasso, per la verità non molto elevato, di senso critico che caratterizza l’articolo in questione.