Letteratura e Diritto: breve tracciato di una disciplina. Il caso italiano: qualche riflessione
Origini
Salvo alcuni studi interdisciplinari condotti alla fine del XIX secolo (molti dei quali in Italia), il movimento di Law and Literature nasce negli Stati Uniti all’inizio del XX secolo in un clima di generale reazione contro il formalismo giuridico ottocentesco. Nel 1908 John Henry Wigmore con A List of Legal Novels seleziona alcuni romanzi (soprattutto anglosassoni) che trattano temi giuridici e li classifica con l’obiettivo di diffondere opere letterarie in grado di testimoniare i valori fondamentali della cultura giuridica americana del primo Novecento. Nei decenni successivi vengono pubblicate altre opere simili (F. J. Loesch, W. H. Hitchler) volte cioè a consolidare e diffondere l’idea secondo cui la letteratura può contribuire a formare la coscienza etica di giudici, avvocati e giuristi.
I primi sviluppi negli Stati Uniti
Nel 1925 viene pubblicato un saggio destinato ad avere grande fortuna: con Law and Literature, Benjamin Cardozo delinea i due grandi indirizzi attraverso cui il movimento sarà poi tradizionalmente descritto durante tutto il XX secolo e ancora oggi. Da un lato, in maniera simile a quanto aveva fatto Wigmore, Cardozo invita a comprendere i molteplici contesti in cui si svolge l’esperienza giuridica attraverso lo scarto fra law in action e law in books (“law in literature”) e dunque nel confronto con le varie rappresentazioni che la letteratura offre degli istituti giuridici e dei problemi in senso lato giuridici; dall’altro lato, dichiara l’utilità di leggere e interpretare le sentenze come paradigmi di scrittura letteraria (“law as literature”). Se il primo indirizzo punta ad analizzare le rappresentazioni che la letteratura fa del diritto e dei suoi temi (processi, indagini, giudici, avvocati, imputati, giustizia, pena etc.) ritenendole utili alla formazione etica degli operatori giuridici, il secondo, partendo dal presupposto che tanto il diritto quanto la letteratura siano discorsi costruiti intorno a dei testi, mira a usare le categorie della critica letteraria per ampliare l’analisi dei problemi classici della teoria del diritto, soprattutto quelli riguardanti l’interpretazione e l’argomentazione giuridica.
I primi studi condotti in Italia
Nel 1924 Piero Calamandrei scrive: «dalla lettura di certe pagine di romanzi, nelle quali si descrivono con linguaggio profano i congegni della giustizia in azione, è assai spesso possibile trarre un’idea precisa, meglio che da una critica fatta in gergo tecnico e in stile cattedratico, del modo in cui la realtà reagisce sulle leggi e della loro inadeguatezza a raggiungere nella vita pratica gli scopi per i quali il legislatore crede di averle create» (Le lettere e il processo civile, in «Rivista di dir. proc. civile», I, p. 204). Anche in Italia, dunque (e nella cultura di lingua tedesca grazie soprattutto al lavoro di Hans Fehr negli anni Trenta), inizia a diffondersi la convinzione secondo cui l’opera letteraria costituisce una risorsa per la formazione del giurista e per l’analisi della scienza giuridica, essendo in grado, in particolare, di dare forma e voce alla vita psichica degli individui (intuizione che, approfondita e argomentata, diverrà centrale nella caratterizzazione che della finzione daranno Käte Hamburger in Die Logik der Dichtung [1957] Thomas Pavel in Fictional Worlds [1986] e Paul Ricoeur in Soi même comme un autre [1990]). Per Roberto Vacca (Il Diritto Sperimentale, Fratelli Bocca, Torino 1923), ad esempio, le opere letterarie permettono di comprendere «certi modi di agire e di pensare inerenti alla natura umana assai meglio di qualche vecchio trattato di filosofia del diritto, ed anche di qualche moderno manuale di psicologia giudiziaria» (p. 245). La letteratura è vista insomma come potente fonte di ispirazione per il giurista poiché aiuta a comprendere i rapporti tra gli uomini e dunque facilita l’interpretazione dei vari istituti legislativi che regolano la vita associata.
La letteratura e la vita del diritto (Ubezzi & Dones, Milano 1936,) di Antonio D’Amato è il primo saggio italiano rivolto esplicitamente al tema dei rapporti tra diritto e letteratura. In una prospettiva crociana, D’Amato considera entrambe materie come branche «dell’attività dello spirito» (p. 14), manifestazioni di una stessa coscienza collettiva che si autorappresenta nella letteratura («termometro della sensibilità giuridica di un popolo», p. 14) e si formalizza e si autoregolamenta nel diritto.
Gli sviluppi successivi
A questo iniziale periodo di sviluppo, seguono alcuni decenni di sostanziale continuità con le linee originarie sopra menzionate senza grandi evoluzioni (ma i contributi sono molteplici e costanti e per molti aspetti ancora “inediti”): nel 1960 esce The World of Law, un’antologia curata da Ephrain London e composta da due volumi significativamente intitolati Law in Literature e Law as Literature; in Italia, è soprattutto Ferruccio Pergolesi a esaminare in modo sistematico i rapporti tra diritto e letteratura; nella cultura di lingua tedesca, prima dei celebri contributi di Pernthaler e Lüderssen degli anni Settanta, gli studi di letteratura e diritto si rivolgono specialmente a questioni di diritto penale (dando vita a una vera e propria tradizione in questo campo di analisi).
The Renaissance
Un cambiamento decisivo si verifica a partire dagli anni Settanta, quando lo studio dei rapporti tra diritto e letteratura si emancipa da un ruolo semplicemente e saltuariamente “ancillare” ad uso e consumo dei giuristi e inizia a essere valutato come metodo sistematico destinato a colmare «la frattura tra il diritto e la realtà» (J. Allen Smith The Coming Renaissance of Law and Literature, «Maryland Law Forum», 7.2, 1977, p. 85, trad. nostra). Questa seconda fase (la metafora del rinascimento, destinata ad avere grande fortuna, è stata usata per la prima volta proprio da J. Allen Smith nell’articolo sopracitato) si fa cominciare convenzionalmente nel 1973 con la pubblicazione dell’opera fortunatissima di James Boyd White: The Legal Imagination. Studies in the Nature of the Legal Thought and Expression (Boston, Little, Brown 1973: parte di una trilogia che comprenderà anche When Words Lose their Meaning. Constitution and Reconstitution of Language, Character and Community del 1984 e Hercules’ Bow. Essays on Rhetoric and Poetics of the Law del 1985).
In sostanza, White mira a evidenziare la natura retorica, umanistica e “artistica” del diritto, la sua capacità di strutturare e indirizzare modi di pensare e aspettative di giudizio e dunque, più in generale, di configurare una cultura condivisa in cui sono proprio i concetti centrali del diritto (colpa, punizione, giustizia etc.) a possedere anzitutto un carattere umanistico. In questa prospettiva, la letteratura («as the most human of the humane arts», J. Stone Peters, Law, Literature, and the Vanishing Real: On the Future of an Interdisciplinary Illusion, «PMLA», 120.2, 2005, p. 444) non serve tanto a formare rapsodicamente l’aspirante giurista, quanto piuttosto a renderlo consapevole della natura culturale e umanistica e del carattere performativo del diritto stesso. Più che un sistema di norme, il diritto viene considerato da White come un sistema di pensiero e di espressione («habits of mind and expectations, what might also be called a culture», p. 13) all’interno del quale la letteratura «could somehow bring the real to law» (J. Stone Peters, cit., p. 444). La letteratura garantirebbe insomma il diritto, e dunque la comunità di cui il diritto è espressione primaria, dal rischio di un suo pericoloso allontanamento dalla realtà. La renaissance lanciata da White consiste dunque, parafrasando Smith, in una avanzata delle humanities, dove la letteratura viene celebrata per la sua specifica capacità di riformulare incessantemente il bisogno di comprendere la condizione umana.
Oltre James Boyd White: diritto e letteratura all’intersezione fra “text, community, culture”
Oltre ad aver acceso un grande dibattito, l’enfasi posta da White sulla natura discorsiva, retorica e culturale del diritto («a return to a sense of law as a humanistic discipline», J. B. White, What Can a Lawyer Learn from Literature ?, «Harvard Law Review», vol. 102, 1989, p. 2015) ha contribuito in modo determinante al riconoscimento accademico di un nuovo campo interdisciplinare rivolto per l’appunto agli studi incrociati di Law and Literature (e più in generale di Law and Humanities). Gli anni Ottanta rappresentano in questo senso il decennio di maggiore espansione dello studio del binomio Diritto e Letteratura: in quel periodo, mentre la ricerca si estende proficuamente alla Spagna (Derecho y Literatura di Juan Ossorio Morales, del 1949 è un caso isolato) e mentre in Germania le prospettive di analisi e le monografie si moltiplicano (dal 1982 la Neue Juristische Wochenshrift pubblica annualmente inserti dedicati a Literatur und Recht) negli Stati Uniti e in Francia Law and Literature / Droit et Littérature si affermano come materia autonoma oggetto di insegnamenti universitari specifici. Le riviste che accolgono saggi in questo campo (o che vengono fondate a questo scopo come The Yale Journal of Law and the Humanities o Cardozo Studies in Law and Literature) sono numerose; parallelamente si moltiplicano i convegni, le conferenze, le organizzazioni permanenti di studio, i laboratori, i corsi universitari (Cfr. W. Page, The Place of Law and Literature, in «Vanderbilt Law Review», n. 39, marzo 1986, pp. 391-417).
Il caso italiano
Diversamente dall’esperienza francese (si pensi a Régine Dhoquois) e soprattutto da quella anglosassone (dove il Law and Literature Movement investe mano a mano filosofia, storia, arti visive, teoria del linguaggio, narratologia, sociologia, critica letteraria), in Italia, lo studio di Diritto e Letteratura è stato ed è praticamente e tradizionalmente appannaggio dei giuristi (filosofi e storici del diritto, privatisti, penalisti, avvocati, magistrati etc.) sia sotto un profilo teorico sia, ed è questa la maggiore anomalia, sotto un profilo accademico.
Sotto il primo profilo, è sufficiente pensare che le opere più importanti pubblicate negli anni Ottanta e Novanta sono state per l’appunto opere di giuristi (per citarne alcuni: Mario Cattaneo, Bruno Cavallone, Giorgio Rebuffa, Antonio Bevere, Remo Danovi, Guido Alpa, Fabrizio Cosentino, Adelmo Cavalaglio). La cosa è tanto più curiosa se si riflette sul fatto che è precisamente a partire dagli anni Ottanta, per l’appunto denominati «theory years», che fuori dall’Italia si sono sviluppate diverse e proficue declinazioni del rapporto tra diritto e letteratura (alcune delle quali molto critiche verso l’impostazione classica di White, come ad esempio quella di Robin West); che si sono approfonditi i contenuti e le indagini di Law in (quella di Martha Nussbaum, che Paul Heald nel suo A Guide to Law and Literature for Teachers, Students, and Researchers [1998], ha definito la prospettiva etica ne è un esempio) e di Law as (indirizzo approfondito ad esempio da Peter Brooks); e che sono emerse, grazie anche al contributo di altre discipline (Richard Rorty, Stanley Fish, Owen Fiss, Peter Goodrich), nuove linee di ricerca in merito a questo genere di studi. In Italia, oltre a essere stato relegato a competenze quasi esclusivamente giuridiche, lo studio di Diritto e Letteratura, stando alla tripartizione proposta da J. Stone Peters nell’articolo sopracitato, ha sperimentato soltanto la declinazione umanistica dominante negli anni Settanta («humanism […] focusing largerly on literary texts»), disinteressandosi quasi completamente dei suoi sviluppi successivi e cioè delle altre due declinazioni che hanno caratterizzato lo studio di Diritto e Letteratura: la prima, «hermeneutics», dominante negli anni Ottanta «and focusing largerly on literary theory», e la seconda, «narrative», dominante negli anni Novanta «and focusing largerly on legal cases» (p. 444). Solo recentemente, a Milano sotto la guida di Gabrio Forti, a Bologna/Urbino sotto la guida di Maria Paola Mittica e a Verona sotto la guida di Daniela Carpi e Pier Giuseppe Monateri, si sono formati gruppi di lavoro e percorsi di ricerca volti a teorizzare nuove e interessanti prospettive critiche nel rapporto tra diritto e letteratura.
Sotto il secondo profilo (l’insegnamento accademico di Diritto e Letteratura) l’anomalia italiana riguarda ancora una volta le competenze. In Italia, infatti, i corsi di Diritto e Letteratura (tutti recentemente o recentissimamente avviati) vengono svolti in gran parte all’interno dei dipartimenti di Giurisprudenza e non afferiscono mai a un settore disciplinare autonomo e specifico ma sono integrativi o sostitutivi di corsi principali che rientrano in altri settori: IUS/19 (storia del diritto), IUS/20 (filosofia del diritto), IUS/01 (diritto privato). Corsi analoghi avviati all’interno dei dipartimenti di Letteratura, oltre ad essere in netta minoranza e a non afferire a nessun settore disciplinare autonomo e specifico, risultano spesso e vagamente qualificati come seminari, gruppi di lavoro, workshop tematici. Diversamente, fuori dall’Italia, per quanto diversi possano essere gli approcci teorici al dibattito o forse proprio per questo (Robin West, Richard Posner, Ian Ward, Paul Heald, Martha Nussbaum), lo studio di Law and Literature ha dato origine a una vera e propria scuola (Cfr. R. Posner, Law and Literature. Revised and Enlarged Edition, Cambridge, Harvard University Press, 1998) in cui le competenze sono interdisciplinari e sono soprattutto concepite per insegnare Diritto e Letteratura (o Law and Humanities) come una materia autonoma.
Considerando l’interesse sorto intorno a questo campo di studi (oltre ai numerosi corsi avviati in molti dipartimenti italiani, nel 2008 sono nate la ISLL, Italian Society for Law and Literature e l’AIDEL, Associazione Italiana Diritto e Letteratura, entrambe molto attive nel network internazionale) sarebbe insomma auspicabile che l’insegnamento di Diritto e Letteratura trovasse una propria sfera di autonomia (meglio sarebbe un proprio settore disciplinare) che garantisse una reale interdisciplinarietà di studi includendo maggiormente i dipartimenti di scienze umanistiche.
Prospettive
Oltre a questo auspicio di carattere istituzionale, vale la pena osservare che negli ultimi anni il dibattito internazionale si è concentrato principalmente su temi politici (diritti sociali, relazioni identitarie, equilibri economici e politici globali) e sulle ricadute etiche che lo studio del diritto e delle discipline umanistiche può produrre. Una delle maggiori tendenze degli studi di Law and Humanities (come testimoniano riviste quali Law and Critique, o gruppi di lavoro come Critical Legal Thinking) osserva il diritto da una prospettiva interdisciplinare in quanto apparato normativo attraverso cui vengono descritti e regolamentati atti e concetti estremamente conflittuali e problematici (potere, dovere, desiderio, violenza, possesso, affetti, dignità, uguaglianza etc.). Non vi è ormai più alcun dubbio sul fatto che il diritto sia uno strumento politico che ha un profondo impatto sulla soggettività individuale a difesa degli equilibri democratici (e di conseguenza sul genere, sull’identità, sulla classe, sulla condizione esistenziale).
Costas Douzinas (A Humanities of Resistance: Fragments for a Legal History of Humanities, in A. Sarat, M. Anderson, C. O. Frank, Law and the Humanities. An Introduction, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, p. 70) ha sostenuto che «law is no longer the form or the instrument, the tool or restraint of power; it has started turning into the very operation, the substance of power» (il diritto non è più la forma o lo strumento, il dispositivo o il vincolo del potere; ha iniziato a trasformarsi nella vera e propria operazione del potere, nella sua sostanza). Gli studi di Law and Humanities stanno attraversando una fase in cui le emergenze politiche e sociali sono centrali: la svolta biopolitica e le trasformazioni degli assetti globali hanno fatto sì che il problema dei diritti umani e sociali (e in particolare dell’identità degli individui) sia divenuto il fulcro negli approcci interdisciplinari al diritto. In questa prospettiva è auspicabile che anche in Italia gli studi di diritto e letteratura acquistino un ruolo rilevante nella comprensione di tensioni, esperienze e discorsi che riguardano temi analoghi. Ed è in questa prospettiva che la letteratura può vedere riattivata e rivalutata la propria capacità di mostrare i conflitti anche laddove sembrano prevalere equilibri non conflittuali, forme di potere pienamente legittime e valori condivisi: la capacità, insomma, di mantenere attive e pienamente comprensibili, in una formazione di compromesso, istanze contraddittorie, contrastanti e plurali.
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