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diretto da Romano Luperini

E se fossi io Mateo Faber? Migliorare l’efficacia educativa di una scuola senza preoccuparsi di scalare le classifiche

Ultimo del ranking dell’ATP World Tour, alla posizione 2163, si trova il tennista croato Mateo Faber: se io fossi lui, come fare per avvicinarmi al re della classifica, il serbo Novak Djokovic?

Eduscopio

Dal 2009 anche la Fondazione Giovanni Agnelli compila un ranking, ma delle scuole: ha iniziato, in formato cartaceo, con la classifica degli istituti superiori piemontesi, estendendola successivamente a quelli lombardi, emiliani e calabresi; nello scorso novembre ha quindi messo in rete il motore di ricerca Eduscopio. Confronto, scelgo, studio (http://www.eduscopio.it/), che permette di confrontare le scuole dell’intero Paese. Questo strumento utilizza come base statistica l’Anagrafe Nazionale degli Studenti universitari (ANS) del MIUR, si avvale cioè dei risultati universitari degli studenti per trarre indicazioni sulla qualità della formazione offerta loro dalle scuole superiori di provenienza.

Il fine dichiarato di Eduscopio è, da un lato, fornire dati e confronti a quelle famiglie che sono in cerca di una bussola per scegliere il miglior istituto − o il meno peggio − dove iscrivere il figlio, dall’altro, permettere agli insegnanti di verificare l’efficacia della propria azione educativa, confrontando le performances dei diplomati della propria scuola con la media regionale e con le scuole congeneri sul territorio.

In un’ottica liberale, come quella legittimamente abbracciata dalla Fondazione, l’istruzione è un bene assimilabile a una merce, per il quale si è disposti a spendere e a impegnare tempo e risorse, ad esempio per far viaggiare il proprio figlio da una parte all’altra della provincia: secondo quest’ottica, il motore di ricerca dovrebbe dunque favorire un consumo critico, rafforzando la libertà di scelta dei “clienti”.

Le rivelazioni dell’Eduscopio, come già quelle dei passati rapporti, sono però anche un’occasione di confronto fra insegnanti. Nel mio caso hanno scatenato un certo giro di mail fra colleghi ed ex colleghi, dove si esaminavano le ragioni di questa operazione, si discettava sull’attendibilità delle rilevazioni ecc., ma dove si è finito anche per commentare i risultati meno brillanti del previsto di un certo liceo di Torino: di questa scuola, in cui ho insegnato da precario per un anno, serbo un bellissimo ricordo, proprio per avervi trovato un clima ricco e stimolante, vuoi per il lavoro di alcuni insegnanti bravi e motivati, vuoi per la sensibilità e l’attivismo dei ragazzi, vuoi per la permeabilità ad alcune proposte di impegno in realtà esterne quali Acmos e Treno della Memoria.

Dal punto di vista mio, di insegnante, mi chiedo allora che cosa faccia la “qualità” di una scuola, se ci sia qualcosa di più da valutare oltre alla performatività degli allievi, e soprattutto se e come una scuola possa crescere, migliorare.

La “qualità” di una scuola: infrastrutture, ragazzi, insegnanti, dirigenti

La scuola è fatta di infrastrutture, di ragazzi, di insegnanti e di dirigenti.

Quanto alla bruta materialità degli istituti, non saprei dire quanto incida sulla qualità degli apprendimenti. So dire però che molto spesso si tratta di edifici o brutti o sciattamente trattati o poveri nell’infrastruttura: per la vetustà dei tinteggiamenti, per la cronica mancanza di manutenzione del verde che li circonda, per gli sparuti e inefficienti laboratori. In quegli edifici si vive una costante impressione di spaesamento, il sentimento di essere in un luogo di passaggio o in una terra di nessuno, dove non si lascerà traccia significativa di sé. Ma a questo si fa facilmente l’abitudine.

Quanto agli studenti, i migliori sono in gamba a prescindere dai maestri: chi ha avuto di più dal bios o dalla famiglia, avrà di più in termini di risultati e di occasioni nella vita. Quanto agli altri, tocca all’insegnante prenderli in carico, per riequilibrare, per quanto può, il loro svantaggio, mediando i contenuti e facendo saggiare a ciascuno la sua autoefficacia.

Quanto ai docenti, nelle scuole italiane oggi regna la disomogeneità: chi si sente “insegnante laureato”, aspira al posto prestigioso, su cui appena può si intronizza (se regge la prova della matricola dei primi anni, non venendo sdegnato dall’élite dei colleghi e dei genitori: allora si identifica nel posto che occupa, diventando talvolta parte della struttura in quanto cariatide); chi si sente pessimo, si ritira nei refugia peccatorum, barcamenandosi come riesce, anelando a pagnotta e pensione. Ma i più, in verità, insegnano dove possono e soprattutto dove li sospingono gli alisei della graduatoria.

Quanti sono i colleghi che si muovono, non necessitati, nel corso della carriera? Non la maggioranza. Il trasferimento di sé e dei propri incartamenti, d’altra parte, può suscitare temibilissimi intoppi burocratici, quindi quieta non movere.

Relativamente infine ai DS, la loro mobilità in questi anni s’è fatta convulsa, anche per via dell’accorpamento dei più diversi istituti e degli incarichi di reggenza: quanto spesso il cambio di dirigenza ha accentuato la conflittualità, soprattutto fra colleghi; in quante scuole la provvisorietà delle scelte e la continua inversione della direzione di marcia ha demotivato chi ci lavora e chi ci studia. Per non parlare dei conflitti quotidiani fra presidi e Collegi docenti: i primi, giuridicamente inquadrati come dirigenti, come tali si comportano; i secondi sono investiti ormai solo in via teorica del compito di dare indirizzo alla scuola.

Fare il fuoco con la legna che si ha

Ci si trova dunque a fare il fuoco con la legna che si ha: le scuole reputate accolgono insegnanti che si sentono in gamba e studenti che si sentono all’altezza della sfida (i primi anni del corso di studio del resto servono per scremare, no? Verbo odioso questo scremare, coi suoi richiami lattiero-caseari di separazione delle creme dai sieri, di affioramento in alto del buono e di scadimento verso il basso dell’inconsistente, da cui non si può cavare più niente); le scuole malfamate fanno da tetto a chi si sente pessimo e agli sprovvisti del bacio della buona sorte. Nelle scuole malfamate la percentuale dei supplenti annuali in transito è molto più sensibile che nelle altre, dunque il corpo insegnante è lì più che altrove precario, sempre soggetto al ricambio: così, il buono come il cattivo che i docenti vi costruiscono insieme è transeunte e ogni anno si ricomincia da capo.

Se questa è la situazione, si capisce che un ranking si limita a sancire lo stato delle cose, polarizzando fra buoni e cattivi. Se fossi Mateo Faber, avrei la precisa cognizione di quali passi fare per scalare posizioni: riscrivere la mia tabella di allenamento, programmare gli impegni della stagione.

Ma le scuole? Come dovrebbero fare quelle mal piazzate per risalire la china? Di certo, una scuola e i suoi insegnanti non si possono scegliere gli studenti: se si lavora in contesti difficili, il livello di stress aumenta come la tentazione di tirare i remi in barca, concedendosi il “prima non prenderle”, poi il “si fa quel che si può”; d’altro canto la reattività di un gruppo di ragazzi gratifica chi insegna e lo motiva a dare il meglio.

Ma visto che una scuola non si può scegliere neppure gli insegnanti né il dirigente – e credo che questo sia un bene, perché è umana la tendenza a scegliersi fra uguali, a creare conventicole e a dar luogo a conventiones ad excludendum −, non resterebbe che lavorare sul gruppo umano che si forma di anno in anno aleatoriamente. Nel mondo lavorativo di oggi, del resto, il successo non dipende per lo più dall’eccellenza dei singoli, ma piuttosto dalle capacità di collaborazione di tutta una squadra: la folla di professionisti che serve per la realizzazione di un film ce lo testimonia. Quanto dovrebbe illuminarci la consistenza delle troupes illustrata nei sempre più lunghi titoli di coda!

Purtroppo, nella scuola non sempre è detto che chi fa parte della “troupe” cooperi (mi riferisco alla scuola secondaria evidentemente, perché la scuola dell’infanzia e la primaria sono imperniate sul gruppo): il lavoro del professore sembra declinarsi oggi solo al singolare, nel chiuso della classe o al tavolino di lavoro, anche quando sono previsti formalmente momenti assembleari e di decisione comune (collegi docenti, dipartimenti disciplinari, consigli di classe ecc.). Invece, di lavoro di squadra ci sarebbe bisogno: i consigli di classe, oggi più che mai, devono farsi carico delle situazioni pesantissime di tanti allievi, con ricadute ben oltre la sfera della resa scolastica. Un amico educatore, a cui raccontavo dei problemi di numerosi ragazzi di una classe, si chiedeva come potessimo lavorarci utilmente senza una supervisione esterna. Ancora, un altro interessante banco di prova dell’idiosincrasia verso il lavoro di équipe viene offerto dalla scarsa collaborazione di docenti curricolari e insegnanti di sostegno: molti dei secondi avrebbero parecchio da dire sul trattamento loro riservato dai primi.

Ma chi avrebbe il dovere, oggi, di far crescere l’efficacia dei gruppi di lavoro che si costituiscono nella scuola? Chi è davvero formato per farlo? E se ne sente l’importanza, visto che non c’è un capitolo di spesa al riguardo nelle Leggi di stabilità, come già prima nelle Finanziarie, e non se ne fa cenno ne La buona scuola?

Fare il fuoco con la legna che si ha non è rassegnazione; anzi, ciascuna scuola, con la legna che ha, deve riuscire a fare il miglior fuoco possibile. L’auspicio è che sia per tutti gli istituti un fuoco sufficientemente buono, come sufficientemente buone secondo Winnicott dovrebbero essere tutte le madri.

L’articolo 3 della Costituzione non parla di valorizzare le eccellenze – che è l’obiettivo del ranking dell’ATP World tour e della Fondazione Agnelli –, ma di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e «l’effettiva partecipazione di tutti [corsivo mio] i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

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