Risposta su Leopardi
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Lo so anch’io (e chi non lo sa?) che esiste un rapporto fra l’io empirico che ha scritto Il canto notturno e la voce dell’io trascendentale che ci parla oggi da quei versi. Aggiungo che indagare questo rapporto può essere spesso utile per capire la genesi di un testo e la sua lettera materiale. Ma identificare io empirico e io trascendentale o far dipendere il secondo dal primo è altra cosa, come sa ogni esperto di poesia. D’altronde su questo punto ha scritto pagine definitive Proust nel suo Contre Saint Beuve. Non intendo perciò far torto alla intelligenza del lettore insistendo su questo tasto.
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Abate ha ragione a ricordarci che questi sono discorsi fra intenditori, o privilegiati, ma che la grande massa resta esclusa dalla fruizione di un concerto di musica classica o dalla comprensione di una poesia di Leopardi. Ma finché esisteranno i “signori” e i “servi” di nietzscheana memoria, solo i primi potranno gustare e apprezzare le raffinatezze della cultura. La forma è attributo delle classi dominanti, no? E’ una delle tante ingiustizie (e nemmeno la più grave) delle società dove esistono oppressori e oppressi.
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Come illustrazione della vita di Leopardi il film funziona bene (tranne qualche sbavatura romanzesca), ha ragione Anna Drago. Ritengo anche che possa servire a scuola per incuriosire gli studenti e spingerli a un maggior interesse per Leopardi. Forse se il film si fosse limitato a questo compito di illustrazione, sarebbe stato meglio. Invece coraggiosamente (e di questo coraggio va dato atto senza dubbio all’autore) il regista ha tentato di collegare la voce alla persona, la poesia al romanzo della vita. Di qui il mio disagio. Il regista ha finito con l’ appiattire la voce sulla persona, l’io trascendentale su quello empirico, sino a soluzioni grottesche (quella dell’incontro con la prostituta che si rivela un omosessuale ha davvero un fondamento filologico, Anna?). Malgrado ogni buona intenzione, la voce viene fatta dipendere dalla persona, la lirica dal romanzo della vita, l’arte dalla desacralizzazione del consumo. Il povero Giacomo può affannarsi quando vuole a dire che il suo pessimismo non dipende dalla propria infelicità personale, ma lo spettatore, vedendolo arrancare per i vicoli di Napoli, non può che pensarlo fatalmente.
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Editore
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Evidentemente lettori di scarsa intelligenza
Gentile prof. Luperini, mi sembra riconduca il discorso nel quadro da cui era mia intenzione liberarlo: io empirico e io trascendentale, categorie del pensiero metafisico (indipendentemente dal fatto che sia in gioco un’opposizione, una priorità dell’uno sull’altro o una coincidenza).
Dunque mi permetto di ribadire: fuori da ogni riduzione dell’opera alla biografia (l’io empirico), sarebbe ora di abbandonare anche la retorica della poesia come voce dematerializzata (l’io trascendentale), che sembra avere a vedere in ultima analisi più con un’idea da estetologi cristiano-romantici che non con la forza della parola poetica (roba insomma da buveurs de quintessences e mangeurs d’ambroisie, da aureola).
P.S. Proust è Proust, ma quando si parla di letteratura si possono scrivere “pagine definitive”?
Postilla
Rispondere con un commento a una risposta può essere forse indiscreto, ma questo mio ha solo il valore di un post scriptum. Mi sono fatta l’idea, in questi giorni, che il clamore mediatico suscitato dal film non sia stato un bene per il film stesso. Polarizzando le vedute (filmaccio noioso e volgare, o ultimo capolavoro della cinematografia italiana)risulta alla fine fuorviante. Non mi pare che l’ultima fatica di Martone sia né l’una né l’altra cosa, e mi pare invece che Luperini ne abbia colto benissimo la caratteristica peculiare (tenere insieme -o almeno provarci- biografia e opera poetica). Sull’opportunità e la riuscita dell’operazione possono darsi valutazioni diverse (a me continua a sembrare un esperimento interessante e non banale). Grazie, quindi, a Romano per aver impostato il dibattito a un livello di grande e profonda consapevolezza intellettuale.
(Anna)
Due righe
Vorrei aggiungere due righe solo per una precisazione a Davide Rocca al di fuori di ogni polemica (fra l’altro, sulla sua istanza materialistica penso di essere anche d’accordo). La terminologia che, nella critica letteraria contemporanea, distingue “iio trascendentale” e “io empirico” non ha a che fare con la tradizione idealistica o metafisica o romantica o cristiana, ma appartiene a Montale che la usa per distinguere l’io che parla nelle poesie liriche dall’io che quelle poesie ha scritto. Che non piacciano i termini, posso anche capirlo. Vogliamo chiamare uno X e l’altro Ypsilon? Importante comunque è la distinzione che è molto utile per evitare semplificazioni e appiattimenti (tipici, per esempio, del positivismo). E va da sé che, per spiegare tale distinzione, sono state apportate, da Proust a oggi. ragioni diverse: basti pensare a quelle addotte, sul piano psicoanalitico, da un lato da Agosti, che la riconduce in sostanza alla differenza fra inconscio e conscio, dall’altro da Orlando (che rifiuta il biografismo rifacendosi, oltre che a Proust, al libro freudiano sul motto di spirito).
R.Luperini
Per precisare….
Non mi pareva di essere stato così drastico. Tra i due estremi (i “signori” che gustano le raffinatezze della cultura; i “servi” che ne sono esclusi) ci sono tutti i tentativi di singoli e movimenti – ambigui, mezzo riusciti, falliti – di appropriarsi o approssimarsi a quel “qualcosa” d’universale presente nella cultura e forse spesso fin troppo cristallizzato nella forma più congeniale ai dominanti. E ci sono poi tutti i tentativi di chi a quel sapere di privilegiati ha avuto accesso e comunque tenta di non dimenticare gli esclusi.
Proprio in questi giorni mi è capitato di leggere approvando queste due osservazioni di uno scritto di Agamben per molti versi interessante:
– « Mi riferisco agli analfabeti, questi uomini troppo in fretta dimenticati, che solo un secolo fa erano, almeno in Italia, la maggioranza. Un grande poeta peruviano del XX secolo ha scritto in una sua poesia: Por el analfabeto a quien escribo. È importante comprendere il senso di quel “per”: non tanto “perché l’analfabeta mi legga”, visto che per definizione non potrà farlo, quanto “al suo posto”, come Primo Levi diceva di testimoniare per quelli che nel gergo di Auschwitz si chiamavano i musulmani, cioè coloro che non potevano né avrebbero potuto testimoniare, perché, poco dopo il loro ingresso nel campo, avevano perduto ogni coscienza e ogni sensibilità».
– « Forse la letteratura italiana del Novecento è tutta percorsa da una inconsapevole memoria, quasi da un’affannosa commemorazione dell’analfabetismo. Chi ha avuto tra le mani uno di questi libri, in cui alla pagina scritta – o, meglio, trascritta – in dialetto sta a fronte la traduzione in lingua, non ha potuto non chiedersi, mentre i suoi occhi trascorrevano inquieti da una pagina all’altra, se il luogo vero della poesia non fosse per caso né in una pagina né nell’altra, ma nello spazio vuoto fra entrambe».
(http://www.alfabeta2.it/2014/05/15/difficolta-leggere/)
Vorrei perciò ricordare che, nel mio precedente commento, pur mostrandomi scettico verso certi risultati di trasmissione scolastica della voce di Leopardi, mi dicevo anche curioso di capire se, nel caso del film di Martone, un qualche avvicinamento degli spettatori di massa a Leopardi possa verificarsi.
Di fronte a questo film mi pare di poter dire, sulla scorta di certi scritti di Fortini, che abbiamo due tipi (o due classi) di spettatori possibili: quelli ingenui che mirano esclusivamente al messaggio,al contenuto; e gli intenditori, consapevoli del lato formale del film e che non si fermano, dunque, solo al messaggio, al contenuto. Fortini (parlando di lettori) vedeva sia la polarizzazione tra le due tipologie, ma anche – mi pare di aver inteso – le commistioni o gli scambi di ruoli possibili, per cui i “signori” – diceva – possono a volte volere quello che vogliono i servi: la storia “vera”, il resoconto giornalistico, lo spettacolo.
Sarebbe facile dire che l’approccio signorile sia migliore di quella servile. E solo quello vada convalidato e persino imposto. Come hanno fatto mi pare alcuni commentatori.
Non ne sono convinto. L’educazione alla forma (quella dei “signori”) può essere usata per addomesticare e bloccare certi bisogni e curiosità, inducendo i “servi” a vergognarsi della loro fruizione rozzamente contenutistica. Ma c’era stata anche un’educazione alla forma (sempre“signorile”), quella di una certa tradizione umanistica (oggi indebolita o languente o in crisi) che aveva tentato di proporla come gradino preparatorio, come avvio ad un grandioso progetto di «formalizzazione dell’intera esistenza». Oggi è completamente venuta meno o forse residua in tentativi come questi di Martone, non per caso accusato di essere stato troppo divulgativo?