Cambiare la scuola/5. La buona formazione che vorremmo
Qualcuno mi disse, anni fa, che in Francia la scuola andava a rotoli perché continuavano a riformarla, mentre in Italia il buon vecchio solido liceo continuava a essere un punto di riferimento perché nessuno aveva mai tentato di fare altrettanto. Questo, ovviamente, prima della stagione delle riforme. Probabilmente una più attenta valutazione delle prove nazionali e delle classifiche internazionali, e un sostegno mirato a quegli ambiti, soprattutto geografici, le cui carenze vengono messe in luce dalle prove stesse, sarebbero sufficienti: basterebbero, soprattutto, a non picconare il buono che c’è nella scuola italiana, che è indubitabile, per l’imperativo di dover ragionare sempre in termini di riforme complessive.
Sono state pubblicate le linee guida per «La buona scuola». Molti mi paiono gli elementi apprezzabili del documento – sorvolando sulla grafica da elementari degli anni Cinquanta –: il fatto che si tratti appunto di linee guida, dunque di un progetto che si vorrebbe organico, e non della solita lenzuolata di decreti; che sia scritto in italiano e non in burocratese, e apparentemente senza refusi né svarioni ortografici; che non presenti situazioni idilliche o astratte, ma si sforzi di analizzare anche le pieghe psicologiche indotte dall’attuale sistema di reclutamento (si veda ad esempio la descrizione dei rapporti tra diversi tipi di abilitati nel box L’abilitazione fino a oggi, p. 40); e che i primi tre capitoli siano dedicati al reclutamento e soprattutto alla formazione degli insegnanti e dei dirigenti scolastici. Sull’operazione con cui si intende porre rimedio alla questione del precariato storico, solo il tempo potrà dare un giudizio; apprezzabile, e in linea con le intenzioni del Governo attuale, è l’intenzione di mettere mano a una manovra straordinaria per mettere fine al trascinarsi di situazioni incancrenite.
Andiamo dunque alla formazione. L’ultima pagina del primo capitolo disegna una situazione ideale di formazione che inizia con un percorso di specializzazione universitario a numero chiuso, e si completa con un tirocinio a scuola: se ne discute da anni, ma mancano i decreti attuativi. Il biennio di laurea “quasi abilitante” va inoltre a incidere in maniera significativa sull’esistenza delle lauree magistrali non abilitanti, con quello coesistenti. È evidente che, per l’organizzazione dei corsi di laurea coinvolti, e per buona parte dell’Università, questo rappresenta una svolta importante, dalle ricadute non trascurabili: non si capisce perché non possa essere tenuto in vita l’attuale sistema del TFA, ovvero un anno di studio e tirocinio a cui si accede dopo la laurea magistrale.
Ma la parte che occorre leggere con più attenzione è quella dedicata a La nuova formazione (capitolo 2.2). Il sottosegretario Reggi aveva annunciato che nelle intenzioni del Ministero la formazione degli insegnanti doveva diventare «permanente e non facoltativa»; qui leggiamo che «bisogna rendere realmente obbligatoria la formazione» (p. 47), intendendo quella degli insegnanti già in servizio. Vado subito al punto: se questa è l’intenzione del Ministero, questa è l’occasione per far diventare attiva e praticabile, e non solo auspicata, quella stretta connessione tra Università e scuola che è necessaria e vitale per entrambe, e che dovrebbe mirare a diminuire lo scollamento tra i progressi della ricerca, e una formazione che per molti insegnanti si arresta agli anni della laurea. Vorrei solo citare, per non razzolare solo nel mio campo, gli studi e le sperimentazioni sul sistema cinese di insegnamento della matematica, con cui occorrerà confrontarsi se non vogliamo che la media dei nostri studenti continui a odiare la materia, e a collocarsi generalmente in posizioni non lusinghiere nelle classifiche internazionali. (1)
Un’occasione, dicevo. È l’occasione buona perché il Ministero si decida a spazzare via quella massa di pretesi ‘corsi di aggiornamento’ on-line, a pagamento, buoni solo a fare la “raccolta punti”, che sono allo stato attuale gli unici abilitati a fornire crediti formativi, e ai quali anche i migliori tra i giovani insegnanti devono piegarsi, se non vogliono restare indietro rispetto ai compagni di sventura nella posizione in graduatoria. I crediti formativi sono riconosciuti come parte essenziale per la progressione di carriera al punto 2.3, dunque sarà obbligatorio conseguirli, ma non si capisce chi dovrà erogarli: il Ministero rischia di fomentare e avvalorare il sistema, scandaloso e già ben radicato, dei master fasulli. Se formazione deve essere, che sia affidata agli unici organismi in cui la ricerca viene svolta in gruppi di ricerca affidabili e riconosciuti, e valutata tra pari: ovvero le Università. E che sia svolta in presenza, con un dialogo vivo e costruttivo tra docenti, non nel chiuso di una stanza davanti a uno schermo. Non credo nella formazione a distanza, lo si sarà capito: alla distanza può essere affidata semmai solo l’informazione, ma di quella è già piena la nostra vita; la formazione è altro, e passa attraverso il dialogo e il confronto de visu, la conoscenza e la frequentazione delle biblioteche e delle librerie. Non ci credo anche per ciò che penso dell’insegnamento e della funzione dell’insegnante, baluardo della complessità, contro la twitterizzazione dell’argomentazione che sembra essersi impossessata della discussione pubblica a ogni livello.
Il presupposto di tutto ciò, ovviamente, è che il riconoscimento del merito di cui si parla, e che metterebbe la parola fine agli avanzamenti di carriera legati alla sola anzianità di servizio, coinvolga non solo dati misurabili a tavolino come le ore passate a scuola (l’«impegno» di cui parla il punto 2.3), ma anche elementi più difficili da valutare, come appunto l’aggiornamento disciplinare e l’efficacia didattica.
Diciamolo chiaramente: si tratta di due cose apparentemente abbastanza semplici da classificare – basterebbero un paio di lezioni pronunciate di fronte a una commisisone giudicatrice –, ma, almeno in Italia, difficili da mettere in pratica. Basta pensare alla scarsa o nulla possibilità data ai dirigenti scolastici di scegliere il proprio personale insegnante, esercitando un minimo di discrezionalità, obbligati come sono a fare le chiamate solo in base alla posizione in graduatoria; e, dall’altra parte, ai ricorsi che scattano immediatamente, per reazione irriflessa, di fronte a ogni bocciatura in un’abilitazione, scientifica o didattica che sia.
Eppure, il riconoscimento di un merito scientifico dovrà pur entrare in gioco: la scuola è didattica, certo, ma la didattica non può essere attestata su strumenti e conoscenze obsoleti. Ben poca cosa, il merito, se il Ministero deciderà di valutarlo solo in funzione di dati elencabili in una tabella. La funzione strumentale, proposta come criterio di premio, non può essere indicata come obiettivo: è semmai una fase del lavoro, in genere collocata in età matura, dopo una serie di anni di insegnamento, oggetto semmai di pagamento sotto forma di straordinari, non come premio per il miglior insegnante. Che ne sarà di un insegnante che sceglie di non fare il referente di classe o il vicepreside perché passa molte ore settimanali a studiare? (e a scrivere, a frequentare teatri e musei o associazioni culturali, a ripassare la storia del cinema…). In Italia girano molte narrazioni su corsi abilitanti (SSIS o TFA) quasi inutili, ma nelle Università dove questi corsi sono stati – faticosamente – pensati e ben organizzati, hanno ottenuto il riconoscimento che meritano. Perché non pensare a un semestre, a un bimestre di aggiornamento ogni due-tre anni, da svolgere in Università, con gli insegnanti che tornano sui banchi a studiare? Gli insegnanti di lungo corso che hanno frequentato quest’anno i PAS, i Percorsi Abilitativi Speciali, proprio di questo ci hanno parlato: della necessità e bellezza di interrompere, anche per pochi mesi, la routine di lezioni-interrogazioni-correzione di compiti-consigli di classe, per tornare a studiare, a leggere e a pensare; soprattutto, a ri-pensare i propri interventi didattici, con nuove letture e nuovi strumenti.
Un auto-aggiornamento in campi della ricerca in cui la bibliografia accumulata è ormai immensa non è pensabile da parte di insegnanti che non hanno a disposizione biblioteche scolastiche degne di questo nome (anche le più fornite spesso hanno interrotto gli acquisti in tempi recenti, a causa dei tagli ai finanziamenti). D’altra parte, non è pensabile che la fonte dell’aggiornamento degli insegnanti sia il solo manuale in adozione, come invece spesso accade: il manuale e l’antologia sono strumenti per l’insegnamento, non per l’apprendimento da parte dell’insegnante. Interessi personali e letture rapsodiche, compiute sull’onda di brevi celebrità giornalistiche, possono aiutare e di certo sono auspicabili, direi necessari: ma non bastano. La fonte dell’aggiornamento scientifico (che è tale anche per le materie letterarie) non può che essere il luogo in cui la ricerca scientifica si fa in prevalenza, ovvero l’Università. La mancanza di competenza specifica nella disciplina, la latitanza dell’aggiornamento, non può essere sostituita dall’esperienza didattica. La quale, certo, aiuta a risolvere i problemi concreti della classe; ma rischia di inchiodare la percezione della letteratura, e dei nostri maggiori autori, a posizioni di inizio secolo (il secolo scorso, voglio dire). Il documento su «La buona scuola» non parla mai di collaborazione culturale e scientifica tra Scuola e Università, e mi sembra una carenza da sottolineare. La stessa pagina che fissa come obbligatoria la formazione (il punto 2.2 già citato) disegna una rete per così dire orizzontale nel percorso di aggiornamento e formazione che rischia di chiudersi sulla sola didattica, escludendo l’aggiornamento scientifico, e sul solo esistente. Per fare un esempio: se il peso del Novecento, in Letteratura e Storia, deve essere sempre più rilevante nei programmi scolastici, chi darà agli insegnanti gli strumenti per affrontarlo? Dove, se non nei gruppi di ricerca universitari, si sviluppano studi e considerazioni organiche del nostro presente e del passato recente, utili a trasferire le conoscenze alla didattica?
Un peso notevole, in tutto ciò, l’avrà certo anche la chiarezza e la decisione con cui l’Università saprà farsi carico della formazione degli insegnanti, riconoscendolo tra i suoi obiettivi fondamentali. Troppo spesso la didattica nei corsi abilitanti viene considerata di secondo piano rispetto a quella dei corsi universitari. Ma la vocazione dell’Università è proprio, e non può che essere, quella della formazione permanente: per rimanere al campo della letteratura italiana, è impensabile che il patrimonio di ricerche e di pubblicazioni messo insieme negli anni dagli italianisti debba essere considerato funzionale a un pugno di iscritti ai corsi umanistici, una parte soltanto dei quali avrà un futuro da insegnante, e non, invece, alla massa di insegnanti di italiano in attività, che avrebbero bisogno di indicazioni e letture, per non rischiare di appiattire la loro didattica al livello e alle nozioni che avevano raggiunto quando si sono laureati.
Perché la scuola italiana, almeno a livello di materie umanistiche, è forse la migliore d’Europa – chiunque abbia avuto in classe uno studente spagnolo, greco, inglese o francese in Erasmus può testimoniarlo –, e la tradizione dell’insegnamento italiano va salvaguardata, offrendole i mezzi per sostenersi e per non dilapidare il suo patrimonio culturale. Occorre ricreare un circolo virtuoso di collaborazione tra Scuola e Università, un rapporto organico che dia linfa vitale a entrambe, e che tenga conto delle forze migliori di entrambe.
Nei giorni scorsi stavo leggendo un articolo, scritto da due eccellenti studiosi, sulla lettura della Divina Commedia “a larghe campate”, che intendeva proporre un correttivo, assai fine dal punto di vista tecnico, all’abitudine alla lettura di singoli canti recata dalle Lecture Dantis, o al moltiplicarsi di esegesi di singoli passi. Tutto meraviglioso, dicevano i due studiosi, ma bisognerebbe che l’Accademia (ri)cominciasse a leggere la Commedia tenendo nel debito conto la struttura complessiva, la distensione dei temi tra le cantiche, le riletture a distanza che Dante fa di se stesso. Mi è venuto da sorridere. Il fatto è che la mia insegnante di liceo, tanti e tanti e tanti anni fa, esattamente in questo modo ci insegnava la Commedia, tanto da ingenerare battute sarcastiche da parte dei suoi studenti (ma sempre pronunciate a bassissima voce, a rispettosa distanza), per il fatto che, una volta arrivati al Paradiso, le lezioni consistevano in una serie di “questo l’abbiamo già visto”, “di questo abbiamo già parlato”, eccetera: perché non esisteva tema o immagine dell’Inferno o del Purgatorio al cui sviluppo nelle cantiche successive non fosse stato fatto cenno negli anni precedenti.
La scuola può precedere l’Università, quanto a percezione del testo letterario: ora deve badare a non restare troppo indietro, sommersa da richieste ed esigenze che non sono le sue.
_____________
NOTE
1) Si veda M.G. Bartolini Bussi, A. Ramploud, A. Baccaglini-Frank, Aritmetica in pratica. Strumenti e strategie dalla tradizione cinese per l’inizio della scuola primaria, Trento, Erickson, 2013, che trasforma in un testo operativo una ricerca condotta dalla Bartolini Bussi, docente di Didattica della Matematica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia.
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A proposito di formazione a distanza
Sono pianamente d’accordo con tutto ciò che scrive nell’articolo; dopo la SSIS, escludendo il Dottorato che ho potuto frequentare e che mi ha permesso, pur nei limiti di questo percorso nell’Università italiana, di continuare a studiare in maniera sistematica e scientifica, ho sofferto moltissimo per la mancanza di un reale aggiornamento come docente. Nonostante il mio impegno, personale e asistematico, mi accorgo che ciò che più mi manca è appunto quel confronto (che, sinceramente, ai tempi dell’Università, è mancato visto che ho frequentato l’Alma Mater di Bologna, prestigiosa quanto sovraffollata), quel dibattito approfondito in cui ciascun partecipante aumenta, come minimo, la propria consapevolezza sul tema trattato. Nonostante ciò, non condivido pienamente il suo rifiuto della formazione a distanza. Sono consapevole di quanto una lezione in presenza sia migliore (e più piacevole) ma prendo atto, vivendo in provincia di Sondrio, di quanto possa essere oneroso, sia economicamente che a livello di tempo, seguire un corso di aggiornamento in presenza all’università (la più vicina, in questo caso, Milano, a 2h e mezza e di treno). Consideriamo inoltre la sua idea di inserire momenti (bimestri, trimestri o semestri) di aggiornamento ‘puro’: se diventasse realtà sarebbe molto interessante, stimolante e gratificante, ma temo che, allo stato attuale, non possa concretizzarsi. L’alternativa quindi è una formazione, gestita dalle università e non di certo dagli Enti attualmente attivi, che si alterni o si integri alla routine lavorativa. Diventerebbe impossibile quindi la presenza materiale nelle aule universitarie (economicamente credo lo sarebbe anche se si trattasse di un semestre di puro aggiornamento), tuttavia penso che la formazione a distanza potrebbe funzionale: oggi esistono in tutto il mondo anglosassone (soprattutto) i famosi MOOC, molto più complessi dei corsi di auto aggiornamento al pc, che dimostrano la fattibilità del metodo. Oggi è possibile ‘incontrarsi’ in videoconferenze, dibattere a distanza, collaborare senza la necessità di condividere lo spazio. Se devo essere sincera, non vado pazza per questa possibilità, ma credo sia una forma molto democratica che si offre a tutti. Cosa che non sempre un aula universitaria permette.