Equo canone e dintorni: un bilancio
A conclusione della serie di interviste sul canone letterario a scuola, che dal 18 ottobre 2021 al 31 gennaio 2022 ha visto avvicendarsi nella riflessione studiose e studiosi di diverse università italiane, proviamo a tracciare un bilancio, guardando agli esiti del percorso sotto tre diverse angolature. La redazione de LaletteraturaeNoi resta aperta tuttavia alle opinioni di quanti – lettrici e lettori, studiose e studiosi – abbiano seguito la serie con interesse e desiderassero contribuire al dibattito
Romano Luperini – Identità sociale e culturale dell’insegnante
1. Questo blog si è caratterizzato per l’impegno a tenere aperto il dialogo fra scuola e università. Si tratta di un rapporto che giova a entrambe. La prima senza la seconda si condanna alla lontananza dalla ricerca e all’empirismo della pratica. Ma anche la seconda, senza una feconda relazione con gli insegnamenti della scuola media superiore, finisce nel vuoto di socialità e nella asfissia autoreferenziale dello specialismo. Attualmente questo rapporto è difficile e poco praticato. L’insegnamento della didattica della letteratura è spesso assente nei nostri dipartimenti ed è comunque poco considerato e poco qualificato.
La rassegna qui pubblicata, rivolta a considerare alcuni aspetti del lavoro comune (la storia letteraria, i temi, i generi e i sistemi formali, il canone scolastico), rivela però, fra gli italianisti della generazione di mezzo (quella fra i quaranta e i cinquanta anni), un interesse nuovo per le questioni della didattica, probabilmente dovuto alla crisi della disciplina (che non ha saputo rinnovarsi come altri ambiti universitari, anche umanistici, quali la storia, la filosofia, la storia dell’arte, le discipline classiche), all’abbassamento di livello di preparazione degli studenti sempre più accostabile a quello dei ragazzi delle medie, alla necessità crescente di cimentarsi con la pratica didattica, alla percezione del vuoto (sociale e culturale) in cui è sprofondato lo insegnamento della letteratura nell’ultimo ventennio.
2.Anche se fra gli intervenuti non manca chi intende rapportare gli scrittori all’attuale contesto multiculturale multietnico globale e digitalizzato, la maggior parte dice sì alla storia letteraria nazionale, ma alcuni ripropongono il modello desanctisiano e altri lo giudicano invece superato. Tutti comunque pensano la storia letteraria in connessione con rigorose analisi dei testi, magari ispirate allo strutturalismo o comunque all’indagine filologica e formale.
Semmai non trovo sempre sufficiente chiarezza sulla storia e sul suo rapporto con la testualità. C’è persino chi dice che la storia ha una funzione «strutturante» ma poi la definisce un «fondale descrittivo». La storia è sempre anche storiografia: descrive sì dei fatti ma anche li interroga e li interpreta in un discorso organico. La storia non è insomma un fondale neutro e oggettivo, non è mai mera descrizione, è sempre anche interpretazione, tanto è vero che per secoli gli studiosi si sono interrogati e hanno fra loro polemizzato sulla natura e sulla cronologia del Medioevo o del Rinascimento o del Barocco. La storia non descrive i fatti ma fornisce una loro interpretazione sensata e coerente. Ma è proprio questo aspetto che permette la connessione organica coi testi, la interpretazione dei quali (della loro genesi e del loro significato) si appoggia a (o comunque si confronta con) quella del periodo in cui sono stati scritti e con gli eventi precedenti e anche successivi. Fra interpretazione dei testi e interpretazione della storia c’è insomma un legame organico, profondo e necessario, ed è appunto questo legame che rende utile o addirittura necessario un insegnamento fondato sulla storia della letteratura. Semmai è vero che tale insegnamento non può essere chiuso nel recinto di una storia nazionale, tanto più nel periodo attuale in cui educazione alla cittadinanza è anche educazione a una cittadinanza europea in prima istanza e planetaria, in quanto cittadini del pianeta, in seconda. Cosicché, per esempio, quando parliamo del canone scolastico, non possiamo certamente limitarci solo alla letteratura nazionale. È questo il limite al riferimento a De Sanctis, ancora utile nell’ambito di una storia degli intellettuali italiani, e ancora attuale nella rappresentazione della loro tensione morale e civile, ma assai meno all’interno di una prospettiva europea o planetaria. Serve a capire il passato della nostra nazione, assai meno la tensione del presente verso formazioni sovranazionali.
Quanto ai percorsi tematici o per generi (ma bisognerebbe giocare in realtà sulla loro inscindibilità, e non limitarsi a considerarli fra loro separati), giustamente Iacoli osserva che tali procedimenti ebbero il loro momento «aureo» negli anni novanta (da lui opportunamente indicati come il decennio recente più vitale a fronte della «stagnazione» successiva) quando con Ceserani e altri si cominciò a scalzare l’approccio storicista allora dominante. Inoltre tutti mettono in guardia dal loro uso formale come «astratti contenitori» (Tatti), e invece sottolineano positivamente la possibilità di farli interagire col vissuto concreto degli studenti, e unanimi esortano a evitare la loro attualizzazione «selvaggia» (Castellana) mentre possono essere utili soprattutto a marcare le differenze fra il passato e il presente. E non manca neppure chi esorta a praticare percorsi per modi letterari (per esempio, la satira o l’ironia) capaci di considerare insieme temi e strutture formali.
3.Tutti i nodi di questo nostro discorso vengono al pettine là dove forse meno ce lo saremmo aspettato: nel capitolo sul canone “essenziale”. Poteva sembrare un gioco, ma alla fine è emersa tutta la sua serietà. Uno degli interventi più lucidi a questo riguardo è quello di Tongiorgi. Ogni comunità – avverte – trova la propria identità culturale e civile in una serie di letture comuni, su un canone riconosciuto, che costituisce la base di conoscenze condivise da una società. Il canone sancisce appunto tale valore identitario. Ciò, beninteso, – aggiungerei io – non significa che sia immobile nel tempo e immodificabile. Subisce invece spostamenti e aggiustamenti lenti ma continui. Quando mi sono laureato io, negli anni sessanta, la lettura di Fogazzaro era considerata ancora fondamentale (bisognava “portarlo” all’esame di stato), ma quasi tutti i docenti universitari di italianistica ignoravano ancora Svevo (un mio amico, che doveva laurearsi sulla sua opera, poté farlo solo perché un docente generosamente decise di aggiornarsi e di leggere Senilità e La Coscienza di Zeno). Però, proprio nel corso di quel decennio, Fogazzaro fu a poco a poco abbandonato e al suo posto subentrò appunto Svevo e, qualche anno dopo, seppure meno decisamente, anche Tozzi. Da tale punto di vista, anzi, la scuola svolge una funzione importante non solo di conferma ma anche di continuo aggiornamento del canone nazionale.
Gli insegnanti universitari di letteratura italiana ne sono consapevoli? Stando alla nostra rassegna, non sempre. Fare largo al Novecento va bene ma proporre Bianciardi, Buzzati, Mastronardi o Parise e anche Paolini o Celati sacrificando Machiavelli, Ariosto e Leopardi, è troppo. E anche suggerire la lettura liceale della coppia Dossi-Gadda (la Vita di Alberto Pisani e il Pasticciaccio insieme) rischia di suonare come una beffa per il povero docente delle medie superiori che lotta per far leggere ai propri studenti i Canti di Leopardi o I promessi sposi di Manzoni. Può accadere così che nell’anno del centenario dantesco si dimentichi come testo fondamentale del canone la Commedia (come accade a quasi la metà dei docenti intervenuti nella nostra inchiesta), o anche si inviti a leggere a scuola la Vita nuova e non l’Inferno o altra cantica del “divino poema”.
Perché può accadere di trascurare i problemi culturali e sociali posti dalla questione del canone? Tanto più poi da parte di docenti tanto preparati e attenti al mondo della scuola come quelli che hanno avuto la pazienza di sottoporsi alle nostre domande? Probabilmente qui si tocca con mano lo sradicamento degli italianisti dal loro contesto sociale. E in effetti quale spendibilità sociale può avere la conoscenza di Parise o di Celati per un giovane consulente editoriale o ingegnere o manager o giornalista che si rechi a Londra o a New York? Non sarebbe meglio che conoscesse Goldoni se gli capita a teatro La locandiera? O Il principe se gli succede di parlare di Napoleone, di Kennedy o di Trump? Ma, a parte queste ragioni pratiche, mi pare un problema comune questa perdita di identità sociale e culturale da parte del ceto intellettuale dedicato all’insegnamento, cui corrisponde una analoga privazione di identità da parte della intera società. È uno spappolamento dei tratti identitari che dalla società si ripercuote sul ceto intellettuale e da questo di nuovo sulla società. Ormai noi docenti (delle scuole medie o dell’università, non importa) siamo degli intellettuali senza un mandato, ridotti al rango subalterno di impiegati. O cerchiamo di recuperare una qualche funzione culturale o siamo destinati a diventare dei tecnici dell’addestramento giovanile, scomparendo come soggetti portatori di una educazione umanistica a livello nazionale ed europeo.
Emanuele Zinato – Un canone allegorico
Le otto tappe di Equo canone curate da Luisa Mirone rappresentano una preziosa cartina di tornasole per verificare i modi in cui vengono attualmente percepite le questioni cruciali della didattica della letteratura a scuola e nei corsi di laurea triennali e magistrali. Riassumendo in una sintesi estrema i risultati dei questionari, si potrebbe dire che i docenti universitari interpellati (tra i più attenti alle odierne questioni dell’insegnamento) dichiarano l’importanza della salvaguardia del nesso fra testi e storia e, al contempo, considerano strettamente legata alla crisi di questo nesso la difficoltà di condividere un canone.
Raccolgo, tra i tanti possibili, due stimoli, opposti tra loro: il rilancio, fuori tempo massimo, del modello desanctisiano (Silvia Tatti, Massimiliano Tortora) e «l’obiettivo futuro (…) di una storia delle forme e delle strutture letterarie» (Riccardo Castellana). L’opposizione è, per un certo verso, apparente: leggere con gli studenti le opere in una dimensione temporale vuol dire ricostruire più storie (la storia delle ideologie, delle poetiche, dei generi, dei temi e delle forme) imparando a riconoscere asimmetrie, conflitti e discontinuità. Le risposte al questionario ci dicono, dunque, che per insegnare letteratura è necessario periodizzare il passato, saper mettere a fuoco con gli studenti delle svolte nella vita materiale e culturale, salvaguardando il senso della temporalità. Ma ci dicono anche che l’uso delle categorie (i secoli o gli -ismi) con cui si creano le tradizionali partizioni nella vicenda storico-culturale non deve essere un «rigido catalogo di nozioni» (Giancarlo Alfano), e che si possono individuare nelle forme delle opere i fili conduttori dei percorsi letterari, fra continuità e discontinuità. Il principale obiettivo dell’insegnamento della letteratura, soprattutto al “triennio”, dunque, torna ad essere l’acquisizione della consapevolezza che il testo comprende significati molteplici che confermano e trascendono ad un tempo il suo contesto storico: si tratta di un’indicazione da raccogliere.
Purtroppo, però, le risposte (probabilmente per generosità e per fedeltà degli intervistati nei confronti della letteratura) sembrano non tener conto del fatto che i fondamenti stessi dell’insegnamento vanno di anno in anno liquefacendosi: nella formazione dei tanti giovanissimi che stanno entrando ora a scuola come docenti lo spazio delle tecniche pedagogiche è andato aumentando non solo per quantità di crediti ma per egemonia culturale, a detrimento dello spazio risicato delle discipline e dei contenuti. Dei vecchi“programmi” di letteratura restano in vita come “contenuti” solo dei puri elenchi di autori senza riferimento alcuno a metodologie specifiche di interpretazione del testo letterario e, alla letteratura, naturalmente, non viene riconosciuto un proprio posto, nemmeno marginale, nel sistema delle competenze ridotte a Skills. Il collasso riguarda le parole-chiave più elementari della teoria letteraria applicata alla didattica: autore, testo, generi, temi. Il risultato è paradossale: non solo in una quinta, a esempio, di un istituto alberghiero il professore di italiano dovrà trattare Pirandello, Svevo, Montale facendo in modo che se ne possa parlare all’interno di qualche unità didattica interdisciplinare sui cibi [1], ma qualcosa del genere deve fare il professore universitario cercando di attirare finanziamenti dai partner sul territorio, o di attivare nuovi corsi e nuovi dottorati “industriali” graditi al soft power della governance accademica. La “pedagogia del fare” è alimentata ovunque dalla DAD e dalle retoriche del digitale proposte euforicamente come “opportunità” per “innovare” la “vecchia” didattica scolastica e universitaria “adeguandola” al presente.
Fino ad ora, nei trienni, è stato possibile insegnare il canone letterario per dettagli antologici posti in una sequenza storiografica: sviluppando la capacità di istituire andirivieni fra il dettaglio e l’opera (fra un canto e la Commedia, fra un’ottava e il Furioso, fra un passo del romanzo e i Promessi sposi) e fra il dettaglio e il contesto (fra le opere e gli –ismi, le poetiche di gruppo, l’organizzazione della cultura del loro tempo). L’attuale condizione educativa frammentata e collassata esige probabilmente di alludere a un canone per frammenti, scommettendo sul senso senza poter più ricostruire l’insieme: più che da De Sanctis, probabilmente, i docenti dovranno mutuare il loro metodo da Auerbach e dalle sue costellazioni di frammenti tratti da Omero, da Dante, da Rabelais, da Balzac o da Virginia Woolf.
L’interrogativo del questionario Equo canone sul cosiddetto “canone essenziale”, praticabile nei tempi “liofilizzati” (Giulio Iacoli) dell’attuale condizione didattica, credo esiga una risposta d’emergenza. Il canone letterario che saremo chiamati a difendere, negli interstizi che ci saranno concessi, forse riguarderà le sole capacità da parte degli studenti di storicizzare, analizzare e interpretare dei microtesti dotati di esemplarità e fingendo di poterli investire di una qualche autonomia semantica. Un canone allegorico, insomma, formulato con la massima densità e con la massima brevità: Francesca da Rimini e Ulisse nella Commedia, il leone e la volpe nel diciottesimo del Principe,l’aneddoto del notomista nel Dialogo di Galilei, una sola Operetta leopardiana, la descrizione di Leonia nelle Città invisibili di Calvino, il viaggio dell’atomo in Carbonio nel Sistema periodico di Primo Levi. Pochi semi, da leggere e apprezzare nei tempi stretti e lacerati del presente, nella speranza di qualche germoglio o “erba futura”.
Luisa Mirone – Una nuova “esemplarità”
1.Alla base del progetto di Equo canone ci sono due idee-guida, fra le quali è difficile stabilire un rapporto gerarchico, giacché è piuttosto evidente la loro complementarità. La prima: stabilire un rapporto di continuità e scambio tra la ricerca compiuta nelle università e la ricerca compiuta nelle scuole, al netto di pronunciamenti di collaborazione politicamente corretti come di reciproche e ataviche diffidenze. La seconda: riflettere su alcune questioni metodologiche nodali nella ricerca come nella didattica della letteratura: tema, canone, genere nel loro incontro con la storia. Individuare il punto di convergenza di questi tracciati negli studenti e nelle studentesse, in quanto destinatari tanto della ricerca quanto della didattica, è operazione non del tutto sincera: la ricerca e la didattica universitarie si offrono a studenti specialisti che hanno nella filologia l’oggetto privilegiato della loro attenzione; nelle aule scolastiche la ricerca assume più spesso la curvatura della ricerca-azione, nel tentativo di rispondere alle cosiddette “domande di senso” di allievi e allieve adolescenti o poco più, che, nella stragrande maggioranza dei casi, non faranno della letteratura il loro mestiere. E tuttavia questo non solleva l’università dalla necessità di interrogare i testi con quelle domande, né la scuola dai suoi doveri verso la filologia: il rischio è che l’università smarrisca la sua funzione in un’indagine sterile e autoreferenziale, e che la scuola si sottragga al compito di insegnare gli strumenti della prospettiva, senza i quali la competenza di cittadinanza resta un miraggio. Se si accetta questa responsabilità condivisa fra università e scuola, allora ogni altro discorso sulla letteratura perde i contorni svagati di un divertissement come i tratti intransigenti e prescrittivi di una dottrina, per assumere il profilo di una riflessione dinamica, disponibile ad accogliere le sollecitazioni della storia nella sua dimensione diacronica e sincronica. «Ricostruire il rapporto passato-presente comporta tanto una messa a punto storico-filologica del primo quanto una assimilazione del secondo quale filtro di domande attuali da porre alla tradizione» (Carocci, 2018), ha scritto Luperini: se il percorso in otto tappe di Equo canone fosse servito anche soltanto a rafforzare questa convinzione nelle lettrici e nei lettori, la serie avrebbe già conseguito un risultato non da poco.
Qualcosa però andrebbe precisato.
2.È vero che la risposta alla prima domanda – Ritiene che la storia della letteratura sia ancora oggi, a scuola, uno strumento valido per l’approccio ai testi, uno strumento ancora capace di coniugare insieme appartenenza e scarto, contiguità e distanza, identità e alterità? – è stata (in estrema sintesi) “sì” in tutti i contributi; ed è vero che questo “sì” ha rappresentato (di fatto) in tutti i contributi, in particolare per quanto concerne l’uso dei temi e dei generi, una presa di posizione severa contro la «attualizzazione selvaggia» (Castellana), contro l’appiattimento di «ogni prospettiva in un presente privo di sfumature» (Fedi) – la stessa postura assunta tante volte da questo blog. Tuttavia la nozione stessa di “storia della letteratura” è stata illuminata dall’interno in modo non esattamente univoco, imponendo una riflessione sulla sua struttura, sui suoi componenti, sulle sue finalità, sul suo valore d’uso. Rifiutata l’idea che «la “storia della letteratura” possa essere l’oggetto di un sapere ripetibile in sé nella forma della nozione» (Alfano), essa si configura come strumento per comprendere la alterità, la durata, la simultaneità di un’esperienza artistica – qualcosa dunque di molto diverso da un generico strumento ordinatore. Peraltro, se essa può valere ancora come «paradigma conoscitivo e didattico, nella scuola superiore come all’università», si ribadisce tuttavia con forza che essa vada «in entrambi i casi controbilanciata con un’analisi del testo rigorosa e puntuale», recuperando «senza dogmatismi, le categorie del formalismo, della narratologia e dello strutturalismo» (Castellana). E ancora: rifiutata l’idea della storia della letteratura come «prospettiva assoluta» nella quale, come monadi, si inseriscono autori e opere, ne emerge «la funzione strutturante di fondale descrittivo» su cui «prendono ad avere risalto gli individui e i fatti, le corti e le città, i cronotopi della modernità, gli interni e i paesaggi della vita quotidiana» (Iacoli) – un’idea, questa, che liquida non solo i lunghi (e talvolta accurati, talvolta solo noiosi) capitoli introduttivi di storia preposti nei manuali alla trattazione degli autori e delle opere, ma la stessa percezione (pure così diffusa, e non solo nella scuola) che la letteratura sia subalterna ad altri ambiti (economia, politica, scienza etc.) e funzionale a semplificarne o decorarne gli accessi, quando essa in molti casi nasce con «l’urgenza drammatica di una scrittura concepita in prima istanza come esigenza “politica”» (Tongiorgi) o comunque esigenza esistenziale. In considerazione di queste osservazioni, la storia della letteratura, rispetto all’uso che se ne fa nei manuali scolastici, può cambiare fisionomia: per esempio, può essere messa in crisi come percorso «per gradini progressivi» (Tongiorgi); oppure può riprendere quota la narrazione storicoletteraria sul modello desanctisiano (Tatti, Tortora), fungendo, in un’epoca così tristemente abbandonata da ideali comuni, da prezioso tessuto connettore; o ancora addirittura «l’obiettivo futuro potrebbe essere quello di una storia delle forme e delle strutture letterarie» (Castellana). Su questo credo che scuola e università debbano interrogarsi, e molto. «La ragione vera non è di metodo, ma di sostanza e temo risieda nella difficoltà di indicare un canone che prima di essere autoriale esprima un’idea condivisa di storia “nazionale”» (Tongiorgi); e così temo anch’io, soprattutto «adesso che siamo approdati nell’epoca delle diversità oltre le vecchie dimensioni nazionali» (Menetti, giustamente ricordando Raimondi).
Un altro interrogativo importante ci viene dalle scelte operate in materia di “canone essenziale”. Era stato precisato che Non si trattava di salvare il salvabile, ma di individuare quali voci – tra quelle già consegnate alla tradizione nazionale – fossero ritenute capaci di dialogare con l’Europa, di rappresentare l’Italia entro una più ampia (e oggi più che mai necessaria) dimensione europea, ma qualcuno ha trovato ugualmente e comprensibilmente urticante il quesito, che pure va affrontato, e soprattutto – vorrei dire – a scuola, dove i tempi sincopati (liofilizzati, per usare la felice espressione di Iacoli) e il diverso orientamento dello studio letterario (di cui si diceva al principio) non consentono davvero dilatazioni da studiosi espansivi o impuntature da disciplinaristi intransigenti. Non mi soffermerei sulle singole proposte, quanto sulle motivazioni che sono state avanzate per sostenerle. Alcune di quelle proposte, nella pratica didattica scolastica, sono purtroppo off limits, per ragioni di tempo, per ragioni di “esemplarità”, per ragioni di “analfabetismo funzionale” con cui bisogna fare i conti a scuola certamente più che all’università. Ma non è questo il punto. Dove quelle scelte siano state motivate, sono emersi suggerimenti preziosi di metodo, utili alla ridefinizione dei criteri stessi di quella “esemplarità” cui accennavo. In particolare e per spiegarmi schematicamente, direi che questi criteri possano essere raggruppati su tre direttrici: un criterio politico-ideologico (selezionare autori/opere che possano essere rappresentativi di cosa sia una scelta eticamente orientata); un criterio linguistico (selezionare autori/opere che possano essere rappresentativi non del “bello scrivere”, ma di un lavoro sulla lingua – vocabolario, sintassi, figure retoriche, strutture – intesa essa stessa come strumento di indagine, di rivelazione, di rappresentazione e non solo come strumento di comunicazione dei bisogni di base); un criterio “estetico” (selezionare autori/opere capaci di fornire strumenti di accesso al “bello”, che in arte può ovviamente essere anche “brutto”, liberando la letteratura dall’equivoco che debba essere istruttiva fino a essere catechizzante). Questo mi è sembrato un risultato di grande rilevanza, capace davvero di orientare, all’università come a scuola, le scelte della ricerca e della didattica, a prescindere dalle aule – universitarie o scolastiche – in cui esse siano praticate.
Infine, quanto ai temi: più volte su questo blog (e io stessa l’ho fatto a titolo personale) è stato condannato “il tematismo”, ovvero quella pratica – purtroppo assai diffusa – che, fraintendendo l’approccio tematico alla letteratura, lo trasforma «in un inventario di occorrenze» (Fedi), quando non in una libera associazione di idee; e tutti i contributi della serie confermano che il ricorso al tema, fuori da una prospettiva storica, da un «itinerario coerente» (Tongiorgi), smarrisce in una ricerca seriale la sua funzione di strumento conoscitivo delle aspirazioni, dei fallimenti, delle istanze della realtà che motiva quella scrittura e quel tema ad essere come sono. Discorso analogo vale per i generi (cfr. in particolare Fedi e Iacoli, che hanno esemplificato la loro riflessione a partire l’una dal genere del poema, l’altro dal genere del romanzo picaresco). Sicché, forte di queste conferme, se avessi modo di raggiungere tutti i e le docenti, davvero lancerei un appello per la salvaguardia del tema, «interfaccia potente e ricco di allusioni tra l’io e il mondo» (Tatti), e contro il tematismo: aderire a un tema è una scelta che comporta un investimento etico, perfettamente il contrario di un escamotage deresponsabilizzante; il fatto che nelle aule scolastiche e universitarie si faccia ricorso sempre più frequentemente a questo escamotage piuttosto che a quell’investimento non può che destare serie preoccupazioni in chi ritiene la letteratura «mai solo la pagina scritta, ma un grumo di tensioni» (Tortora).
[i] Cfr. A. M. Agresta e M. Polacco, La riforma dei professionali e il (falso) miraggio delle competenze, nel blog letterario «Le parole e le cose»
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