Il mestiere del traduttore /1 – Bruno Arpaia
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Prende avvio oggi, e proseguirà nelle prossime settimane a cadenza quindicinale, una rubrica dedicata al “mestiere del traduttore”, un lavoro in cui è evidente, più che in altre attività intellettuali, lo scarto fra il “compito” e il “ruolo”. Destinato spesso a restare nell’ombra, il “compito del traduttore” (W. Benjamin) è quello non solo di rendere accessibile ai lettori l’opera da tradurre, ma di coglierne e restituirne l’essenza.
***
Molti, moltissimi anni fa, quando ero da poco laureato in Scienze Politiche con una tesi su “Letteratura e politica nell’America latina”, una casa editrice napole-tana mi propose di tradurre nientedimeno che le Meditazioni del Chisciotte di José Ortega y Gasset. Con l’incoscienza dei vent’anni, accettai temeriaramente la sfida. Io non avevo (e non ho) mai aperto una grammatica spagnola e il mio lessico di base erano stati prima i testi delle canzoni degli Inti Illimani e poi i romanzi del boom latinoamericano, letti direttamente in lingua anche se spesso faticavo a capire il senso e le parole. Parlavo male, allora; perfino se dovevo dire «Passami il sale», usavo metafore marqueziane e vocaboli borgesiani. Tuttavia, mi dissero che non avevo troppo maltrattato don José.
La mia avventura di traduttore (per giunta, ripeto, da una lingua che non ho mai studiato in maniera accademica) è cominciata così, quasi per caso, e si è tra-sformata in un secondo mestiere che mi ha accompagnato, con maggiore o mi-nore intensità, in tutti questi anni. Mi è così capitato di dover rendere in italiano gli scoppiettanti fuochi d’artificio e i messicanismi iperbolici di Paco Ignacio Taibo II, le invenzioni visionarie di un Cela minore o un saggio di Carlos Fuentes, op-pure la sintassi acrobatica e i paragrafi sfilacciati di Alfredo Bryce Echenique, o ancora il racconto secco e tragico di Ignacio Martínez de Pisón oppure la prosa avvolgente di Javier Cercas. Più di recente, ho tradotto, fra gli altri, due libri stupendi come Patria di Fernando Aramburu e Il selvaggio di Guillermo Arriaga.
Avevo già cominciato a scrivere per mio conto, quando ho iniziato a fare il tra-duttore. Scrivevo, scrivevo e gettavo nel cestino, finché, pian piano, ho ormai pubblicato otto romanzi e tre o quattro saggi. Così, oggi sono in molti a chie-dermi quale dei due mestieri mi procuri più soddisfazioni. Forse, se fossi politi-cally correct, dovrei rispondere: scrivere e tradurre, in fondo, sono atti ugual-mente creativi, che danno lo stesso appagamento… Però confesso che in realtà non c’è storia: scrivere i propri romanzi è un’esperienza unica, un atto creativo dall’inizio alla fine, che ti precipita nelle più nere depressioni e ti esalta quando imbrocchi una pagina decente, è un lavoro totale, senza interstizi, una delle po-che cose in grado di farti perdere la nozione del tempo. Tradurre mi piace, spesso è una sfida con me stesso che mi dà grande gioia se la vinco, un modo per imparare molto sulla scrittura, però c’è poco da fare: scrivere in proprio dà più soddisfazioni che tradurre.
Questo non vuole assolutamente dire che quello del traduttore sia un semplice mestiere per procurarsi da vivere. Al contrario, è un mestiere bellissimo. Prima di tutto, ha una funzione sociale. Pensateci un po’ su: quando leggiamo Tolstoj, García Márquez, Philip Roth, Murakami, Stieg Larsson o Daniel Pennac, se non siamo in grado di affrontarli in lingua originale, noi stiamo in realtà leggendo i loro traduttori e le loro traduttrici. È attraverso di loro che quei testi diventano
per noi comprensibili, ma soprattutto è grazie a loro che riusciamo a entrare negli universi degli autori stranieri. I traduttori, infatti, non sono soltanto sem-plici traspositori da una lingua all’altra, bensì mediatori culturali, persone a ca-vallo di due o più culture che contribuiscono ad aprirci orizzonti, a non farci rinchiudere in mondi, tradizioni, identità nazionali o comunità chiuse e soffocanti. In tempi di sovranismo e di nazionalismo imperante, è un merito non da poco, che andrebbe sostenuto e incoraggiato.
Tradurre, del resto, è anche molto educativo: insegna a essere allo stesso tempo umili e liberi. Umili di fronte alla scrittura altrui, della quale bisogna il più possi-bile rispettare i ritmi interni, i registri, i vizi e i vezzi; ma anche liberi di risolvere a modo proprio qualche scelta lessicale o qualche giro di frase, sempre, però, per fare in modo che la resa in italiano sia migliore e vicina all’intenzione origi-nale. Una libertà piena di doveri, come quella che dovrebbe reggere le nostre società. È chiaro che poi il traduttore è sempre in qualche modo traditore; anche nella versione più riuscita c’è sempre qualcosa che, purtroppo, si perde… Ma senza quel traditore, cosa succederebbe?
Non è finita. Tradurre un libro è anche il modo migliore di leggerlo, quasi smon-tandolo e rimontandolo come fa un bambino con un giocattolo e cercando di carpirne i segreti. Traducendo, poi, si impara soprattutto a non sopravvalutarsi, a tenere a freno il proprio Io. Di questi tempi, un altro esercizio utilissimo; lo è anche per chi, come me, scrive libri “in proprio”, perché, sebbene sembri strano, uno scrittore deve avere un Io piuttosto debole, tendente quasi a scomparire, se vuole dare voce al Noi che deve parlare in ogni buon romanzo.
Il rovescio della medaglia della professione del traduttore? La scarsissima con-siderazione di cui gode qui da noi (come, del resto, ogni mestiere che abbia a che fare con la cultura e con la scienza…). Un paio di anni fa ho partecipato a una tavola rotonda a Parigi con altri colleghi francesi, spagnoli, tedeschi, sve-desi… Alla fine della discussione, ho dovuto resistere a una sensazione di scon-forto inconsolabile: all’estero non soltanto i traduttori guadagnano il doppio che in Italia e sono assistiti da un serio welfare, ma godono anche di royalties sulle vendite dei libri tradotti. Alcuni di quei colleghi, traducendo un autore di suc-cesso, erano riusciti a comprarsi addirittura una casa con i proventi del loro la-voro. Da noi, invece, facendo il traduttore professionale è difficilissimo vivere. Lo è sempre stato, chissà perché. Sono passati molti anni da quando Luciano Bianciardi, ne La vita agra, raccontava tragicomicamente la giornata di un tra-duttore e le difficoltà per sbarcare il lunario. Da allora, purtroppo, non è che si siano fatti molti passi in avanti. Sarebbe ora di dare finalmente a Cesare quel che è di Cesare.
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