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diretto da Romano Luperini

Intelletto e amore: separati in casa?  

Due dimensioni da ricomporre?

Questo contributo non nasce da Dante, o meglio nasce da una lettura di Dante che, proprio per la sua distanza e forse per la sua inattualità, finisce per far crescere la consapevolezza della posizione di noi moderni rispetto ad alcune questioni culturali e, direi, pedagogiche. Il nostro tempo ama distinguere ragione e sentimento o, in ambito educativo, cognizione ed emozione, e indugia spesso in alcuni “sbilanciamenti” concettuali, polarizzandosi a favore dell’una o dell’altra dimensione, come se fosse impossibile una loro piena integrazione. Conosciamo parole quali intellettualismo o sentimentalismo per designare le rispettive degenerazioni.

A scuola, o ancor più all’università, talvolta sembra che gli aspetti emozionali dell’apprendimento costituiscano una sorta di optional praticato da docenti “empatici”, mentre per converso le esperienze amorose narrate qua e là sembrano, per potersi accreditare come “autentiche”, dover prendere le distanze da ogni forma di raziocinio che ne raffredderebbe l’impeto passionale. Lasciamo l’indagine sulle origini (cartesiane? illuministe? romantiche?) di questo pensiero dicotomico agli storici della cultura e concentriamoci sulla postura di Dante in materia di intelletto e amore

Gli umani sono intelletto e amore

Nel primo canto del Paradiso dantesco, Beatrice giustifica il trasumanar (Par. I, 70) di Dante quale ritorno alla propria origine, perché l’origine delle “cose tutte quante” è Dio, e a lui tendono tutte le creature[1]. Tra i viventi, gli esseri non umani sono designati quali creature “fòre d’intelligenza”, mentre gli umani si distinguono come “quelle c’hanno intelletto e amore”, una diade che condensa in modo fulmineo tutta la concezione dell’umano ravvisabile nel pensiero e nella poetica di Dante, dalle Rime giovanili alla Commedia.

Qui importa mettere in evidenza l’intima compenetrazione delle due dimensioni umane, così come si manifesta – lungi da qualsiasi pretesa di esaustività – in alcuni passaggi danteschi significativi. La prospettiva culturale e formativa di questo contributo è quella di suggerire l’opportunità di una ricomposizione delle due sfere, nella convinzione che in ogni ambito della vita umana l’esperienza sembra insegnare che si ama ciò che davvero si comprende e si comprende ciò che davvero si ama. E che alto troppo spesso risulta il prezzo da pagare per un’intelligenza priva di emozione e per un’emotività priva di intelligenza.

L’itinerario poetico e filosofico di Dante sembra sollecitare tale ricomposizione, quale che sia la sfera presa in esame: l’esperienza amorosa con la sua graduale ricomprensione intellettuale oppure l’esperienza intellettuale col suo progressivo “innamoramento filosofico”. Nella suggestiva espressione “mente innamorata”, come si vedrà più avanti, può ravvisarsi l’approdo di tale crescita umana, che nella visione paradisiaca trova la sua più alta espressione. Impossibile naturalmente dilungarsi sul rapporto tra Eros e Sofia istituito già dalla filosofia platonica e pervenuto a Dante – via Cicerone – attraverso le mediazioni medievali di Agostino prima e successivamente di teologi mistici quali Riccardo da S. Vittore o Bonaventura da Bagnoregio. Si tratta di un debito culturale da non sottovalutare, per quanto il poeta fiorentino sia stato capace di rivisitare le proprie fonti alla luce della propria irripetibile esperienza umana e spirituale[2].  

Passione e ragione

Dante non è per l’amore platonico, come spesso si dice. Egli ha conosciuto il tremore dell’amore-passione per Beatrice, secondo le coordinate del De amore di Andrea Cappellano, che ha contribuito fortemente a costruire la base concettuale dell’amore cortese. Tuttavia, nella Vita Nova, leggiamo: “E avegna che la sua imagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d’amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire”. (V.N. II,9).

Nel passo è possibile riconoscere l’immoderata cogitatio di Andrea Cappellano, quale dominio di Amore sul poeta[3], ma anche “lo fedele consiglio de la ragione” che lo ha sempre accompagnato in virtù della “nobilissima virtù” proveniente dalla figura di Beatrice. Ragione e virtù rappresentano i due “correttivi” che Dante predisporrà per il desio, ovvero per la dimensione dell’amore in cui predominano invece piacere e bellezza, come mostra il celebre episodio di Paolo e Francesca, nel quinto canto dell’Inferno, in cui si potrà osservare il lessico tipico dell’amore passionale di ambiente cortese, sia pur temperato dal postulato guinizzelliano che solo un “cor gentil” sarà in grado di amare[4]: in quell’episodio, preannunciato dall’indicazione dei lussuriosi quali coloro che “la ragion sommettono al talento”, i termini chiave sembrano essere “bella”, “piacer”, “desio”, “dolci sospiri”, che istituiscono il campo del “talento” cui è sottomessa la ragione.

L’amore filosofico

Dunque, già nella Vita Nova, la ragione afferma progressivamente le proprie…ragioni, prima prendendo le distanze dall’amore come dipendenza dal feedback, ovvero da un sentimento che trova la propria gratificazione nelle azioni di risposta dell’amata (il celebre “saluto” di Beatrice), e poi, alla morte dell’amata, assumendo quest’ultima definitivamente quale creatura capace di trasformare spiritualmente l’io del poeta. Si tratterà di un vero e proprio processo di sublimazione cui getta una luce questo passo del Convivio:  “Come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima,… io rimasi di tanta tristizia punto che conforto non mi valeva alcuno.[…] Io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri; li quali considerando, giudicava bene che la filosofia – che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri – fosse somma cosa. (…). E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella <filosofia> si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero” (Conv. II, XII, 1-7).

Una nuova erotica

Questa è una fase molto delicata per Dante, e forse la più “inattuale” per le scelte che egli compie. La Vita Nova, pubblicata diversi anni prima del Convivio, narra infatti di una “donna giovane e bella molto” (V.N. XXXV,2), che, morta Beatrice, avrebbe potuto far rientrare il poeta nello spazio dell’Eros, ma è proprio la ragione che rifiuta di sommettersi al talento. Non solo Dante resterà fedele alla memoria di Beatrice, che considera suo nutrimento spirituale, ma sarà il suo nuovo amore per gli studi a costruire in lui una nuova erotica, di ascendenza platonica, l’erotica intellettuale, come testimoniano svariati passi del Convivio in cui non si avverte discontinuità tra Eros e Sofia. Ne cito qui soltanto uno, a titolo esemplificativo. A proposito della Filosofia, Dante scrive: “Li occhi di questa donna sono le sue demonstrazioni le quali, dritte ne li occhi de lo ‘ntelletto, innamorano l’anima, liberata da le contradizioni” (Conv. II, XV, 3-4).

Virgilio studiato con amore

La Commedia testimonia interamente l’avvenuta integrazione tra intelletto e amore nel processo di sublimazione avviato da Dante quando ancora Beatrice era in vita (la cosiddetta “poetica della lode”, per la quale amare diveniva un’esperienza disinteressata). Quando Dante si rivolge a Virgilio, nella selva oscura, lo fa con queste parole: “O de li altri poeti onore e lume,/vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore/che m’ ha fatto cercar lo tuo volume” (Inf. I, 82-84).

Sono qui contenuti i tre elementi che sintetizzano la prospettiva intellettuale di Dante: studio, amore e ricerca. Cos’è per Dante lo studio, è detto mirabilmente ancora nel Convivio: “Studio è applicazione de l’animo innamorato de la cosa a quella cosa” (Conv. II, XV, 10). Dante ha cercato e studiato a lungo Virgilio, e lo ha fatto con “grande amore”. Non sorprende che Virgilio poi assuma nella Commedia gli atteggiamenti emotivamente più coerenti con la prospettiva dantesca di cui qui si discute. Nella finzione narrativa Dante sfodera tutto il lessico dell’emozione e dell’affettività per rappresentare il suo rapporto con Virgilio, sua vera coscienza morale e sua vera facoltà intellettiva.

E sarà proprio Virgilio, nel diciottesimo canto del Purgatorio, a spiegare a Dante il ruolo cruciale dell’intelletto e della volontà nella gestione dell’amore. Posto nel canto precedente che “Né creator né creatura mai […] fu sanza amore” (Purg. XVII 90-91), il maestro afferma con chiarezza: “poniam che di necessitate/surga ogne amor che dentro a voi s’accende,/di ritenerlo è in voi la podestate” (Purg. XVIII, 70-72). Che si accenda amore negli umani è necessario, si vuol dire, ma l’uomo ha il potere di “ritenerlo”. Come dire che sta all’uomo non consentire all’amore di soverchiare l’intelletto. La distanza dall’amico Guido Cavalcanti e da tutti i sostenitori del colpo di fulmine irresistibile è massima.

Beatrice suprema sintesi di intelletto e amore

Ma la suprema sintesi di intelletto e amore si realizza proprio nel ritorno sublimato sulla scena poetica della Beatrice amata con passione da giovane. Nel Paradiso, l’antica gioia dantesca dinanzi al sorriso e alla bellezza di Beatrice assume i contorni del godimento filosofico e teologico, perché la donna ormai esercita pienamente il proprio magistero nei confronti di Dante, un magistero volto a decantare definitivamente nel poeta qualsiasi scoria di passionalità.

Questa terzina ne è un esempio pregnante: “La mente innamorata, che donnea/con la mia donna sempre, di ridure/ ad essa li occhi più che mai ardea” (Par. XXVII, 88-90). Nella nuova Beatrice, l’amore-passione, sia pur temperato dalla ragione, e l’intelletto innamorato degli studi filosofici e teologici non sono più distinguibili e si fondono nell’idea biblica di Sapienza. Beatrice nell’animo dantesco è colei che può introdurre nello spazio del mistico, straordinariamente rappresentato da terzine come questa, in cui l’ingresso nell’Empireo è annunciato con una vertiginosa compenetrazione di intelletto e amore che è capace di generare una gioia indicibile: “Luce intellettual, piena d’amore;/amor di vero ben, pien di letizia;/letizia che trascende ogne dolzore” (Par. XXX, 40-42).    

E anche dinanzi alla luce divina, nell’ultimo canto del Paradiso, la dimensione dell’intelletto e quella dell’amore risultano profondamente unite: “O luce etterna che sola in te sidi,/sola t’intendi, e da te intelletta/e intendente te ami e arridi!” (Par. XXXIII, 124-126). Si tratta della trinità divina, il cui dinamismo interno si nutre del comprendere e dell’amare, come se Dante avesse voluto individuare in questo indissolubile nesso l’“ad immagine” dell’uomo nei confronti del divino o, comunque, la perfetta umanizzazione dell’uomo, la sua piena configurazione quale homo sapiens. E l’umanità di Dante, in chiusura di poema, troverà la sua gioia suprema nel partecipare alla festa cosmica dell’ “Amor che move il sole e l’altre stelle” (Par. XXXIII,145).

Quale messaggio per il nostro tempo

Amare ciò che si studia e ragionare sulle proprie passioni. È un messaggio di cui non va sottovalutata la distanza dal nostro tempo. “Perdere la testa”, nell’immaginario comune, rappresenterebbe la migliore garanza di autenticità dell’innamoramento e dell’amore, secondo la prospettiva dell’amore romantico. E sul piano dell’attività intellettuale un eccesso di passionalità talvolta può far storcere il muso a chi cerca nello studioso controllo e scientificità. Siamo pertanto davanti ad una prospettiva, quella dantesca, che richiede una mediazione capace di porre alcuni interrogativi tanto alla gestione dei sentimenti quanto all’attività intellettuale: è proprio certo che in ambito umano l’esperienza amorosa debba rinunciare a o guardare con sospetto il contributo della razionalità? Quanta razionalità c’è in certi “amori” il cui esito tragico è sotto i riflettori dei media? E ancora: quale pedanteria potrebbe annidarsi in un’assunzione emotivamente distaccata del proprio oggetto di studio? E ancora: quanto valore aggiunto si può ravvisare in chi ama ciò che studia, soprattutto quando lo insegna? Sarà ricordato costei o costui, come Dante ricordava il suo prof Brunetto, che gli insegnava “come l’uom s’etterna” (Inf. XV, 85)?

La concezione unitaria dell’uomo

Credo che il significato più profondo di questo forte nesso tra intelletto e amore – qui soltanto suggerito da qualche spunto – stia nella concezione unitaria dell’uomo. Il cogito ergo sum cartesiano è interpellato da questo indissolubile impasto tra pensare e sentire, che spesso anche la scuola fa fatica a considerare, immaginando gli allievi o come soggetti esclusivamente cognitivi oppure come soggetti esclusivamente emozionali. Potere emozionarsi per ciò che si conosce e voler conoscere ciò per cui si prova emozione è un tratto tipicamente dantesco. L’amore per i contenuti della mente è assolutamente simmetrico all’intelligenza dei contenuti dell’amore. È un unico spirito pensante e senziente quello di Dante, e per questo sfida tutte le dicotomie artificiose che riducono l’umano e producono le derive dell’intellettualismo arido o del sentimentalismo ingenuo.


[1] Par. I, 103-141.

[2] Ne rende conto utilmente M. Errani, Riflessioni sul platonismo di Dante ed il suo influsso sulla letteratura del Quattrocento italiano, “Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche”, 01, no.5, aprile/giugno 2005.

[3] Così Andrea Cappellano definisce l’amore all’inizio della sua operetta: Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus. L’amore è una passione spontanea generata dalla vista e da un pensiero non moderato per la bellezza dell’altro sesso.

[4] Ci si riferisce al manifesto del Dolce Stil Novo: la canzone di Guido Guinizzelli “Al cor gentil rempaira sempre amore”.

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