Sappiamo chi eravamo? Su “La Resistenza delle donne” di Benedetta Tobagi
Sai chi sei?
Sai a cosa sei chiamata?
Per cosa vale la pena vivere e morire?
Che cosa è giusto fare?
Rompere con clamore o resistere in silenzio nel quotidiano. Tuffarsi al centro del campo di battaglia o restare ai margini – parete, pilastro, confine, protezione; grembo e custode del dolore degli altri. O entrambe le cose? (Benedetta Tobagi, La Resistenza delle donne, Torino, Einaudi, 2022, p.3)
Un saggio che si legge come un romanzo
La Resistenza delle donne, di Benedetta Tobagi, vincitore del Premio Campiello 2023, appartiene a quell’ampio gruppo di libri di genere ibrido che negli ultimi anni hanno riempito gli scaffali delle librerie e mietuto successi di pubblico e di critica, e che potremmo definire, rovesciando una definizione ormai in uso nella teoria della letteratura, saggio-romanzo.
Secondo Stefano Ercolino (Stefano Ercolino, Il romanzo-saggio, Bompiani 2017), infatti, nel romanzo-saggio l’inserimento della forma saggistica, non finzionale, antinarrativa e atemporale, in un dispositivo finzionale, narrativo e fondato sulla successione temporale contribuisce a frenare il racconto, creando quegli effetti di rallentamento, distorsione e disgregazione diegetica che caratterizzano, ad esempio, la grande narrativa modernista e che richiedono un lettore critico e altamente consapevole. Al contrario, nel saggio-romanzo l’utilizzo di strategie tipicamente narrative ha lo scopo precipuo di coinvolgere chi legge e di innescare processi di immersione e immedesimazione che consentono a chi scrive di porgere l’oggetto della propria indagine anche a lettori meno esperti, non specialisti, che solitamente non frequentano i territori talvolta impervi della saggistica. È esattamente ciò che accade in La Resistenza delle donne.
Il libro è diviso in capitoli che seguono, grossomodo, un ordine cronologico: si apre con la data fatidica dell’8 settembre 1943, esponendo le ragioni e le forme dell’adesione femminile alla Resistenza; prosegue analizzando i modi in cui essa si attua e si sviluppa; si chiude con il ritorno, non sempre felice, alla normalità, e affronta, negli ultimi due capitoli, il tema della retorica della commemorazione e del (finora mancato) riconoscimento del ruolo delle donne combattenti. Ma non è solo questo perfetto arco narrativo (rottura dell’equilibrio-sviluppo-conclusione-epilogo) ad invogliare al reading for the plot: i capitoli, infatti, sono dedicati ognuno ad un tema differente, ma perfettamente legati tra loro. Tale continuità è sicuramente, come è tipico del genere saggistico, logico-argomentativa: ad esempio, i quattro capitoli successivi intitolati Paura, Carcere, Torture, Morire da vive analizzano, in crescendo, i rischi, i pericoli e gli eventi più dolorosi e tragici della vita delle partigiane, ivi compreso quello, delicatissimo e spesso taciuto, dello stupro. Le connessioni da un capitolo all’altro sono, però, anche stilistico-narrative: si leggano, a puro titolo esemplificativo, l’ultimo paragrafo del capitolo Uccidere l’angelo del focolare e l’incipit del successivo, Tanti modi di combattere, in cui tale continuità appare evidente, esaltata dalle riprese lessicali e dalle riformulazioni di concetti e immagini (di concetti in immagini, di immagini in concetti):
La Resistenza però è una guerra differente, speciale, perché vuole respingere un invasore straniero, perché vuole contrastare la ferocia nazifascista, perché è tutt’uno con la battaglia per un futuro diverso e l’emancipazione personale. Fare la calza per un partigiano, come chiedeva Ada Gobetti alle sue collaboratrici, ha una valenza completamente diversa. E, cosa ancor più importante, dentro la Resistenza delle donne, che è insieme civile e armata, c’è spazio per tutte, ciascuna col proprio sentire (pp. 150-151)
—–
Armate e disarmate, in gonna e pantaloni, tutte insieme. Chi rompe i codici, chi li reinventa, chi se li tiene stretti. Ognuna ha declinato l’impegno della Resistenza a modo proprio (p. 153).
Compare in queste righe uno dei nomi ricorrenti del libro, quello di Ada Gobetti, nome di battaglia “Ulisse”, ripetutamente chiamata, soprattutto attraverso le citazioni del suo Diario partigiano, a raccontare la vita nelle brigate. Ma il suo non è l’unico nome a tornare più volte: le pagine de La Resistenza delle donne, infatti, sono affollate di nomi di donne, da quelle più note – Bianca Guidetti Serra, Joyce Lussu, Carla Capponi, Teresa Mattei – a quelle sconosciute, che rivivono, raccontandola, la propria esperienza resistenziale.
Il ricorso a modalità dialogiche, con lunghi inserti tra virgolette, è costante, e anche grazie a questa strategia, chi legge ritrova, capitolo dopo capitolo, da una pagina all’altra, veri e propri personaggi femminili agenti e parlanti. Sono figure di donne partigiane che danno vita ad una sorta di lungo e dettagliato racconto corale, unitario nell’insieme, ma acceso dalle mille sfumature delle voci, delle scelte etiche e ideologiche, delle esperienze umane e personali, sia di chi cresce e si costruisce in un rilievo a tutto tondo (la ribelle Elsa Oliva, la stoica Ida D’Este, l’ingegnosa Giovanna Zangrandi), sia di chi resta comparsa più defilata e in secondo piano.
E la narrazione in prima persona, che restituisce la parola alle grandi e piccole protagoniste di quegli anni, è una delle caratteristiche più evidenti del libro: contribuisce certamente ad aumentare la leggibilità del saggio-romanzo, ma costituisce anche una precisa scelta di campo e di ricostruzione storiografica.
Raccontare il passato per cambiare il presente
Non si pensi, infatti, che la scorrevolezza narrativa vada a scapito dell’accuratezza della ricostruzione storico-critica. Se non bastassero le ricche e puntuali bibliografie, suddivise per capitolo, alla fine del volume, ne è testimonianza proprio il recupero di una pluralità di fonti “private” (diari, memorie, testimonianze orali) attraverso cui ricomporre, con acribia e tenacia, non solo il contesto generale, ma singoli episodi e retroscena di azioni eroiche e di capitale importanza nella lotta contro i nazifascisti:
Il compito principale delle staffette, come è noto, è trasportare messaggi. Ma spesso vengono affidati loro anche armi o esplosivo per sabotaggi e attentati […].
«Venni chiamata anch’io alla scuola di sabotaggio, in una sala al pianterreno dell’albergo La dama bianca, a Torino», racconta Lucia Boetto Testori. «C’era una stufa di ghisa e lì ci spiegarono come usare l’esplosivo al plastico […]. Occorrono però detonatori a miccia, bianca e nera. Per portarla fino a Cuneo, l’avvolsi tutta intorno al corpo. I detonatori li nascosi sotto i guanti, uno per dito. Il plastico, qualche chilo, nella borsa attaccata al manubrio. Sirio – l’istruttore – mi disse: “Proibito cadere. Se succedesse faresti un buco grande come una casa”». Rassicurante. Dopo due giorni, sente alla radio che a Porta Nuova, nella notte, i partigiani hanno sabotato binari e treni per la Germania, come alla stazione milanese di Greco (pp. 93-94).
Ma ciò che caratterizza La Resistenza delle donne, e che emerge anche solo ad una apertura casuale del libro, è l’amplissimo ricorso alle fonti visive. Il materiale fotografico è ricchissimo – una foto ogni due o tre pagine – e, pur rendendo ancor più piacevole la lettura ai lettori non specialisti, non ha funzione semplicemente esornativa: ogni immagine è commentata nel dettaglio, analizzando i significati simbolici di cui essa è portatrice e ricostruendo la situazione in cui è stata scattata, la “storia” che c’è dietro – e che spesso dà l’occasione per digressioni che si ricollegano ad altre storie. Accade anche per la foto di copertina, che chi legge ritrova a pagina 155:
Questa foto è molto famosa. È stata scattata nell’autunno del ‘44 a Pistoia, durante la liberazione della città, e uscì poco dopo sui giornali americani. Oltre a a essere molto bella, la trovo profondamente simbolica, per l’autorevolezza che emana la donna disarmata in primo piano, anche tra gli uomini e le compagne col fucile. […] Ma l’ho scelta anche perché, sebbene non sia immediatamente evidente, spalanca una finestra su un altro pezzo di storia importante, che richiede una piccola digressione.
L’uomo alto e smilzo sulla sinistra, con gli occhialini e la camicia a scacchi, è… […] (pp. 155-156).
Come si vede, l’autrice non teme di prendere la parola per motivare e giustificare le proprie scelte. È proprio questa assunzione di responsabilità nel riannodare i fili di vicende marginali, nel raccontare le microstorie finora taciute, nel ridare il nome a chi è stata in silenzio, nel restituire uno spazio pubblico a chi, alla fine della guerra, è stata spesso ricacciata in quello domestico, a comporre una sorta di riparazione della storia attraverso una narrazione alternativa, da una posizione controegemonica, di una delle esperienze fondanti del nostro paese, troppo spesso appannata da commemorazioni retoriche o polemiche sterili. La Resistenza delle donne ricolloca finalmente al centro della storia etica, civile e politica dell’Italia del Novecento le donne che l’hanno fatta, e lo fa ad alta voce, rivolgendosi non ad una ristretta cerchia di specialisti, di storici e storiche della lotta partigiana, ma ad un pubblico che sia il più ampio e variegato possibile.
E la conclusione del libro si riallaccia all’esordio, a quella domanda che forse si sono fatte le nostre nonne, bisnonne, prozie, o che forse è rivolta a noi lettori, e specialmente a noi lettrici: a quelle domande identitarie si può rispondere solo se si conosce il passato, se lo si è ricostruito in tutti i suoi tasselli, anche in quelli che ancora mancavano:
Fedeli alla verità di ciò che è accaduto, possiamo sciogliere i nodi antichi, sbriciolare i macigni, «liberare la stirpe», diceva Bert Hellinger. Possiamo prendere la rincorsa dal passato per spiccare il volo. Eleggere i nostri antenati – ed antenate – spirituali tra coloro che possono aiutarci a dirigere meglio i nostri passi. Ancora una volta la liberazione dentro la Liberazione, dentro l’anima e nel mondo: la cifra della Resistenza delle donne (p. 339).
E quanto è necessario, oggi, in un montante clima culturale, economico e politico che vorrebbe ricacciare le donne ai margini, accanto al focolare, nell’unica dimensione predestinata della maternità e della famiglia, quell’appello all’autoconsapevolezza come pietra angolare dell’emancipazione femminile: solo se sappiamo chi eravamo possiamo sapere chi siamo.
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