Leggere in classe
Mi succede ogni volta: non vedo fino in fondo la potenza di un testo finché non me la restituiscono loro. Sono gli studenti il setaccio su cui si incaglia il fondo denso di verità umana che la grande letteratura porta con sé. O almeno così funziona per me. Posso amare un autore, un’opera, e leggerli e rileggerli ogni volta con interesse, ma è proprio quando leggo in classe, che misuro allora con certezza il dirompente potere della parola letteraria, la forza del classico, un autore che, secondo la definizione di Calvino, «non ha mai finito di dire quel che ha da dire».
Stavolta mi è successo con Omero, il classico per eccellenza, certo, ma anche un autore dal quale ci separano secoli di nero vento, e l’avvicendarsi di civiltà, costumi, dominazioni, lingue ogni volta diversi. Insomma un autore molto lontano da noi. Eppure l’Iliade e l’Odissea sono lì, capaci ancora di parlare al cuore dei mei ragazzi.
Cosa ha da dire Omero
È andata così: avevo due ore in classe prima, una di epica e una di lettura. Oggi dobbiamo concludere la lettura di un romanzo del progetto regionale di incontri con l’autore: è un testo fantasy, decisamente avvincente. La scrittrice è molto nota nel campo della letteratura per ragazzi. Sono sicura che leggere il romanzo e poi parlare dal vivo con l’autrice sarà per i miei studenti un’esperienza indimenticabile. Alla seconda ora, poi, facciamo epica: siamo all’Odissea e ci aspetta l’incontro del protagonista con il Ciclope Polifemo. È il libro IX, del quale la nostra antologia riporta ampi stralci, nella traduzione di Maria Grazia Ciani. Alla prima ora, per la lettura del romanzo fantasy, si sono avvicendate le giovani voci dei miei alunni. Ora tocca a me: leggo dunque tutto d’un fiato, riducendo al minimo i commenti. Il testo è semplice e la vicenda nota: non c’è molto bisogno di parafrasi. C’è silenzio nell’aula e ho il dubbio che queste due ore di lettura immersiva li abbiano tramortiti tutti. E invece quando rialzo il capo li trovo lì, occhi attenti ed espressioni sveglie. Li interpello: «Vi siete annoiati oggi?» Qualcuno scuote il capo, ma nessuno mi risponde davvero. È solo quando incalzo: «Allora, quale testo è più bello?» che la situazione si anima. Non c’è discussione: sono unanimi. E mi sorprendono: preferiscono Polifemo all’eroina coraggiosa, confinata in un drammatico futuro distopico tra fughe interplanetarie e portali tra i mondi. «Preferite Polifemo?» «Ma certo, prof!» «Ah! Non me lo aspettavo proprio… ma magari domani non lo dite alla scrittrice che l’Odissea è più bella del suo romanzo…» E qui è Riccardo che tira fuori una delle sue solite battute: «Ma prof! Ma lo sa anche la scrittrice che l’Odissea è meglio…»
Sono senza parole. Basita ma felice per il risultato inaspettato.
Ci prendo gusto e ci riprovo. Stavolta, in modo più consapevole. Intanto è passato un anno e sono di nuovo in classe prima: ho insegnato per tutta la mia vita al triennio e così ora credo di non essere molto capace di coinvolgere gli alunni più piccoli. Ma Riccardo lo scorso anno mi ha fatto capire che Omero funziona, e allora provo ad affondare un po’ di più, partendo dal presupposto – ormai quasi una certezza – che il testo omerico parla ancora dopo millenni.
Questi personaggi ci assomigliano?
Comincio con l’Iliade e spingo i ragazzi a grattare sotto la superficie e a lavorare sulla psicologia dei personaggi: la rabbia, l’ira, il furore dei Greci all’assedio di Troia; il senso di colpa di Elena di fronte alla strage, il suo rispetto per Priamo che non la giudica, nonostante i vecchi di Troia sulle mura facciano del pettegolezzo la loro attività preferita, «simili alle cicale, che in mezzo al bosco stando sopra una pianta mandano voce fiorita» (Iliade, III, vv. 151-152, trad. di Rosa Calzecchi Onesti); e poi Ettore: senso del dovere, attaccamento alla famiglia, tenerezza per Astianatte, ma anche paura della morte, disperazione nel sentirsi abbandonato dagli dèi durante il duello: indaghiamo ogni sfumatura di questi cuori lontani eppure così vivi, ingaggiamo qualche spezzone di un embrionale debate per considerare l’ipotesi contraria, le scelte che non sono state fatte, le ragioni degli altri. Ha ragione Priamo a non portare rancore ad Elena? Ha ragione Elena ad arrabbiarsi, attribuendo ad Afrodite la responsabilità dei suoi errori? Si valutano i pro e i contro, e intanto ci prepariamo ad argomentare: tornerà utile più avanti, nella carriera scolastica di questi giovani. E forse anche nella vita.
Il peso delle parole
Il duello tra Ettore e Achille è la sede privilegiata per un altro discorso: i ragazzi si accorgono che i due contendenti parlano troppo e combattono poco. È l’occasione per riflettere sulla parola alata, e sulla forza che ha, simile a quella di una freccia: entrambe, se scagliate a fendere l’aria, raggiungono rapide il loro bersaglio e lo feriscono. Parole come armi. Mi sono fatta aiutare da Francesca Piazza (La parola e la spada. Violenza e linguaggio attraverso l’Iliade, Il Mulino, Bologna, 2019) e ho condiviso con la classe le sue considerazioni: le parole nei duelli epici hanno innanzitutto un valore negoziale, stabiliscono il piano su cui si svolgerà il conflitto. Servono poi per provocare allo scontro, conoscere l’avversario e il suo valore, sfidarlo sul proprio terreno. Nelle alterne sorti del combattimento, il discorso orale serve da puntello ai colpi inferti, sottolinea e rincalza l’azione, affonda dopo un’offesa andata a segno. Chi vince, celebra la propria superiorità ancora affidandosi alla parola. Non a caso, quando Ettore viene ferito mortalmente, la ferita è alla gola, «ma il frassino armato di bronzo non tagliò la trachea, affinché potesse parlargli, rispondendo alle sue parole» (Iliade, XXII, vv. 328-329, traduzione di Giovanni Cerri). Il colpo mortale non toglie quindi ad Achille la soddisfazione di continuare il dialogo mortale, infierendo ancora sul nemico, ovviamente con le parole anziché con i gesti. Anzi, è proprio in quelle la ferocia e la forza di offesa del vincitore. Facile la riflessione con la classe: quanto male si può fare con le parole? Ed è già educazione civica…
Leggere per scrivere
C’è poi il grande filone della scrittura creativa, che percorre l’intero anno scolastico. Cucinata calda direttamente in classe. Da quando c’è lei, la chat-gpt, non assegno più compiti scritti per casa: che senso ha? Li faccio scrivere qui, davanti a me. Magari testi brevi, ma più frequenti. Faccio allora uno strano esperimento. A seconda del testo letto la mattina, in certe occasioni chiedo agli studenti di scrivere una lettera che uno dei personaggi omerici potrebbe indirizzare a un altro dei protagonisti della storia. Sarà allora Elena che scrive a Clitennestra: Cara sorella mia, qui a Troia tutto bene, ma comincio ad avere nostalgia di casa…
Sarà Calipso che scrive a Penelope dopo la partenza di Odisseo: Cara Penelope, la zattera di Ulisse è appena salpata dalle coste di Ogigia…
I risultati sono a volte di straordinaria efficacia; ecco come Aurora interpreta i sentimenti di Calipso:
Ciao Penelope, tuo marito sta tornando a casa, sei contenta? […] Io l’ho sfamato, vestito, accudito e amato, tu invece cos’hai fatto intanto per lui? Come minimo lo avrai tradito e avrai fatto dormire altri uomini nel suo letto. Ormai sono passati parecchi anni, ti sarai invecchiata e imbruttita, quindi non ti amerà più. Io invece sono una ninfa, sono bellissima. Non vedo l’ora che torni da me e che si inginocchi dicendomi: «Oh, Calipso, avevi ragione. Voglio prenderti in sposa!»
Aurora legge a voce alta; c’è ilarità nella classe, ilarità che esplode quando arriviamo alla firma che chiude la lettera al veleno: La futura moglie di tuo marito, Calipso.
Di sicuro, oggi abbiamo condiviso un’emozione. E testato ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, lo sferzante potere delle parole.
Telemaco e noi
È che i ragazzi si identificano naturalmente con i personaggi epici, scolpiti come sono in pochi gesti, ma di intensa potenzialità iconica. Una suggestione indimenticabile me la offre l’Odissea e precisamente la Telemachia: Telemaco è un giovane pieno di insicurezze e non sa ancora dare un senso alla sua vita. Dopo vent’anni dalla partenza di Odisseo, la sua reggia, ad Itaca, è invasa dai proci, i pretendenti alla mano di Penelope, che attendono la decisione della donna gozzovigliando tra feste e banchetti.E Telemaco è là, che li guarda impotente, incapace di reagire allo sperpero del suo patrimonio e alla rovina della sua casa:
Sedeva tra i pretendenti, crucciato nell’anima,
sognando il nobile padre nel cuore, se a un tratto venisse
e liberasse da tutti i pretendenti la casa,
e riavesse il suo onore e sopra i suoi beni regnasse.
Questo, seduto tra i pretendenti, sognava.
(Odissea, I, vv. 113-118, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti)
I sei versi che Omero dedica a questo ritratto sono di un’intensità accorata e disarmante. Telemaco, di fronte alla muta assenza del padre e al sospetto lacerante della sua morte, devastato dalla vergogna della madre che non osa né risposarsi né rifiutare decisamente i proci, avverte il nonsenso della sua stessa esistenza, si mostra impotente e, seduto, si accontenta di sognare. Sogna il ritorno impossibile, sogna il padre accanto a sé, sogna affrancamento dall’opprimente schiavitù della confusione e del disordine, sogna pace e libertà, sogna riscatto e onore. Sogna, seduto, col cuore crucciato. Sogna e non agisce.
Quanti giovani oggi si comportano esattamente come Telemaco? Telemaco non è poi così distante da noi. In classe si scatena la discussione, il dibattito è ampio e acceso. E il miracolo del testo si ripete ancora una volta: oggi ci ha raccontato di noi stessi ed ha accorciato le distanze.E allora andiamo ancora più a fondo: come si esce da questa impasse? Da questo logorante assopimento dell’io? Come ne esce Telemaco?Telemaco riceve una visita, quella della dea Atena che assume le sembianze di Mente, un vecchio amico del padre. Mente, dunque, lo esorta a prendere in mano la propria vita, a cercare il padre, a far sentire il suo dissenso alla madre e ai pretendenti: «non devi fare il bambino, ché non hai tale età» (ivi, vv. 296-297). È un invito alla crescita e all’assunzione di responsabilità e di sicuro non cade a vuoto tra gli adolescenti, ma voglio ricordare a me stessa un particolare importante: all’inizio dell’incontro con Mente, Omero, nel presentare Telemaco, accompagna il suo nome all’epiteto tradizionale “theoeidés”, ovvero «simile a un dio, aspetto divino». Al di là di ogni commento filologico, mi piace trarre da questo epiteto una suggestione: solo nel rispetto della sacralità dell’altro, può avvenire comunicazione. Perché Mente si rivolge a Telemaco non come se avesse di fronte un fallito perditempo, ma come se ne avesse comunque intravisto i semi del riscatto. Ha fiducia in lui, crede in lui. Solo così potranno capirsi.
«Avevamo studiato […] un segno di riconoscimento»
Intanto le settimane passano e utilizziamo sempre di più l’Odissea come banco di prova delle nostre emozioni. Un’esperienza fortissima arriva quando, ormai verso la fine della storia, leggiamo la scena del letto.
Penelope si ritrova Odisseo in casa dopo vent’anni. Non è sicura che sia lui, e lo mette alla prova: «abbiamo per noi dei segni segreti, che noi sappiamo e non gli altri» (Odissea, XXIII, vv. 109-110, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti). Decido di mettere in cortocircuito il testo con una poesia montaliana tratta da Satura, dedicata anche stavolta ad un rapporto coniugale interrotto dal tempo (e in questo caso, dalla morte):
Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo […] (E. Montale, Satura, Mondadori, Milano, 1971)
Ragioniamo sulla straordinaria complicità che lega le due coppie, stringendole di un amore che vive anche di un segreto codice di segni, ignoti al resto del mondo. Certo, ci diciamo, è il linguaggio dell’amore che crea questo miracolo di muto dialogo, d’intesa reciproca al di là del tempo e dello spazio. Assegno allora alla classe ancora un lavoro di scrittura, per far raccontare ai ragazzi una relazione nella quale torni a vivere la complice intimità degli sposi celebrati dalla poesia. Qualcuno parla dell’amico del cuore, o di un linguaggio segreto che si utilizza nel gruppo dei pari, o di come si ritrova sempre una persona cara quando ci si smarrisce al centro commerciale, semplicemente sfruttando l’intesa reciproca e la profonda conoscenza dell’altro. Margherita e Giulia, dal canto loro, ci conducono al cuore di un affetto speciale e parlano entrambe delle loro nonne.
Il lavoro di Margherita: Sapevo sempre dove ritrovarla
Margherita pensa ad un posto dove la presenza di nonna Mara è ancora percepibile, con la forza e la voglia di vivere che l’hanno sempre caratterizzata:
Se dovessi pensare ad una persona molto importante nella mia vita, sarebbe sicuramente mia nonna, Mara […] Nonna ha combattuto per tre anni contro il cancro e anche se ora non c’è più, per me ne è comunque uscita vincitrice. Io però, dato che quegli anni sono stati molto complicati, non la voglio ricordare come era durante la malattia, ma come è sempre stata, una donna solare, elegante e divertente, che mi ha cresciuto durante la mia infanzia. Se, quando c’era ancora, non la trovavo, probabilmente sarei andata a cercarla in due posti: o nella sua macchina rossa o nella sua casa a Perugia. Quindi ancora oggi la ritrovo nella sua Panda rossa, perché lei con quella macchina girava il mondo, il suo mondo […]. Quando vedevo la sua macchina sotto casa mia, sapevo che c’era ed ero felice. Io adoravo e adoro quella macchina perché è lì che con mia nonna ho passato i momenti più belli di quando ero piccola: andando a scuola mi raccontava la sua vita di quando era giovane e tante storie, lì cantavamo anche e ci divertivamo a vedere gli aironi sul fiume Topino.
Il lavoro di Giulia: «Avevamo studiato per riconoscerci un fischio, un segno…»
La nonna di Giulia è ancora accanto a lei, ma per colpa di Omero e di Montale lei e la nipote hanno cominciato a prendere degli accordi inaspettati:
Nonostante questa poesia di Montale dedicata alla moglie defunta sia costituita da solo tre frasi, ha un messaggio fortissimo che ha scatenato un caos di emozioni nella mia testa. Soprattutto mi sono tormentata per trovare una soluzione ad un bisogno che non sapevo di avere, ovvero la certezza di trovare mia nonna nell’aldilà. Allora ho iniziato a pensare ad un segno, simile al fischio tra Montale e la moglie, che legasse me e mia nonna. Insomma, un qualcosa che solo io e lei sappiamo e gli altri no.
Giulia pensa allora all’abitudine che hanno in comune lei e sua nonna di intrecciare mazzetti di lavanda e di prendersi cura del giardino. E la sua riflessione continua così:
Allora ho chiesto a mia nonna e insieme abbiamo deciso quale sarà il nostro “fischio”. Quando andremo nell’aldilà porteremo con noi un fuso di lavanda e, se ciò non fosse possibile, dovremo raccontare all’altra il procedimento per crearlo così ci potremo riconoscere e stare insieme. Chissà, magari nell’aldilà c’è anche un giardino dove passare del tempo!
Ci siamo emozionati tutti mentre le ragazze leggevano, e io ancora una volta pensavo che, ecco, Omero ci ha costretto a parlare di argomenti che forse non avremmo mai affrontato senza i suoi spunti: l’amore e la morte, e, per citare un passo a me caro de Il midollo del leone di Calvino, «tante altre di queste cose necessarie e difficili».
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