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diretto da Romano Luperini

L’ora di lotta al femminicidio

Non è una novità che, di fronte a fatti di cronaca che coinvolgono giovani e giovanissimi, da molte parti si alzino voci che chiedano insistentemente alla scuola di farsi carico di questo o di quel problema sociale – la lotta alle mafie, la cura dell’ambiente, il razzismo, l’abuso di sostanze stupefacenti… – in un fiorire di pacchetti di ore di “Educazione a…”, giornate commemorative, incontri con esperti, conferenze, concorsi, e chi più ne ha, più ne metta.

È successo anche questa volta, di fronte all’ennesimo, agghiacciante, femminicidio.

Ma chiedere che la scuola faccia da deus ex machina ogni volta che i titoli dei giornali sembrano interrogarsi su “come sia potuto accadere” significa crogiolarsi nell’illusione: illusione che la scuola possieda non si sa bene quale capacità taumaturgica di ovviare ad un problema gravissimo e profondamente radicato come quello della mascolinità tossica e della mentalità patriarcale; illusione, soprattutto, che la scuola non sia essa stessa parte del sistema sociale o non sia essa essa stessa una società in piccolo – quando, al contrario, è la prima forma di organizzazione sociale che i bambini e le bambine incontrano al di fuori della famiglia.

Cosa possono fare, infatti, un pacchetto di ore ad hoc spalmate qua è là, un paio di lavori di gruppo con annessa realizzazione di un bel PowerPoint e la partecipazione ad una conferenza – magari pomposamente rinominati, nelle scartoffie burocratiche, nei PTOF e nelle programmazioni di classe, Laboratorio per il contrasto della violenza di genere? Cosa possono fare, soprattutto, in una società che trasuda sessismo e violenza di genere da ogni poro – dalle famiglie al mondo del lavoro, allo sport, all’intrattenimento? Cosa possono fare per le bambine che già dalla scuola dell’infanzia sono costrette ad indossare un grembiulino rosa anziché uno rosso, giallo, blu o verde? Cosa possono fare per la ragazzina di undici anni che ogni mattina deve, lei, unica femmina, rifare i letti dei fratelli prima di uscire per andare a scuola? Cosa possono fare per la tredicenne che torna a casa con un consiglio orientativo per il liceo scientifico, ma a cui il padre annuncia che la matematica non fa per le ragazze e che quindi la iscriverà ad un corso di parrucchiera? Cosa possono fare per l’adolescente che, almeno un paio di volte alla settimana, arriva in ritardo a lezione perché sul treno delle 7.35 c’è quell’uomo che la fissa insistentemente e cerca di avvicinarla, e quindi preferisce aspettare il treno successivo, anche a costo di un richiamo? Cosa possono fare per tutte le studentesse brillanti che, ad ogni pranzo di famiglia, anziché ricevere complimenti per il 9 nel compito di fisica o il 30 e lode all’esame di microbiologia, si sentono costantemente chiedere se hanno un fidanzato? Cosa possono fare per tutti quei ragazzi e quelle ragazze che, tornati a casa, vedono il lavoro domestico e di cura sempre sulle spalle delle donne? Che, fuori dalle mura della scuola, sono inondati da messaggi pubblicitari, editoriali di giornali, testi di canzoni, prodotti mainstream di ogni tipo che rigurgitano sessismo, oggettificazione del corpo femminile, misoginia?

Non chiedete, quindi, alla scuola, soluzioni miracolistiche. Soprattutto, non chiedetele ad una scuola sempre più bistrattata, impoverita, burocratizzata, considerata ormai solo in funzione del mondo del lavoro (mondo del lavoro dove, tra l’altro, imperano gender pay gap e soffitti di cristallo) e non più come luogo fondamentale per la costruzione del pensiero critico, dell’identità personale e civica.

Ma allora, la scuola può sentirsi indifferente al problema della violenza di genere sistemica? Certo che no, ma lasciate che essa lotti con i propri mezzi e i propri strumenti: lasciate che insegnanti appassionati di matematica e scienze facciano, per la presenza femminile nelle discipline STEM, più di quanto possano fare mille giornate dedicate a donne e scienza; lasciateci il tempo e lo spazio per leggere e commentare in classe Extraterrestre alla pari, La lupa e Quaderno proibito, per indignarci di fronte al linciaggio di Ipazia, alla lettera scarlatta di Hester Prynne, alla monacazione forzata di Gertrude, allo stupro di Catherine Maheu, e di riconoscerci nelle loro storie; lasciateci il tempo di spiegare Olympe de Gouges, Emmeline Pankhurst, Simone de Beauvoir; di ammirare le opere di Sofonisba Anguissola, Artemisia Gentileschi, Frida Kahlo e Marina Abramovič, senza imbrigliarci in moduli, UDA, progetti e progettini curricolari ed extracurricolari, perché questo sappiamo fare, e sappiamo farlo, spesso, molto bene. La richiesta che si può fare agli insegnanti e alle insegnanti, quindi, non è quella di estrarre dal cappello una nuova disciplina, l’ora di lotta al femminicidio, ma quella di essere autoriflessivi, di interrogarsi seriamente su se stessi e su se stesse (come già chiedeva, cinquant’anni fa, Elena Gianini Belotti in quel saggio capitale che è Dalla parte delle bambine), proprio in quanto membri di una società in cui le norme non scritte della discriminazione e della violenza di genere sono state profondamente interiorizzate, per scardinare in sé gli stereotipi, i preconcetti, i comportamenti “istintivi” e “naturali” che ci rendono portatori e portatrici sani di patriarcato, nel tentativo di rendere la scuola non l’impoverita panacea a tutti i mali di una società iniqua, violenta, maschilista, ma un piccolo laboratorio in cui sperimentare un modello alternativo di comportamenti e di relazioni, più giuste ed eque, meno violente e meno sessiste per tutti e per tutte.

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