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diretto da Romano Luperini

L’inizio e la fine: un percorso ad alta velocità tra Svevo e Pirandello

Il romanzo della crisi

In uno dei capolavori della critica del XX secolo, Il romanzo del Novecento, Giacomo Debenedetti individuava negli anni successivi alla Prima guerra mondiale un momento di profonda mutazione del genere romanzesco; i «modelli veristi» erano ormai considerati «stancati, esausti e in qualche modo inservibili», e «il romanzo italiano rinasceva», tanto che i lettori avevano l’impressione di trovarsi di fronte a «“un romanzo altro”, se vogliamo imitare la frase del critico francese Tapié che ad un suo saggio sulla pittura moderna ha dato il titolo di Un art autre» (p. 98). Insieme allo statuto del narratore, ai rapporti di causa-effetto tra gli eventi e alle tecniche narrative, si modificava anche il personaggio, l’elemento più interessante di un racconto; in un’altra sua opera capitale, intitolata Il personaggio-uomo, Debenedetti coniava la celebre espressione di «invasione dei brutti» per qualificare l’avvento sulla scena del romanzo di personaggi tanto diversi da quelli dell’Ottocento: nei romanzi di Tozzi e Pirandello il lettore veniva infatti messo di fronte a «un repertorio di rappresentanti dello squallido, dello scontante, dello scontroso, dell’inameno, dello scombinato, del repulsivo» (p. 94).

Non solo Tozzi e Pirandello: Debenedetti dedica molte pagine del Romanzo del Novecento a Svevo, vero autore europeo; dopo la «scrittura di parole» di d’Annunzio, per gli studenti di quinta immergersi nei romanzi di Pirandello e Svevo rappresenta un’esperienza non soltanto letteraria ma, oserei dire, anche di vita e conoscitiva; l’inconclusione, la caduta degli ideali e della storia, il fallimento dei rapporti “naturali” che legavano il soggetto alla realtà, aprono le porte a dubbi angosciosi sulla vita, sul mondo e sul futuro. Se il romanzo dell’Ottocento, storico o sociale, aveva messo al centro la realtà esterna, di cui i personaggi erano delle caratterizzazioni tipiche, gli scrittori dei primi decenni del Novecento, grazie all’influsso della psicanalisi freudiana, si concentrano invece sull’indagine delle zone più recondite dell’animo umano.

Cominciare e finire: tra Calvino e le contingenze dell’ultimo anno

Italo Calvino, nelle Lezioni americane, decide di dedicare un’ipotesi di lezione inaugurale al tema Cominciare e finire; in questo saggio, ora inserito in Appendice alle Norton Lectures, lo scrittore si confronta con i problemi della narrazione e identifica nell’inizio e nella fine di un romanzo due punti particolarmente significativi. L’inizio rappresenta infatti «il distacco dalla potenzialità illimitata e multiforme per incontrare qualcosa che ancora non esiste ma che potrà esistere solo accettando dei limiti e delle regole […]. L’inizio è il luogo letterario per eccellenza perché il mondo di fuori per definizione è continuo, non ha limiti visibili» (pp. 734-735). La conclusione, invece, secondo Calvino, risulta spesso meno memorabile dell’incipit perché, «Comunque essa finisca, qualsiasi sia il momento in cui decidiamo che la storia può considerarsi finita, ci accorgiamo che non è verso quel punto che portava l’azione del raccontare, che quello che conta è altrove, è ciò che è avvenuto prima: è il senso che acquista quel segmento isolato di accadimenti, estratto dalla continuità del raccontabile» (pp. 748-749). Tuttavia, tra gli explicitche ritiene memorabili, inserisce proprio quello della Coscienza di Zeno, finale cosmico da affiancare agli inizi cosmici delineati nelle pagine precedenti; l’ultima pagina del romanzo sveviano del 1923, infatti, «è una riflessione sulla malattia, sulla vita umana come malattia, sulla natura inquinata dall’uomo, e arriva fino a una profezia della bomba atomica» (p. 748).

Proprio la suggestione di Calvino, unita all’insoddisfazione per i brani sveviani e pirandelliani che si ripetono stancamente di manuale in manuale, eccedendo spesso una misura “sostenibile” per il docente e la classe, mi ha suggerito di analizzare i due romanzieri focalizzandosi sull’inizio e la fine delle loro opere; tale scelta permette anche la creazione di un percorso “ad alta velocità”, necessario in un quinto anno in cui la componente del tempo risulta fondamentale, per consentire di affrontare un numero “dignitoso” di testi e autori tali da attivare quei collegamenti tra discipline su cui si basa il materiale proposto in sede di colloquio orale. Tenendo in considerazione la relatività di ogni datazione, ho però incluso in questo modulo sui “confini” dei romanzi, tre opere al di fuori dell’intervallo temporale chiarito in apertura, Una vita, Senilità e Il fu Mattia Pascal; per riprendere una celebre espressione contenuta nel saggio Racconta il Novecento di Walter Pedullà, coi i primi due Svevo assesta «il primo micidiale cazzotto» alla struttura della narrativa dell’Ottocento, mentre l’opera pirandelliana del 1904, per la sua carica innovativa e la riflessione sull’identità, anticipa temi sviluppati poi da Pirandello nei romanzi del dopoguerra.

“Tre romanzi in uno”: sulle soglie dei romanzi sveviani

Come confidò a Valery Larbaud, Svevo era consapevole di aver scritto “un solo romanzo” e che tra i suoi tre protagonisti, Alfonso Nitti, Emilio Brentani e Zeno Cosini intercorrevano parentele letterarie; scrive infatti nel Profilo autobiografico: «Zeno è evidentemente un fratello di Emilio e di Alfonso. Si distingue da loro per la sua età più avanzata e anche perché è ricco. Potrebbe fare a meno della lotta per la vita e stare in riposo a contemplare la lotta degli altri. Ma si sente infelicissimo di non poter parteciparvi. È forse ancora più abulico degli altri due. Passa continuamente dai propositi più eroici alle disfatte più sorprendenti». Se i protagonisti di Una vita e di Senilità erano tragici, quello della Coscienza di Zeno è però umoristico, tanto da essere paragonato da Benjamin Crémiux al Charlot di Charlie Chaplin (per approfondire il tema, si legga l’articolo di Barbara Stumar, La modernità dell’antieroe. Lo schlemiel sveviano tra letteratura e cinema).

L’inizio e la fine dei tre romanzi possono quindi dare alla classe la possibilità di comprendere la diversa caratterizzazione dei personaggi, perché, a mio avviso, in quei paragrafi iniziali è già inscritto il loro destino e, quindi, in un certo senso, la conclusione dell’opera. Inoltre, le “soglie” del testo consentono di ragionare sull’evoluzione del narratore, da Una vita e Senilità, catalogati erroneamente come romanzi naturalisti, a uno modernista come La coscienza di Zeno.

Una vita ha al centro la vicenda di Alfonso Nitti, giovane campagnolo impiegato nella banca Maller; il romanzo si apre e si chiude significativamente con una lettera: nel capitolo iniziale viene infatti riportata la missiva scritta dal protagonista alla madre, nella quale si dichiara attaccatissimo a lei, nostalgico del paese, amante dell’idillio campestre, devoto agli ideali etici e virtuosi che la campagna gli ispira, incurante del denaro e devoto soltanto ai classici, che vorrebbe leggere «all’ombra delle quercie». Dal primo capitolo sembrerebbe emergere un personaggio sincero, attendibile ma, anche attraverso il tono lezioso e patetico che promana dalle prime pagine del romanzo, vediamo un individuo che mente agli altri e a sé stesso, che ha nostalgia del paesello ma, d’altra parte, è intenzionato a far parte di quella società e di quell’ambiente (il salotto letterario del Sig. Maller) che in queste righe tanto disprezza. La conclusione contiene invece un’altra lettera ed è interessante far ragionare la classe sullo stile e sulla diversa tipologia delle due missive: la lettera spedita dalla direzione della banca è antitetica rispetto a quella ricca di retorica dell’incipit: è burocratica e comunica, in modo freddo e distaccato, la morte del protagonista.

Se le bugie di Alfonso Nitti vengono man mano smascherate dal lettore nel corso della storia, è il narratore stesso di Senilità a contraddire subito, nelle primissime righe del romanzo, l’affermazione di Emilio Brentani sulla famiglia e la carriera come «doveri» che gli impediscono una relazione seria con Angiolina: «La sua famiglia? Una sola sorella non ingombrante né fisicamente né moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per carattere o forse per destino»; il narratore interviene frequentemente nelle pagine iniziali del romanzo a giudicare e commentare, ma soprattutto a smascherare, alibi e menzogne di Emilio, verso sé stesso, ma soprattutto verso gli altri. Le pagine iniziali di Senilità permettono anche agli studenti di vedere i rapporti tra i personaggi, che si dispongono come un vero sistema di forze se si decide di seguire le indicazioni contenute nel bel saggio di Teresa De Lauretis, La sintassi del desiderio. Struttura e forme del romanzo sveviano; già in queste prime righe si può notare come i due fratelli, Emilio e Amalia, siano una sorta di uno il doppio dell’altro, una sorta di personaggio-unico, come testimoniano anche i nomi che, accostati, danno luogo a una paronomasia. Sulle pagine iniziali del romanzo si possono fare operazioni molto proficue insieme alla classe: identificare i colori che caratterizzano Emilio e Angiolina, lavorare sull’opposizione salute-malattia (uno dei macrotemi sveviani), isolare gli interventi del narratore e l’uso dei diminutivi associati al letterato fallito. Amalia e Angiolina non si incontrano mai, ma saranno però fuse nell’immaginazione di Emilio nel capitolo finale, il quattordicesimo, in cui il protagonista, dopo la morte della sorella e l’abbandono dell’amata, ripensa «a quel periodo della sua vita, il più importante, il più luminoso» e, «nella sua mente di letterato ozioso, Angiolina subì una metamorfosi strana. Conservò inalterata la sua bellezza, ma acquistò anche tutte le qualità d’Amalia che morì in lei una seconda volta». Insomma, nell’immaginazione di Emilio la donna ideale fonde i tratti di Angiolina, compiacente, emblema dell’erotismo e quelli di Amalia, donna madre idealizzata; la femme fatale, «figlia del popolo», diventa un simbolo, che unisce sensualità e pensiero, ma che mantiene, come nella pagina iniziale del romanzo, il rosa e il giallo, colori di quella salute negata ai due fratelli Emilio e Amalia.

Se per Senilità si può parlare di narratore esterno che interviene a commentare la vicenda, ben diversa è la voce narrante della Coscienza di Zeno: il romanzo del 1923 si apre infatti con due brevissimi capitoli, Prefazione e Preambolo, dai quali apprendiamo informazioni preziose sul racconto delle memorie inserite nei capitoli tematici; la Prefazione è l’unico luogo della Coscienza di Zeno in cui a parlare non è Zeno Cosini, ma il dottor S., psicoterapeuta che decide di pubblicare per vendetta le memorie scritte dal paziente come esercizio preparatorio alla cura psicanalitica. Se il dottore è deontologicamente scorretto, veniamo però messi subito in allerta su quanto la voce di Zeno ci racconterà, dal momento che si anticipano le «tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate». Nel Preambolo invece appare il personaggio di Zeno e apprendiamo che, per facilitare il compito del Dottor S., ha letto un trattato di psico-analisi: «non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso». La Coscienza è quindi un romanzo scritto tutto sotto l’influenza di Freud: i capitoli che vanno infatti dal terzo al settimo si possono infatti leggere come un romanzo psicanalitico, perché vedono nella psicanalisi la chiave interpretativa delle vicende narrate; la lettura quindi di queste pagine iniziali è essenziale per comprendere appieno il romanzo e, a mio avviso, va integrata nel percorso di letture sveviane in caso sia assente nel manuale in adozione. Il finale, già introdotto con il riferimento a Calvino, assume invece un andamento diaristico: le ultime pagine datano 24 marzo 1916 e si caratterizzano per il passaggio da una visione individuale a una collettiva. Il successo commerciale ha un effetto benefico anche su quello della salute («Fu il commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia») e quindi Zeno allarga il tema della malattia dall’ottica personale a quella generale. È interessante guidare la classe, oltre che nella martellante ripetizione nel testo del termine salute, sul diverso statuto del narratore rispetto ai romanzi di fine Ottocento, ma soprattutto sulla novità del personaggio di Zeno rispetto ai fratelli Alfonso ed Emilio, cercando anche di proporre un’interpretazione autonoma, affiancandone alcune autorevoli, come quella proposta, sempre nel Romanzo del Novecento, da Debenedetti, secondo cui, invece, «in Svevo non c’è nessuna speranza: i suoi tre romanzi sono tre storie di fallimento, di frustrazione (ripeto che anche l’apparente lieto fine della Coscienza di Zeno rientra in questa categoria)» (p. 467).

Identità e macchine in Pirandello

Il medesimo lavoro di analisi sull’inizio e la conclusione di un romanzo si può continuare su due capolavori pirandelliani, Il fu Mattia Pascal e I quaderni di Serafino Gubbio operatore: il primo è solitamente diffusamente antologizzato (anche al primo grado, ahimè), mentre il secolo permette una serie di collegamenti interdisciplinari che ne fanno, a mio avviso, una tappa da inserire nel modulo sul romanzo della crisi.

Il capitolo iniziale dell’opera uscita nel 1904 si intitola Premessa e il personaggio che racconta la storia ha già vissuto le avventure che si accingerà a raccontare; Pirandello, attraverso Mattia Pascal, insiste sull’importanza del nome: «Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: — Io mi chiamo Mattia Pascal». Come la metamorfosi di Angiolina alla fine di Senilità era strana, così è il caso del protagonista: «Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo». Il lettore è quindi condotto in una narrazione retrospettiva in cui il protagonista, cercando di sfuggire dalla famiglia, una delle trappole della forma, si darà morto per ben due volte, approdando, alla fine, alla constatazione di non sapere neppure chi sia. Com’è noto, Il fu Mattia Pascal presenta un andamento circolare, dal momento che il capitolo iniziale e finale sono ambientati entrambi a Miragno, cittadina ligure d’invenzione, e hanno come protagonista il medesimo personaggio, Mattia Pascal in una condizione di espulso dalla vita. Nonostante il desiderio di tornare a casa, modello Ulisse, e riconquistare la moglie Romilda, egli deve constatare che questa si è risposata e il comune ha nominato un altro bibliotecario al suo posto. Marco Bazzocchi intitola infatti significativamente Il personaggio ombra il capitolo dedicato al Fu Mattia Pascal nel suo saggio Personaggio e romanzo nel Novecento italiano e scrive: «la presenza della morte […] costella tutta la sua avventura: […] Mattia si sposta nella prospettiva della morte, assume la morte come verità: nell’ultima scena del romanzo lo vediamo mentre porta i fuori sulla sua tomba e può finalmente dichiararsi “il fu Mattia Pascal”» (p. 31). Mattia Pascal è diventato «un’ombra, un cadavere vivente, un uomo che può portare fiori sulla sua tomba» (p. 32). Insieme con la classe si potrà ragionare sulle somiglianze e differenze tra la prima persona del Fu Mattia Pascal e della Coscienza di Zeno: il titolo indica chiaramente, infatti, che la condizione del protagonista è quella di essere un morto, un individuo che ha perso l’identità definita dal nome; insomma, assisteremo a una narrazione condotta non da un nevrotico, ma da un personaggio per la società morto.

Non uno stato di semi-morte, ma il mutismo è invece la condanna di Serafino Gubbio, protagonista del romanzo inizialmente pubblicato nel 1916 col titolo di Si gira…e incentrato sul mondo del cinema; nonostante gli venga dato sulle antologie uno spazio minore rispetto al Fu Mattia Pascal e a Uno, nessuno e centomila, I quaderni di Serafino Gubbio andrebbe, a mio avviso, rivalutato non solo per la critica, quanto mai moderna, alla civiltà delle macchine, ma anche per la prefigurazione della rimozione dell’umano in un mondo dominato dall’automatismo. Il romanzo consente collegamenti interdisciplinari, oltre che con la sempre più pervasiva intelligenza artificiale, con la storia dell’arte e la letteratura tedesca, dal momento che è esplicitamente citato nel capolavoro di W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica: «Al film importa non tanto che l’interprete presenti al pubblico un’altra persona, quanto che egli presenti se stesso di fronte all’apparecchiatura. Uno dei primi che abbia avvertito questa trasformazione dell’interprete in seguito a un tipo di prestazione fondata sul test è stato Pirandello. Il fatto che le osservazioni su questo argomento, contenute nel suo romanzo Si gira…, si limitino a rilevare l’aspetto negativo della cosa, non ne riduce molto l’importanza» (p. 20). Il romanzo si apre infatti con il racconto del personaggio che, nel suo ruolo di operatore cinematografico, non fa altro che «prestare gli occhi alla macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere». Per passare dalla centralità del testo a quella dei lettori contemporanei, ci si può soffermare sulla domanda rivolta al protagonista da un signore venuto a curiosare: «“siete proprio necessario voi?”», a cui l’operatore ribatte «Non dubito però, che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi». Nella pagina iniziale l’io narrante, che è spesso ragionante e dialogante, sorta di sociologo della vita moderna, ammette però che la scrittura rappresenti un mezzo di riappropriazione dell’umano, tanto che, all’inizio del capitolo II del quaderno I annota: «Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente». Altrettanto ricco di stimoli e di itinerari di lettura dentro e fuori l’opera è il finale: Serafino ha registrato la scena con la quale Aldo Nuti rivolge l’arma verso Vera Nestoroff, uccidendola e venendo sbranato, a sua volta, dalla tigre, ma diviene muto per lo shock; insomma, nelle pagine finali incarna il perfetto operatore cinematografico per la casa Kosmograph: «Tesori si sarebbero cavati da quel film, col chiasso enorme e la curiosità morbosa, che la volgare atrocità del dramma di quei due uccisi avrebbe suscitato da per tutto». Serafino, così come Emilio di Senilità, rinuncia all’amore di Luisetta e scrive di voler «seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l’operatore».

Dopo questo apprendistato condotto col docente sugli inizi e le conclusioni dei romanzi della crisi, si può lasciare come attività domestica l’analisi delle “soglie”di Uno, nessuno e centomila, cercando di guidare gli studenti con delle domande-guida sul narratore, l’evoluzione del personaggio nella storia, eventuali punti in comune e di differenza con altri protagonisti pirandelliani, per vedere se si possa parlare, anche per Pirandello, di un unico romanzo con diverse declinazioni e se anche Vitangelo Moscarda abbia rapporti di parentela con Mattia Pascal e con Serafino Gubbio.

In tutto il percorso, per sistematizzare le acquisizioni, è opportuno avvalersi di tabelle di confronto che, in vista del ripasso finale, possono trasformarsi anche in infografiche, strumento estremamente inclusivo e che va incontro agli stili d’apprendimento degli studenti del XXI secolo.

Il confronto tra testi e autori come cardine dell’educazione letteraria

Il percorso sopra delineato è suscettibile, ovviamente, di obiezioni e critiche: l’immagine di un romanzo veicolata dalla lettura e analisi dei soli inizio e finale è giocoforza parziale, mentre sarebbe auspicabile proporre, anche durante il quinto anno, letture integrali per consentire agli studenti l’immersione nella letteratura contemporanea. Ciò è sicuramente vero, ma, oltre a dover fare i conti con il tempo (variabile che condiziona noi e anche gli studenti), credo che in molti indirizzi uno degli obiettivi principali da perseguire, in una società che tende a marginalizzare la letteratura, sia il contatto col dato letterario e la capacità di munirsi di strumenti per approfondire, con future letture autonome, gli autori che hanno dato vita al romanzo moderno. Gli incipit ed explicit proposti, oltre a essere dotati di alta memorabilità, in poche pagine mettono di fronte agli studenti a tematiche di straordinaria modernità: l’attendibilità o meno della voce narrante, la riflessione sull’identità, la preoccupazione rispetto alla modernità e ai suoi effetti sugli individui, il rapporto tra salute e malattia. Consentono inoltre il confronto tra testi, spingono gli studenti a schierarsi con un autore o con l’altro e a cercare, al suo interno, temi ricorrenti e costanti letterarie; ma soprattutto tale modulo permette di svincolarsi dall’impostazione “da storia letteraria” con cui viene ancora affrontato il percorso di apprendimento del triennio, ridotto spesso a una litania di autori associati meccanicamente a movimenti culturali e letterari. La letteratura invece deve essere strumento per educare alla complessità del reale e due autori come Svevo e Pirandello possono dare un contributo decisivo in questa direzione.

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