Il rischio di difendere lo status quo. Su “La regola del gioco” di Raffaele A. Ventura
Sono un lettore assiduo (e ammirato) di Raffaele Alberto Ventura dal 2015, quando mi imbattei in un suo saggio, Il secondo comandamento, uscito su Le parole e le cose dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, in cui con gran coraggio – perché i cadaveri erano, come si dice in questi casi, ancora caldi – sosteneva una tesi difficile da mandare giù nelle nostre democrazie liberali: la nostra libertà di espressione potrebbe non essere più un valore ‘non negoziabile’. Sul tema egli era poi tornato nel suo secondo libro, La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale (minimum fax, 2019).
Quel che ho sempre apprezzato di Ventura è la sua capacità di minare la buona coscienza di noi cittadini della Western way of life (l’espressione è di Guido Mazzoni) – soprattutto dei suoi apologeti –, richiamandoci alla consapevolezza che non siamo il culmine e il compimento di un’evoluzione storica necessaria, ma solo un suo episodio transitorio.
Con il libro da poco pubblicato, La regola del gioco. Comunicare senza fare danni (Einaudi, 2023) l’autore scrive per la prima volta un “manuale” sui generis, con il quale si rivolge a un pubblico più ampio di quello dei tre precedenti libri: in un linguaggio piano e senza dare nessun concetto per scontato (anzi fornendo un glossario dei termini più ricorrenti nel dibattito in rete, da woke a redpillato, da normie a sealioning), egli spiega come «individuare [i] potenziali rischi comunicativi da evitare», in un’epoca in cui la Rete e i social network mettono ciascuno di noi in una «condizione di “iper-pubblicità”», per la quale «ogni testo rischia presto o tardi di finire sotto gli occhi di qualcuno che non lo capirà o se ne sentirà offeso» (pos. 814, ebook).
Superficialmente il libro potrebbe essere catalogato tra i manuali di self help tanto diffusi oggi, ma sarebbe un abbaglio. Tra le righe del garbato didascalismo, Ventura continua il proprio discorso sulla «dissoluzione di un ordine, quello della modernità» (La guerra di tutti, p. 13) e non smette di intrecciare di spine la corona del progresso liberale.
Se dobbiamo imparare ad essere meno offensivi, non è perché il mondo stia diventando più capace di accogliere la diversità – meno sessista, omotransfobico, razzista, specista – bensì precisamente per il contrario: l’alterità è diventata irriducibile, così che le incomprensioni e i conflitti aumentano. Le comunità, le appartenenze, le identità si stanno moltiplicando; quello spazio pubblico in cui tutti eravamo ‘uguali’ – lo spazio dell’universale della modernità – è a pezzi, perché ci siamo accorti che non era affatto universale (ma dei maschi, bianchi, etero, …). Oggi, insomma, si tiene a sottolineare soprattutto quel che ci differenzia, non quel che ci accomuna, in quanto singoli o gruppo. Come tenere insieme una società fatta di tante microsocietà, senza scatenare la guerra di tutti contro tutti?
Su questo tema, La regola del gioco dice molte cose intelligenti. Tuttavia in questo libro più che negli altri diventa evidente anche il punto cieco della raffinata costruzione intellettuale di Ventura: la sua radicalità ha un rovescio della medaglia curiosamente conformista e quietista, che rischia di diventare una mera difesa dello status quo. E se quel rovescio era di fatto già implicito nei libri precedenti, qui si mostra in piena luce.
Pluralismo radicale ed élite globalizzate
Con il web 2.0 il volume complessivo della comunicazione è esploso e l’unidirezionalità dei vecchi mass media è stata sostituita dalla possibilità per tutti di prendere la parola. Ciò ha aumentato la conflittualità e il disordine:
ormai è come se ogni aspetto della vita sociale fosse paralizzato dal veto incrociato di… praticamente ogni individuo. Ma vediamola in un altro modo: è come se tutte le persone che prima non avevano voce l’avessero infine ottenuta. Il risultato è un grande rumore di fondo. Abbiamo ottenuto quello che abbiamo cercato a lungo – la disintermediazione – e ora ci accorgiamo che non è poi così facile da gestire (pos. 1888).
Si ha l’impressione che “non si possa più dire niente”, semplicemente perché le persone che una volta non avrebbero avuto alcuno strumento per manifestare il proprio disaccordo o la propria indignazione, ora ce l’hanno: «insomma non vi lamentate se qualcuno reagisce sgarbatamente a un vostro giudizio sgarbato: è la libertà di espressione, baby» (pos. 1499).
Nell’infosfera i messaggi circolano velocemente, sottoposti «a ogni forma di deformazione, montaggio, semplificazione, rovesciamento, decontestualizzazione» (pos. 818), finendo in contesti lontani da quello originario, in comunità estranee o all’altro capo del mondo, dove i codici culturali possono essere molto diversi dai nostri e le nostre parole possono essere fraintese, possono offendere, possono infrangere un tabù. Viviamo in un mondo globalizzato, in cui tutti siamo potenzialmente connessi con tutti, ma anche tribalizzato, in cui il pluralismo dei valori è radicale e le scintille provocate dal contatto tra sistemi etici estranei possono appiccare un incendio.
Le parole non sono innocue, perché con le parole si fanno cose. Austinianamente, Ventura ci ricorda che i simboli non sono simboli, ma azioni sociali, con effetti reali. Negro è ‘solo’ una parola, ma quanta violenza e sofferenza porta in sé. Pertanto quando due comunità ermeneutiche che interpretano lo stesso segno vengono a contatto, occorre particolare cautela. Se, ad esempio, quella che per me è una vignetta satirica su Maometto per un’altra comunità è una forma di blasfemia, accusare il codice culturale altrui di arretratezza storica e oscurantismo rischia di essere indistinguibile da un gesto di disprezzo colonialista.
La cura nella comunicazione, prima del web 2.0, era il mestiere di pochi professionisti; oggi quasi tutti siamo tenuti a impararne le regole. Non solo a un politico o un influencer può capitare che un tweet o un post sbagliato costino la gogna social, delle minacce di morte, il licenziamento. Quelli che una volta erano privati cittadini oggi hanno ottenuto il diritto ai loro quindici minuti di celebrità, o di infamia. A poco servirà lamentare la “dittatura del politicamente corretto” una volta colpiti dalla vergogna di uno stigma; per cui, meglio prevenire, attenendosi a una cauta autodisciplina linguistica e imparando a riconoscere quali siano gli argomenti esplosivi.
Questioni che ancora oggi sembrano a molti meramente simboliche o di restyling verbale sono invece diventate fondamentali, in un mondo in cui tutto è comunicazione, packaging, rappresentazione e pochissimo è produzione materiale. Ecco perché la capacità di tenere il passo di quella che è una vera e propria nuova etichetta globale della comunicazione rappresenterà la faglia di distinzione tra chi ha capitale culturale e chi no, tra chi è un signore nato e chi un parvenu, tra chi è civile e chi ignorante. Sapersi destreggiare nella
complessa padronanza dei codici linguistici della società multiculturale – con le sue parole da dire e da non dire, i suoi neologismi, le sue accortezze – è già oggi un criterio di selezione delle élite internazionali (pos. 833).
Padroneggiare i nuovi codici culturali del politicamente corretto, della woke, del non offending language, per Ventura, rappresenta un formidabile acquisto di capitale simbolico da investire nella lotta per il riconoscimento, perché la classe disagiata che dà il titolo al suo primo libro (Teoria della classe disagiata, 2017) non soccomba al declino dei competenti che dà il titolo al suo terzo libro (Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, 2020).
Nuove guerre di religione
Ventura è un autore politicamente inclassificabile. Nelle pagine dei suoi libri Hobbes e la tradizione che da lui nasce sono onnipresenti. La società è un fragilissimo patto che tiene a bada la nostra natura di lupi. Se ci teniamo alla distinzione di Carlo Galli (Perché ancora destra e sinistra, 2013), questo sarebbe un tratto politico della destra: non credere a una visione antropomorfa e sostanzialmente fiduciosa dello Stato di natura, temerne anzi l’instabilità caotica e la mancanza di fondamento e ragionevolezza, per cui si rendono necessari strumenti di stabilizzazione del conflitto. Ma in altre pagine sembra di risentire certe forme di radicalismo intellettuale della sinistra novecentesca, che avvertiva che la rivoluzione non è un pranzo di gala. Nel suo vecchio pezzo sul massacro della redazione di Charlie Hebdo e poi in La guerra di tutti, Ventura fa un’osservazione che solo qualche liberale impenitente o repubblicano americano difensore della Western culture potrebbe rifiutarsi di ascoltare: abbiamo accolto, per sfruttarle, masse di immigrati attratte dal nostro benessere e le teniamo in quartieri degradati, a fare lavori sottopagati, rendendo improbabile nelle nostre scuole l’emancipazione dei loro figli, ma poi pretendiamo che rispettino i nostri valori ‘universali’ e ne riconoscano la superiorità. Così che quando il nostro diritto ‘assoluto’ alla satira produce vignette blasfeme per dei mussulmani, ingiungiamo a questi cittadini di serie B di scegliere tra il gridare in piazza al nostro fianco “Je suis Charlie” o di essere tacciati di filoterrorismo. Un bel mix di ipocrisia politica e presunzione culturale.
Secondo Ventura le società multietniche assomigliano di più all’Europa del Cinquecento che non a quella di appena cinquant’anni fa, i libertari anni Settanta, con la loro oltranza politica ed estetica. Pochi secoli or sono il principio della tolleranza consentì di spezzare la logica di vendetta delle guerre di religione, in cui sia i cattolici sia i protestanti pretendevano di essere depositari di una verità assoluta: oggi ci troveremmo in una situazione storica simile e sarebbe il caso di imparare da quella antica saggezza.
Ma c’è un dettaglio. L’interpretazione che Ventura dà del principio di tolleranza è profondamente anti-illuminista e anti-liberale: la libertà di espressione non è il diritto di offendere senza conseguenze un altro per la sua religione (o, oggi, identità), bensì il dovere di non offenderlo per la sua religione (o identità). Nello spazio pubblico il potenziale conflitto dev’essere neutralizzato, neutralizzando le offese: censurandole o almeno autocensurandosi. Ecco perché è necessario far «evolvere il vecchio ideale illuministico della libertà in una cultura della responsabilità e della tolleranza» (pos. 2438).
Per noi europei sarà una grande fatica, perché tutta la nostra tradizione moderna riconosce come limite alla libertà di espressione solo il diritto penale. Lo è meno per gli Stati Uniti, che certo hanno il loro Primo emendamento, ma che, osservava François Cusset in French Theory, sono pur sempre il paese nel quale anche gli accademici e gli intellettuali più radicali decostruiscono qualsiasi cosa, fuorché la religione. E infatti non è un caso caso, osserva Ventura, che oltreoceano le vignette satiriche, o blasfeme, di Charlie Hebdo, per le quali la redazione del giornale fu uccisa, non siano state mostrate dopo l’attentato. Il fatto è che le società multietniche assomigliano più ai vecchi imperi che non agli Stati-nazione moderni, con valori omogenei o almeno omogeneizzabili:
La prospettiva americana è diversa [da quella europea], perché è una prospettiva imperiale, secondo cui la società è composta da gruppi eterogenei e potenzialmente conflittuali, che bisogna evitare a ogni costo di sobillare (pos. 1927).
Disperazione politica e ultrapragmatismo interpretativo
Chiunque usi i social network sa bene che Ventura ha molte ragioni. Davvero, spesso vale la pena contare fino a dieci prima di condividere un contenuto o esprimere un’opinione. L’autocensura è solo una misura di responsabilità personale e di igiene collettiva. Aumentare il rumore di fondo non serve a niente. Entrare nel turbinio di spiegazioni e controspiegazioni, fraintendimenti e correzioni di tiro è estenuante. Imparare un’etichetta non è ipocrisia e spesso chi scalpita per la censura presunta è semplicemente un narciso che ritiene che quel che pensa sia decisivo per tutti. Ma alcune implicazioni del discorso di Ventura sono ugualmente problematiche.
Come ogni realista politico che si rispetti, egli è intimamente persuaso che «tutto quello che è stato per el passato ed è al presente, sarà ancora in futuro; ma si mutano e’ nomi e le superficie delle cose in modo, che chi non ha buono occhio non le ricognosce, né sa pigliare regola, o fare giudicio per mezzo di quella osservazione» (Guicciardini). Ma il difetto di ogni realista è di affezionarsi troppo all’opera di archeologo di invarianti storiche e di disaffezionarsi alle possibilità della politica: constatando che le cose stiano così e non possano stare altrimenti, il realista contribuisce a far sì le cose che staranno proprio così. È la famosa profezia che si autoavvera.
Proprio perché possiamo fare cose con le parole, non si capisce perché dovremmo attenderci sempre e solo il monotono effetto della gaffe, dell’offesa, dell’infrazione di un tabù. Suggerendoci di prestare attenzione al valore pragmatico del linguaggio, Ventura lo fa tout court collassare su quel solo valore.
Quando ad esempio racconta l’episodio della professoressa italiana che in una classe internazionale usa l’espressione “fare il portoghese” e per questo viene rimproverata da una studentessa francese perché l’espressione sarebbe offensiva, Ventura si preoccupa quasi esclusivamente del fatto che quella professoressa avrebbe potuto evitare di fare la figura «di uno zotico proveniente dalla periferia dell’Europa» (pos. 2058), perdendo l’occasione di dimostrare di aver imparato l’etichetta delle élite globali.
Dal momento che è l’autore stesso a ricordare che l’espressione non è affatto razzista, perché allude semplicemente al fatto che nella Roma del XVIII secolo i cittadini portoghesi fossero esentati dal pagamento del teatro e per questo i romani “facevano i portoghesi” per approfittare dello stesso beneficio, io mi preoccuperei piuttosto di difendere il diritto e il dovere di quella professoressa di fare una lezione di storia o di storia della lingua.
Convintosi che i segni siano sempre delle armi pronte a sparare e che questo rischio stia invadendo ogni interstizio del corpo sociale, Ventura non ammette che valga la pena provare a difendere almeno alcuni di quegli interstizi. Non contano le intenzioni, scrive a più riprese, solo gli effetti delle parole che pronunciamo. Non sarebbe mai possibile dire “non intendevo dire questo”, o “guardate che quella parola non significa ciò che credete”, dopo un fraintendimento.
Io invece penso che il rapporto pedagogico sia uno di quegli interstizi, tra gli altri, nel quale le intenzioni valgono eccome e che un professore che abbia dalla sua un po’ di reputazione dovrebbe investire parte di quel suo capitale simbolico, invece che per sopravvivere nella lotta darwiniana della circolazione delle élite, per ricordare agli studenti che la classe è un luogo (relativamente) altro rispetto al mondo feroce in cui vige la regola del gioco. In questo spazio protetto è ancora possibile non fare cose con le parole, disattivandone la dimensione pragmatica, per goderne la dimensione estetica o per studiarne quella storica.
Credo che valga anche la pena difendere scuole e università dalla minaccia incombente di policy burocratiche che pretendano di sanzionare gli effetti e non le intenzioni delle parole, le ‘microaggressioni’ fondate sul senso ‘percepito’ soggettivamente e non su quello condiviso intersoggettivamente.
Ed è proprio questa dimensione intersoggettiva ad essere sempre sottovalutata dal nostro autore, per disperazione politica e per una concezione ultrapragmatista dell’interpretazione. Quando ad esempio scrive che «ogni messaggio ha infinite interpretazioni» (pos. 2682) o che il conflitto delle interpretazioni è una «guerra ermeneutica di tutti contro tutti» (La guerra di tutti, p. 54), Ventura radicalizza alcuni principi del pragmatismo ermeneutico, andando oltre persino Stanley Fish (C’è un testo in questa classe?, 1980), il quale, proprio per ovviare al paradosso prodotto dalla sua teoria – se ogni interprete costruisce il proprio senso, come possono questi sensi alternativi confrontarsi tra loro? –, dovette reintegrarvi il concetto di «comunità interpretative». Della “infinita” interpretabilità di un testo si dà, guarda caso, un’altra interpretazione, meno disfattista: due interpretazioni perfettamente uguali in effetti non esistono, ma, a volte, esse differiscono per sfumature non decisive ed è perciò possibile porle tra loro in dialogo.
La difesa dello status quo
La regola del gioco è un galateo e in effetti è lo stesso autore (in questa intervista) a richiamare i trattati rinascimentali e barocchi sulle buone maniere come modello di scrittura. Eccezion fatta per Baldassarre Castiglione, che mantiene una certa fiducia umanistica nella realizzabilità del perfetto cortigiano (ma la figura è proiettata nostalgicamente in una corte dell’età precedente, ormai perduta), gli altri trattati sono in effetti fondati su un pessimismo antropologico che ritroviamo anche in Ventura.
Quando ad esempio Della Casa osserva che le «cirimonie» (Galateo XIV) sono manifestazioni esteriori e false, e tuttavia l’uso della società le prescrive e occorre sottomettervisi pur non credendovi, non siamo molto lontani dall’idea di Ventura che l’etichetta oggi questa sia, prendere o lasciare.
Ne La regola del gioco si menziona Torquato Accetto ed effettivamente l’idea di una dissimulazione onesta è molto simile a un’idea che nei testi di Ventura circola: il mondo è opaco, gli esseri umani si comprendono tra loro solo attraverso mille mediazioni e maschere, che possono apparire ipocrite ma che in realtà sono la nostra unica possibilità di contatto.
Il fatto è che estintasi la possibilità – romantica, utopistica – di un incontro tra simili non alienato, a noi tardomoderni non resta nemmeno la consolazione di Accetto, che era convinto dell’esistenza di un aldilà in cui tutto sarebbe finalmente stato trasparente e giusto. Le buone maniere, senza un ideale, o una trascendenza, a sostenerle, diventano ben presto maschere del potere, incapaci perfino di addolcirlo o moderarlo, come crede Ventura, perché esse stesse si fanno strumento di lotta: le Massime di La Rochefoucauld insegnano.
Nel film di Patrice Leconte, Ridicule (1996), viene messa in scena quella società aristocratica d’ancien règime in cui le buone maniere, la capacità di conversare brillantemente evitando gli argomenti scivolosi (su tutti la religione), i motti di spirito e i duelli verbali non sono affatto in grado di mascherare la spietata competizione per il capitale simbolico. Il cadere nel ridicolo e il venire socialmente estromessi dalla corte e dai salotti è l’equivalente delle shitstorm de La regola del gioco. Ma descrivere questo mondo non equivale a doverlo accettare.
Ecco perché mi sarebbe piaciuto che Ventura introducesse nel suo ragionamento una distinzione. Al netto dei quindici minuti di celebrità o d’infamia a disposizione di tutti noi, non si possono confondere l’utente qualunque della rete che per incompetenza dei codici comunicativi scrive una frase censurabile e chi come gli spin doctor dei politici, le aziende e le agenzie di pubblicità sfruttano scientemente quei codici per virtue signalling e per profitto. Insomma: il potere non si manifesta uniformemente in tutto il corpo sociale.
Ma Ventura tutto ciò lo sa bene, tanto che appena pochi anni fa scriveva:
Il Politicamente Corretto […] fallisce nella sua funzione primaria: invece di pacificare, fornisce nuovi e infiniti pretesti di conflitto. Individuando vittime a tutti i livelli, individuando aggressioni e microaggressioni dietro ogni scambio comunicativo, […] ha finito per diventare una teoria della “guerra giusta” alla portata di chiunque; […] il problema è che l’elenco dei trigger (grilletti) è soggettivo e potenzialmente infinito. E nel momento in cui si decide di rendere safe la stampa o l’università si mette in crisi la loro capacità di trasmettere ed elaborare il sapere (La guerra di tutti, pp. 263-264).
Ma ne La regola del gioco egli ha preferito lasciare in ombra questi acuminati affondi, scegliendosi il ruolo del pedagogo dellacasiano, quel «vecchio idiota»i che impartisce al giovane un triste insegnamento mondano fondato sul quieto adattamento alle convenzioni sociali.
i Fiducioso nelle possibilità di andare oltre gli effetti immediati delle parole e il primo significato d’uso che li caratterizza, ricordo che così è definito nel trattato il maestro di etichetta che impartisce le proprie lezioni al giovane allievo. Tale espressione ha valore etimologico: ‘idiota’ significa semplicemente ‘che non ha studiato’, in omaggio all’idea che le buone maniere siano qualcosa di cui si fa esperienza pratica e non scolastica.
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