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“Negli occhi e nella mente”. Le Operette morali di Paolo Volponi

Il 2024 è il centenario della nascita di Paolo Volponi. Al di là dei rituali accademici, è l’occasione per la verifica dell’“attualità” dell’autore: del suo pensiero, dei suoi testi poetici e narrativi, della sua voce. Volponi sembra divenuto inattuale: quasi espulso dalle antologie scolastiche, relegato a una “nicchia” dall’editoria (benché Einaudi ne abbia di recente riproposto le poesie e Il sipario ducale). La voce di Volponi, per chi l’ha ascoltata, conserva tuttavia un timbro memorabile: una creaturalità ritmica sempre sospesa fra l’invettiva e l’utopia, fra la tenerezza e la rabbia. La sua scrittura, figlia di quella vocalità, mescola lo statuto dei versi con quello della prosa e sembra possedere, per carica figurale, qualcosa di antagonista e di detonante. Come le sue ultime parole, pronunciate in dialogo con l’amico Francesco Leonetti subito dopo la vittoria di Berlusconi (Il leone e la volpe, dialogo nell’inverno 1994):

Certo ci vuole un soggetto sociale che sia l’antagonista, moltiplicato, in tutto il mondo, e qui, nella città o nel Paese; quello stesso che è dentro ogni lavoro, dove si conosce lo sfruttamento… E occorre arrivare a lui. E occorre sempre chi cerchi di arrivare con la critica fino a lui, insieme a lui stesso. Negli occhi e nella mente.

La scrittura dell’ultimo Volponi ha dato una forma a questa immaginazione utopica e figurale attualizzando, tra gli altri, il più materialista e irriducibile autore della nostra tradizione: il suo conterraneo Giacomo Leopardi e il modello dialogico, ironico e fantastico delle Operette. Il pubblico di oggi, stordito dallo storytelling dei vincitori, tende a percepire i romanzi volponiani (da Memoriale a Corporale) come “difficili”, troppo sperimentali o troppo ideologici. Per sbaragliare questa percezione banalizzante, basta rileggere due brevi operette morali incastonate nel tessuto del suo ultimo grande libro, Le mosche del capitale (1989). Entrambe danno voce a personaggi non umani: il calcolatore elettronico, espressione del capitale finanziario e protagonista della ristrutturazione robotica dei reparti industriali, dialoga con la Luna o con i Ficus aziendali. Già nell’incipit delle Mosche, del resto, oggetto di una acuta lettura di Pier Vincenzo Mengaldo, il dirigente Bruto Saraccini da una collina guarda la città di Bovino in una notte in cui anche la Luna è ridotta a “satellite che schizza di telefonate intercontinentali” mentre ovunque le cose, gli animali e le piante sono “parlate” dalla logica del profitto e dal “metabolismo dell’impresa”.
La grandezza della scrittura di Volponi consiste nel trarre lampi poetici e epici dalla sconfitta del movimento dei lavoratori e dalla vittoria imperiale del capitale: prefigurazione, già a fine Novecento, del dominio odierno in cui scuola e università sono del tutto aziendalizzate, il lavoro del tutto precarizzato, la guerra del tutto legittimata e invocata dall’autoritarismo neoliberista. Le figure di pensiero di Volponi nel secondo novecento sono le sole capaci di trarre scintille poetiche dalla precoce profezia di questa nostra tragedia.
Nel primo dei due dialoghi, nell’ufficio direzionale, la Luna prende la parola e risponde alle domande incalzanti del calcolatore che, senza mai dormire, regola e gestisce i flussi finanziari.

– Anch’io guardo correre il mondo, i suoi capitali, e influenzo l’uno e gli altri con dati e proiezioni. Tu sai che una navicella è atterrata su di te? Con tre uomini a bordo? Ed è già ripartita?
– Una navicella giunta in volo dalla terra e che poi vi è ripartita? – Sì, con navigatori a bordo, tornati in buona salute. Hanno parlato bene di te. Veramente più di se stessi che di te. Ti hanno vista soprattutto come un traguardo, una misura già presto superabile. – Ma perché sono venuti?
– Appunto, non certo per toccare il tuo viso, ma per prepararsi ad andare ancora più lontano.
– Ah, dunque, nel loro solito modo. Dovevo immaginarlo.

L’allunaggio della navicella Apollo diviene allegoria di una colonizzazione che consente al terminale di affermare il proprio potere, ma che permette alla Luna di esprimere una sua verità anti-antropocentrica sulla sorte degli uomini, costantemente “inquieti” e “infelicemente indaffarati”, servi del mito dell’innovazione.
Nella seconda operetta, il terminale afferma la sua superiorità artificiale sulle piante che ornano gli interni aziendali:

No, anche voi siete tradizionali e inutili, ancora più che ingombranti – intervenne con istantanea solennità il terminale. – Siete il segno di una stagione dell’industria: piante nane da relazioni umane. (…) Siete ancora proiettati sulla trattativa, sulle mediazioni secondo le infiltrazioni politico-sociali e anche sentimentali. Non siete nemmeno patrimoniali, convertibili, frazionabili e non potete agganciarvi alla velocità del capitalismo odierno e favorire la sua assoluta astrazione. Siete ancora veri, perfino vivi.

Del resto, anche l’intero Pianeta irritabile (1978), il romanzo “fantascientifico” di Volponi, può essere considerato un’operetta di specie leopardiana sulla consunzione atomica del mondo. Quasi tutti i protagonisti sono animali parlanti, sopravvissuti alla distruzione del loro circo: l’elefante Roboamo, il babbuino Epistola, l’oca Plan Calcule e il nano Mamerte. A ben guardare, non si tratta tanto di una distopia quanto di una utopia concreta, nel senso di Ernst Bloch, della ricerca cioè – fra le latenze del mondo distrutto dalla guerra nucleare – di una verità biologicamente fondata capace di sopravvivere al pervertimento della ragione aziendalista, alla falsificazione imprenditoriale e militare e al loro esito geoclastico e di fondare, oltre l’umano, nuovi rapporti elementari. I dialoghi fra Mamerte e Roboamo scandiscono le tappe dell’iniziazione del nano all’animalità comunitaria: inizialmente l’elefante invita il nano a privarsi della nostalgia e della brama di possesso; verso la metà del viaggio, incalzato dall’ironia pedagogica di Roboamo, il nano sembra guardare con sarcasmo misto a nostalgia al suo stato precedente:

– Io sono stato un uomo, – concluse Zuppa.

– Bel lavoro, – gli rispose Roboamo tra i monconi delle zanne, gialli come il cerchio più rotondo e più giallo intorno al culo di Epistola.

Nella solennità rituale della pagina conclusiva, l’apprendistato di Mamerte ha termine e la sua mutazione può dirsi conclusa. Le mani con cui poteva forgiare ordigni sono divenute zoccoli e anche il suo più intimo oggetto privato, una poesia d’amore scritta su un foglio di riso, diventa “pane comune”.
In esergo del Pianeta spicca la citazione dagli appunti di Leopardi, gli Esercizi di memoria, mentre il conclusivo segnale cosmico della «caduta della luna di mezzo» rinvia al Frammento XXXVII dei Canti. Insomma: il leopardismo di Volponi preannuncia “negli occhi e nella mente” il nostro futuro e crea un cortocircuito fra diverse temporalità dando voce, nell’era in cui viviamo, alla forza e alle ragioni dei conflitti sociali del Novecento e alla naturalità coraggiosa del materialismo lucreziano.

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