Per Abraham Yehoshua
Alcuni dei capolavori di Abram Yehoshua (Un divorzio tardivo, Il signor Mani, La sposa liberata, Il responsabile delle risorse umane) attestano con il loro valore che la grande letteratura, tra fine secolo e nuovo millennio, è ben viva – a dispetto del cinismo e dell’euforia tecnologica che la vorrebbero morta e sepolta o indistinguibile dalla banalità e dall’intrattenimento. Con Amos Oz, Yehoshua è stato fra gli scrittori israeliani più noti nel mondo e tra i più sensibili alle lacerazioni collettive: tanto da far supporre un nesso fra i luoghi planetari del conflitto e il valore delle opere contemporanee (cfr. P.V. Mengaldo, Giudizi di valore).
A dispetto delle iperboli stucchevoli delle fascette di copertina (straordinario! irrinunciabile! Potente! imperdibile! appiccicate a ogni nuova mediocrità), la critica letteraria dovrebbe argomentare pacatamente, a beneficio dei lettori, i propri criteri di giudizio, indicando cosa valga la pena leggere e perché. A esempio, la grandezza del penultimo romanzo di Yehoshua, Il tunnel (Einaudi, 2018) si apprezza a partire dalle sue costanti, tematiche e formali, che lo legano ai romanzi precedenti: la polifonia delle voci, il viaggio allegorico, la risoluzione in simboli dei problemi etici, l’accostamento delle questioni decisive della vita individuale a quelle planetarie. Il protagonista Zvi Luria è un ingegnere stradale in pensione che inizia a mostrare i primi sintomi della demenza senile: non riconosce le persone e sbaglia i nomi. La moglie Dina lo sprona a trovarsi un’occupazione per rallentare il progresso della malattia: finisce quindi nel Sud di Israele a fare da aiutante a un giovane tecnico incaricato dal governo di costruire una strada segreta e si trova coinvolto in una vicenda che riguarda una piccola comunità di palestinesi senza documenti.
Il tunnel ripropone, negli anni più vicini a noi, il problema centrale dell’intera opera di Yehoshua: la responsabilità del romanzo. Il testo letterario per questo scrittore è il dispositivo che suggerisce delle vie inattese per affrontare (e non solo per rappresentare) il conflitto fra i popoli che abitano una medesima terra e deve saper immaginare gli attraversamenti dei confini (sia concreti che simbolici). Un compito così alto assegnato alla letteratura, attivo fin dai racconti giovanili La morte del vecchio o Di fronte ai boschi, si basa sull’accostamento della ricerca del senso in campo privato e in campo pubblico: nel Tunnel l’ingegnere Luria muove dal tentativo di ostacolare con il lavoro stradale il progredire della sua personale malattia, ma anziché abbattere le case della comunità palestinese finisce per realizzare un tunnel al di sotto della collina; ne La sposa liberata il professor Rivlin cerca la verità nascosta dietro il divorzio del figlio ma al contempo si ritrova ad indagare le motivazioni profonde del terrorismo algerino; l’idea ossessiva di Josef nel Signor Mani è che i palestinesi siano degli ebrei rimasti su questa terra, successivamente convertitisi all’Islam e, analogamente, nel Tunnel si afferma che «i palestinesi sono ebrei che hanno dimenticato di esserlo». Si tratta di paradossi grazie ai quali gli arabi sono percepiti come parte integrante e irrinunciabile della vita quotidiana e dell’identità di Israele e che, più in generale, alludono all’unità problematica del genere umano.
I migliori romanzi di Yehoshua sono grandi perché sbaragliano facili dicotomie di lunga durata: negli ultimi decenni è ancora una questione aperta nel senso comune culturale se la letteratura debba stare dalla parte del Bene o debba assumersi la libertà della rappresentazione spregiudicata del Male, come dimostrano a esempio le opposte prese di posizioni, etiche o ciniche, di Martha Nussbaum o di Michel Houellebecq. La scrittura di Yehoshua è capace di mediare pazientemente fra questi due poli (autonomia e eteronomia delle arti, letteratura e responsabilità, funzione estetica e funzione pedagogica) oltrepassando la dicotomia imposta dal senso comune: infatti, in una ben riuscita finzione letteraria, si combinano sempre il bene e il male, insieme al vero e al falso, a dosaggi diversi, tanto che gli oltranzisti cinici del piacere del Male in letteratura possono talvolta rivelarsi non meno psicopoliziotti dei moralisti più accaniti.
Se l’opera intera di Yehoshua è interpretabile nel quadro di una riflessione non manichea sui rapporti fra etica e narrazione (cfr. Il potere terribile di una piccola colpa. Etica e letteratura,1998) i molteplici sensi dei suoi testi sono nascosti tuttavia nei dettagli più minuti e più enigmatici, nelle figure sospese fra natura e cultura: il fiume Giordano visto dal tetto di un grande ospedale, i cellulari dimenticati che vibrano nel deserto, annusati dalle volpi, i cervi tra le rocce e i bulldozer del cratere Ramon, i codici del sistema d’allarme tatuati sul braccio di un vecchio smemorato. Del resto, le tematiche più attuali non sono mai trattate da Yehoshua in modo didascalico ma viceversa mediante una scrittura polifonica che moltiplica le voci mettendo a frutto e attualizzando la grande lezione di Faulkner e del romanzo modernista. La ricerca formale nei suoi libri non è affidata a un monologo ideologico ma all’intreccio vocale: Il signor Mani consiste di impareggiabili dialoghi in cui compare una sola delle due voci mentre l’altra è omessa dalla narrazione, Un divorzio tardivo è seminato di monologhi interiori, Il responsabile delle risorse umane fa posto ai cori. Il personaggio più enigmatico del Tunnel – la ragazza dal doppio nome che con la sua indipendenza e la sua fragilità convince l’anziano ingegnere Luria a costruire il tunnel – è per certi versi accostabile a Julia Regaev nel Responsabile delle risorse umane, immigrata uccisa in un’azione kamikaze, enigma del desiderio che spinge il dirigente di una fabbrica di Gerusalemme, incaricato ad accompagnarne il corpo in una delle repubbliche ex-sovietiche, a invertire il tragitto, a riportare a Gerusalemme la bara e il figlio della vittima perché questa Città allegorica “appartiene a tutti”.
Per queste ragioni, insomma, si può immaginare che la scrittura di Abram Yehoshua resterà, oltre la morte dell’autore: per la capacità narrativa di costruire equivalenti formali dei conflitti che ci appartengono.
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