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diretto da Romano Luperini

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Risalire e ridiscendere i Tre piani di Eshkol Nevo

 IL CONDOMINIO

In attesa che Nanni Moretti ci conduca per i Tre piani del suo nuovo film (nelle sale in aprile), entriamo con le parole di Eshkol Nevo nel condominio elegante e discreto nella periferia residenziale di Tel Aviv.

…al primo piano risiedono tutte le nostre pulsioni e istinti, l’Es. Al piano di mezzo abita l’Io, che cerca di conciliare i nostri desideri e la realtà. E al piano più alto, il terzo, abita sua altezza il Supero-Io. Che ci richiama all’ordine con severità e ci impone di tenere conto dell’effetto delle nostre azioni nella società. (p.192)

La celebre triade freudiana disegna l’architettura del romanzo (Neri Pozza, 2017; traduzione di O.Bannet e R.Scardi) e dispone – appunto – su tre piani le vicende dei tre protagonisti e implicitamente delle loro famiglie e degli altri inquilini.

Al primo piano vive una giovane coppia. Arnon, un designer rampante, e Ayelet, una impegnata avvocatessa, hanno due bambine, Ofri e Yaeli: la prima acuta, determinata e silenziosa; la seconda, semplice e con qualche problema di salute. Per fronteggiare le difficoltà logistiche (e non solo), Arnon e Ayelet hanno preso l’abitudine di affidare Ofri ai vicini di casa, due anziani, marito e moglie, i cui nipoti vivono lontani da Israele e non si vedono che raramente. Hermann e Ruth, distinti, educati, disponibili, conquistano subito la fiducia dei giovani e l’affetto della piccola Ofri, verso la quale Hermann si mostra particolarmente tenero. Finché un giorno Hermann, l’ex ragazzo più bello del kibbutz (p.16), quello che cambia(va) le ragazze come i calzini (p.17), sparisce con la bambina, innescando ricerche angoscianti: Hermann infatti da qualche tempo manifesta i segni dell’Alzheimer. Il gigante e la bambina vengono ritrovati in un frutteto, ma questo non allenta l’angoscia di Arnon il quale, osservando i comportamenti della figlia, inizia a sospettare che Hermann le abbia usato qualche violenza. Il pensiero diventerà ossessione e non si arresterà nemmeno di fronte all’avanzare inesorabile, nel vecchio, della malattia, travolgendo Arnon fino a trasformarsi da inquisitore in inquisito: la nipote minorenne di Hermann, una sorta di Lolita parigina, lo accuserà di abusi.

Il secondo piano è abitato da Hani e dai suoi fantasmi: i conoscenti malignamente la chiamano la vedova (p.88), perché il marito, Assaf, con enorme frequenza è costretto all’estero dagli impegni di lavoro. La giovane donna dunque, grafica di un certo successo, ha abbandonato la sua professione e gestisce in solitudine i due figli piccoli e la routine quotidiana, assediata dal pensiero asfissiante della madre, che la follia confina in un ospedale psichiatrico. Un giorno, mentre il marito è in viaggio d’affari, si presenta alla sua porta il cognato Eviatar: non si vedono da anni perché fra lui e Assaf non corre buon sangue, ma l’uomo, stretto nella morsa di pericolosi creditori, ha bisogno di qualcuno che lo nasconda per qualche giorno. Hani acconsente, approfittando della assenza dei vicini, il cui appartamento le è stato in qualche modo affidato per lo spazio breve della loro vacanza. Nonostante si muovano entrambi con grande circospezione, fra i due si istaurano presto dinamiche familiari e una certa complicità: uscita di sicurezza dalla solitudine, o forse solamente vicolo cieco di una mente malata.

Una vedova abita realmente il terzo piano: è Dvora, un giudice in pensione. Non è solo l’affetto o la professione, condivisa per tanti anni, a tenere saldo il legame tra lei e Michael, il defunto marito: la donna – colta, intelligente, ancora affascinante – nutre nei suoi confronti una sorta di soggezione che ne ha condizionato le scelte e perfino i rapporti con loro figlio, Arad; il quale, ragazzino difficile, ormai adulto e segnato da un reato gravissimo, ha troncato ogni contatto con i genitori, sino al punto da non presentarsi nemmeno ai funerali del padre. E tuttavia, libera ormai dai vincoli del matrimonio come della professione, Dvora decide di fare quello che tanto la deontologia professionale quanto le regole non scritte della vita matrimoniale le hanno impedito fino a quel momento: partecipa a una manifestazione di protesta per le vie di Tel Aviv; ma ha un mancamento e viene condotta nella tenda dove alcuni psicologi svolgono attività di ascolto. E lì, in quel salotto casuale, costantemente turbato dai clacson (p.171), ha inizio per Dvora un percorso doloroso di recupero del suo passato, raccontato al marito in un dialogo-monologo affidato al nastro di una vecchia segreteria telefonica. Sarà l’incontro, solo apparentemente fortuito, con il misterioso Avner Ashdot, a condurla all’ultima, imprevedibile tappa di quel percorso: maturo, azzimato, ricco, imperturbabile, Ashdot riporterà Dvora da suo figlio Arad. E la convincerà a vendere il suo appartamento al terzo piano.

Da quell’appartamento, tuttavia, Dvora è l’unica a spostarsi anche in verticale: percorre infatti tutti i piani del condominio cercando compagnia per recarsi alla manifestazione e sollecitando chi nemmeno si sforza di pagare le spese condominiali a dimostrare una solidarietà sociale più ampia (p.162). Il movimento inquieto del giudice spezza la linea chiusa su cui segretamente si annodano «le vite degli altri»: ci richiama all’ordine con severità e ci impone di tenere conto dell’effetto delle nostre azioni nella società. Così il lettore scopre che Ruth fatica ad elaborare il lutto per la morte di Hermann, che Arnon si consegna supplice ad Ayelet, che Hani ha davvero ospitato Eviatar e molto altro ancora.

DENTRO L’ARCHITETTURA

Ridiscendere e risalire i tre piani non è però soltanto l’escamotage narrativo per raccordare tre episodi apparentemente privi di connessioni: Dvora che bussa agli appartamenti, o si trattiene dal farlo intercettando movimenti anomali o discorsi sommessi, mette alla porta il lettore-voyeur e lo costringe a spiare, a origliare da fuori ciò che crede di sapere per averlo appreso da dentro; e che invece non sa. A far dubitare il lettore di sé, di quel che ha letto, è proprio la modalità particolare attraverso la quale, nella sua mente, si è disegnata l’architettura del condominio: non è stata la mano precisa ed esperta di un unico narratore-architetto a tracciarne i contorni, ma il racconto tutto in soggettiva dei suoi abitanti. Racconto mediato, peraltro, perché mai i tre narratori si confessano apertamente al lettore, ma sempre si servono di un filtro. Arnon, seduto al tavolo di un piccolo ristorante, rovescia la sua storia su un suo amico, autore notissimo di bestsellers, chiedendogli di scriverla in un romanzo e perfino di trovarle l’happy ending; e aspetta pure che se lo inventi, l’happy ending (p.69), mentre l’amico termina la bistecca durante quella che Arnon chiama la sua ultima cena (p.68). Hani, invece, dopo aver appreso della morte della sua psicologa, rimasta priva della sua unica interlocutrice, scrive una lunghissima lettera a Neta, sua compagna di giovinezza, amica-rivale, alter-ego, proiezione dei suoi desideri: l’amica infatti – composta, misurata, emancipata – vive e lavora in USA, con un marito premuroso e presente. Dvora, infine, affida il suo racconto a una vecchia segreteria telefonica sulla quale è ancora registrata la voce del marito, al quale immagina dunque di parlare:

Era un anno che non sentivo questa voce. In realtà anche di più. Durante le ultime settimane di vita la voce ti era cambiata: era più morbida. Meno intransigente. Con l’avvicinarsi della morte, eri più disponibile a considerare l’eventualità di essere in errore. Di esserti sbagliato fin dall’inizio.

Ma dalla segreteria proveniva la tua vecchia voce. E quando hai finito di parlare si è sentito un bip, seguito da un lungo silenzio: un vuoto in attesa di essere riempito. (p.159-160).

Queste parole sono il grimaldello che scardina l’architettura freudiana del romanzo, apparentemente così solida. La ricerca di sé e della propria identità individuale e sociale, che sembra l’impulso del movimento narrativo, si risolve per lo più nel moto circolare e autoreferenziale con cui Arnon, l’inquilino del primo piano, e Hani, l’inquilina del secondo, si avvitano sulle loro pulsioni e sulle loro angosce; e, come abbiamo visto, quel moto parrebbe faticosamente spezzarsi solo in virtù del movimento verticale del giudice Dvora, che – da giudice, appunto – impone di tenere conto dell’effetto delle nostre azioni nella società. Ma a definire l’identità della persona non è sufficiente né la circonferenza del microcosmo individuale (pulsioni, traumi, vissuto), né la linea verticale che impone il recupero della propria funzione sociale (ruolo familiare, professione, impegno civile): quello che manca, il vuoto in attesa di essere riempito, giace sulla linea orizzontale della relazione con l’altro-da-sé. A poco serve insomma percorrere corridoi e scale, se, contemporaneamente, non si prova ad attraversare il pianerottolo che separa le storie dei singoli le une dalle altre. E’ l’approdo di Dvora, e anche del romanzo:

Capisci, Sigmund Freud era un uomo molto intelligente ma ieri sera, dopo aver terminato l’ultimo volume dell’opera omnia e averlo posato sul comodino, ho pensato che un errore l’ha fatto. I tre piani dell’anima non esistono dentro di noi. Niente affatto! Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia. E se non c’è nessuno ad ascoltare, allora non c’è nemmeno la storia. Se non c’è uno così, a cui svelare segreti, con cui sciorinare ricordi e consolarsi, allora si parla con la segreteria telefonica, Michael. L’importante è parlare con qualcuno. Altrimenti, tutti soli, non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare nel buio, nell’atrio, in cerca di un pulsante della luce. (p.253).

Se non c’è uno così, a cui svelare segreti, con cui sciorinare ricordi e consolarsi, allora si parla con la segreteria telefonica, o con un amico che trasfiguri il nostro racconto in romanzo, o con un’amica così lontana da non poter intervenire, non per lettera, non per email: Nevo ha scritto un grande romanzo sulla solitudine, sulla incomunicabilità, sulla identità impossibile di un’umanità sola.

GENITORI: ARCHITETTI ALLO SBARAGLIO

Professionisti borghesi, benestanti, istruiti, i protagonisti del racconto di Nevo hanno, nella loro condizione socio-culturale, un’aggravante paradossale, giacché né la professione, né il benessere, né la formazione costituiscono strumenti capaci di illuminare il buio, nell’atrio, e di rintracciare, a tentoni, nient’altro che la porta di casa propria. Anzi, si direbbe, nemmeno quella: dietro ciascuna di quelle porte ci sono storie di genitori che, di fronte alla prova difficile e tutta privata della maternità e della paternità, si mostrano smarriti, incapaci di rappresentare per i loro figli non solo un ponte con l’esterno, ma anche il muro portante della dimensione familiare.

Così Arnon e Ayelet:

Prima della nascita di Yaeli, io e Ayelet litigavamo di continuo sull’educazione di Ofri. Lei diceva che rovinavo la bambina. Io ribattevo, ma che dici, è un tesoro di bambina, è un angelo. Con l’entrata di Yaeli nel sistema famiglia abbiamo trovato un po’ di equilibrio. Un tavolo a quattro gambe è più solido. Eppure, sentivo ancora che era indispensabile restare in zona per proteggere Ofri. Perché Ayelet non fosse troppo aggressiva con lei. Non le causasse danni irreparabili. (p.19)

Così Hani e Assaf:

Per inciso, (Assaf) è tornato al lavoro dopo quattro giorni. Okay, non mi aspetto che ci spartiamo la maternità al cinquanta per cento. Israele non è la Norvegia. Ma non potresti restare a casa che so, una settimana, per solidarietà? Telefonare almeno cinque volte al giorno dal lavoro per chiedere come sto? Come me la passo? Se è già cominciata la depressione post partum? (p.83)

E Dvora ha ancora vivo dentro di sé il ricordo di quella stessa depressione che le sembra di leggere in Hani:

Perché le sensazioni che aveva descritto non mi erano poi tanto estranee. Anch’io mi sentivo così alla fine del congedo di maternità. Per questo sono tornata in tutta fretta al lavoro. Sentivo che dentro di me qualcosa si andava perdendo durante quelle lunghe ore in casa. Che la rinuncia si andava diffondendo negli interstizi tra i miei organi interni. (…) Era spaventoso, e quanto mi sentivo in colpa… (p.165)

E per questo parla così a Michael, come lei genitore imperfetto:

Cretino, hai detto ad Adar. Sei un cretino completo. Non posso credere di avere un figlio così cretino.

Sai, Michael, la distanza del tempo chiarisce le cose: non c’era amore sotto la collera, quando l’hai detto. Di solito, al disotto della rabbia di un genitore si sente, ascoltando attentamente, anche l’amore. Durante gli anni in cui ti avevo convinto a controllarti di fronte a tutte le malefatte di Adar, la collera era cresciuta e ha incrostato la tua anima, fino a ricoprire interamente il buono. Tutte le dirigenti scolastiche davanti alle quali ti sei dovuto prostrare (…) affinché non espellessero Adar dalla scuola; tutti i rimproveri che ci toccava subire dagli altri genitori; tutti i consigli in tono condiscendente; (…) tutte le volte che gli abbiamo detto, questa è l’ultima, figlio, la prossima ti affibbiamo una punizione coi fiocchi, i l processo che gli hai fatto (…) a otto anni, e la risatina di scherno che gli è uscita quando hai ordinato la punizione (…); il continuo fallimento nel capirlo, nel calmarlo, nell’avvicinarlo a noi… (…). Tutta quella flagellazione reciproca, mai nominata ad alta voce ma pensata, pensata eccome, è così per colpa tua. (p.218-219)

Ma Tre piani non è un consultorio familiare, costruito come dépendance discreta accanto alla rispettabile palazzina, né l’autore si assume il ruolo dello psicologo da rotocalco, che ripeta, per dirla con Hani, i soliti cliché: Es, Ego, sua madre, lei come se la vive e mi parli della sua esperienza (p.73). La narrazione poggia piuttosto su segrete simmetrie fra le storie: se Dvora si sente vicina alla più giovane Hani, Hani ha in comune con Ayelet un rapporto difficile con la madre e Ayelet con Dvora l’inconfessabile rifiuto dei figli; se Arnon cede a quel che ha temuto per la propria stessa figlia, alla pulsione sommersa, censurata, di possedere una vergine, precipitando nell’abisso del desiderio inconscio, non meno inconscio e ancestrale, benché nascosto sotto la toga del giudice, è il desiderio di Micheal, novello Laio, di prevalere sul figlio Adar, costretto al ruolo di Edipo anche da una inconsapevole (o tardivamente consapevole) Dvora-Giocasta:

Il primo anno dal distacco (dal figlio Adar), non passava un minuto senza che pensassi a lui: dove sarà? Cosa starà facendo? Cosa mangia? Ricordi che all’epoca hai avuto paura che io avessi un amante? Che sostenevi che “non ero con te” mentre facevamo l’amore? Adesso finalmente te lo posso dire: effettivamente non ero con te. Ero con lui. Chiudevo gli occhi mentre tu mi stavi disteso sopra e provavo a immaginare dove dormiva Adar. (p.208-209)

Sono queste simmetrie a chiedere finalmente un piano orizzontale su cui dispiegarsi, su cui finalmente gli individui possano incontrarsi, nella certezza di un segreto comune, quello che tutti tentiamo di nascondere al mondo: il segreto della nostra vulnerabilità (p.165).

Dolcissime come un lenitivo risuonano allora le parole di Hani:

Nei miei pochi attimi di tranquillità, penso che una cosa di cui sono veramente orgogliosa come mamma è il fatto di aver insegnato ai miei figli che l’amore si trasmette ai figli innanzitutto tramite il contatto fisico. Li vedo quando salutano gli altri bambini. Sono sempre loro ad abbracciarli per primi. A volte è un po’ ridicolo, l’altro bambino non capisce e rimane lì a braccia penzoloni, però a me si riempie il cuore di gioia. Perché? Perché almeno in questo sono riuscita a spezzare la catena. Mia nonna non abbracciava mia madre, perciò la mamma non abbracciava me. Io invece abbraccio Liri. E così lei abbraccerà sua figlia. (p.109)

La catena si può spezzare. Se non altro, l’umanità può salvarsi dalla némesis.

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