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Il romanzo di Donnarumma, La vita nascosta

Raffaele Donnarumma è uno dei critici più brillanti e preparati della nuova generazione (basta ricordare il meritato successo, pochi anni fa, del suo libro sull’ipermoderno). Ha scritto un bel romanzo, La vita nascosta, ma pochi se ne sono accorti e ne hanno parlato. Può darsi che il quasi sconosciuto editore che lo ha pubblicato (Il ramo e la foglia, Roma) poco abbia fatto per promuoverlo, ma il silenzio dei critici di professione comunque stupisce (o forse no, a pensarci bene).

La ragione sta forse in questa confessione dell’autore (il romanzo è scritto in prima persona): «Se mi devo raccontare quel periodo, non solo non riesco a riempirlo di fatti, ma neanche di personaggi». Oggi se un romanzo non è pieno di fatti e di personaggi difficilmente può stare sul mercato e dunque incuriosire i critici. E in questo romanzo la riflessione prevale nettamente sulla trama, limitata ai rapporti (pochi) di coppia del protagonista e a qualche suo incontro occasionale.

Al posto dei fatti, che rimandano quasi solo al rapporto con partners fissi o occasionali (ma l’autore non li chiamerebbe così, dato che, spiega, negli incontri degli omosessuali c’è sempre assai poco di occasionale), c’è qui una lunga accanita ininterrotta riflessione sulla esistenza nascosta di  chi rifiuta la eterosessualità. Il filo della narrazione è il filo stesso di questa riflessione. Il procedimento narrativo rimanda a Proust con minore raffinatezza (ma quella di Proust risente di una stagione, fra simbolismo e decadentismo, tramontata per sempre) ma con eguale spietatezza.

Ricordare qui la trama, volutamente scarna, avrebbe poco senso: basterà dire che protagonisti sono quasi sempre, più che i singoli personaggi, i rapporti di coppia, il bisogno di tenerezza e di amore, l’egoismo di chi li cerca sempre e comunque, le lunghe depressioni che seguono la rottura delle relazioni. L’ambiente è quello universitario ben noto all’autore e oggetto anch’esso di una costante denuncia. L’unico personaggio fisso è quello di una amica, Anna, che raccoglie le confessioni del protagonista e gli dà consigli e ammonimenti. Ma non sarà un caso che risulti monotono e ripetitivo e alla fine inessenziale. Protagonista in questo romanzo non è una persona (nemmeno, a veder bene, quella che vi dice “io”) ma una condizione di isolamento e di passività che non riguarda solo il protagonista e la sua omosessualità, ma una intera generazione e più in generale una condizione storica (anche culturale), quella successive alle euforie del pensiero debole e del postmodernismo.

Ovviamente il romanzo è anche una sfida a Siti (ben conosciuto dall’autore, anche di persona), più percepibile nelle pagine dedicate alla palestra e ai culturisti che vogliono costruirsi il corpo secondo modelli standardizzati. Ma se in Siti prevalgono coinvolgimento erotico e cinismo morale,  in Donnarunmma invece dominano l’ottica critica e la prospettiva sociologica, insomma un atteggiamento razionale e morale insieme. La scelta di una costante riflessione implica questo distacco, che consente insieme partecipazione e distanza critica.

Ho parlato sopra di denuncia a proposito della rappresentazione del mondo universitario. Non vorrei essere frainteso. Sbaglierebbe chi cercasse in queste pagine un qualche esibito moralismo. Un atteggiamento morale è indubbiamente presente, ma è disincantato, e privo di illusioni. L’autore sembra aver abbandonato qualsiasi utopia e qualsiasi rimpianto. Il suo è lo sguardo di una generazione delusa, che sa osservare criticamente ma non può opporre un diverso punto di vista. In questo atteggiamento si riflette una condizione reale del ceto intellettuale che oggi ha fra i quaranta e i cinquanta anni. L’omosessualità non è più uno scandalo (come è stato da Pasolini a Siti), ma una condizione di estraneità che riguarda tutti.

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