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diretto da Romano Luperini

Contro la rimozione. La vertigine di Liliana Segre e la scrittura di Elsa Morante

La nobile “vertigine” provata da Liliana Segre nel ripercorrere la lunga storia di cui è stata testimone, nel momento di lasciare il senato ai postfascisti, può essere analizzata e interpretata come la traccia di una non rimozione e il segno di un’allegoria storica.

Nella sequenza d’esordio del film di Bellocchio Sbatti il mostro in prima pagina (1972) La Russa con i capelli scarmigliati, dal palco di un comizio turbolento dice cose non troppo dissimili da quelle pronunciate subentrando a Liliana Segre: in cerca di consensi più larghi, rivendica la propria parte negli anni degli scontri più duri, accantona l’etichetta del “fascismo”, addita i nemici della patria. La fiamma tricolore che campeggia nel simbolo del partito ora di maggioranza, come la retorica di La Russa, è indice di persistenza e di continuità: Meloni ha voluto preservarla contro chi – come la stessa Liliana Segre – fino all’ultimo le chiedeva di rimuoverla. È il segno dell’eredità dei loro “morti”, il Movimento sociale di Almirante, a sua volta erede della Repubblica sociale italiana di Mussolini. Il Partito democratico, dipinto in questa campagna elettorale come l’alternativa alla destra, ha invece rimosso tutti i propri simboli: nei travasi dal PCI al PDS al PD, le icone della tradizione socialista sono state prima rimpicciolite e poi dismesse, fino all’eliminazione della stessa parola “sinistra” nel nome del partito.

Da una parte insomma l’orgoglio, dall’altra la rimozione.

Questa piccola, triste vicenda nostrana, rappresenta – al di là dei suoi attori, alcuni dei quali francamente miserabili – un epilogo ad alto valore didattico e allegorico. La Russa può oggi impugnare le parole di Violante perché il clima politico mondiale degli ultimi quarant’anni ha equiparato comunismo e nazifascismo sotto la categoria del totalitarismo e ha riconosciuto, come solo valore da condividere, la governance degli stati liberali. Dallo scontro epico fra modelli di società e di rapporti di classe combattuto nel XIX e nel XX secolo (dalla Comune di Parigi all’autunno caldo del ‘68) è uscito vincitore il neoliberismo, che consacra la sfera dei consumi di privati e famiglie e condanna come criminale ogni forma di utopia comunitaria. In questo schema il comunismo risulta più colpevole del nazifascismo: come attestano i libri neri e il computo dei morti. E gli eredi del fascismo possono essere “sdoganati” con più agio, con i loro valori patriottici e familistici, purché in nome della pacificazione e della rimozione, interagiscano con le “agende” tecnocratiche, con il dissolvimento individualistico della società, con la torsione aziendalista delle istituzioni democratiche in atto in tutti i paesi dell’occidente.

Controtempo, tuttavia, sappiamo che, mentre il nazifascismo è fin dall’origine reazione antioperaia, maschilista, razzista, nazionalista e guerrafondaia, il terrore staliniano rappresenta la degenerazione infame di una rivoluzione incentrata sull’uguaglianza, sulla pace e sulla libertà. Lo sapeva bene Elsa Morante che nelle didascalie della Storia (1974) scriveva:

1924-25

In Russia, morte di Lenin. Sotto il suo successore, che si è dato il nome di Stalin (Acciaio), le esigenze interne nazionali (collettivizzazione, industrializzazione, autodifesa contro le potenze coalizzate nell’anticomunismo, ecc.) faranno tramontare fatalmente gli ideali del Comintern e di Trotsky (rivoluzione permanente) a favore della tesi staliniana (socialismo in un solo paese). Finché la dittatura del proletariato, prevista da Marx, dopo essersi ridotta a dittatura gerarchica di un partito, si degraderà a dittatura personale del solo Stalin.

In Italia, dittatura totalitaria del fascista Mussolini, il quale frattanto ha ideato una formula demagogica per il rafforzamento del proprio potere di base. Essa agisce specialmente sui ceti medi, che ricercano nei falsi ideali (per la loro dolorosa incapacità dei veri) una rivincita della propria mediocrità: e consiste nel richiamo alla stirpe gloriosa degli Italiani, eredi legittimi della Massima Potenza storica, la Roma Imperiale dei Cesari. Per merito di questa, e altre simili direttive nazionali, Mussolini verrà innalzato a “idolo di massa” e assumerà il titolo di Duce. (…)

1933

In situazione analoga a quella italiana, in Germania i poteri costituiti consegnano il governo del paese al fondatore del fascismo tedesco (nazismo) Adolfo Hitler, un ossesso sventurato, e invaso dal vizio della morte (“Lo scopo è l’eliminazione delle forze viventi”) il quale a sua volta assurge a idolo di massa, col titolo di Führer, adottando come formula di strapotere la superiorità della razza germanica su tutte le razze umane.

Un’analoga, perentoria lucidità, si trova nella pagina di diario della più grande scrittrice del Novecento italiano dedicata alla fucilazione di Mussolini, che qui vale la pena di riportare estesamente, a memoria futura e come strumento letterario per le durissime battaglie che ci attendono:

Roma, 1° maggio 1945

Mussolini e la sua amante Clara Petacci sono stati fucilati insieme, dai partigiani del Nord Italia. Non si hanno sulla loro morte e sulle circostanze antecedenti dei particolari di cui si possa essere sicuri. Così pure non si conoscono con precisione le colpe, violenze e delitti di cui Mussolini può essere ritenuto responsabile diretto o indiretto nell’alta Italia come capo della Repubblica Sociale. Per queste ragioni è difficile dare un giudizio imparziale su quest’ultimo evento con cui la vita del Duce ha fine.

Alcuni punti però sono sicuri e cioè: durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbero meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). Fra tali delitti ricordiamo, per esempio: la soppressione della libertà, della giustizia, dei diritti costituzionali del popolo (1925), l’uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni, società cui l’Italia era legata da patti (1935), la privazione dei diritti civili degli ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno (1938). Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi. Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti.(…) Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è così fatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere tra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto. Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e dei suoi atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine.

In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di italiano. (E. Morante, Opere, Mondadori, Milano, 1988, vol. I, pp. L-LII.)

Si tratta di un testo privato, in cui si annotano pensieri personali e privi di una immediata finalità di comunicazione pubblica. Eppure, in queste righe, risuona la stessa eco delle parole pubbliche pronunciate da Liliana Segre nel suo memorabile congedo: la Marcia su Roma, il delitto Matteotti, le Leggi razziali. Ricapitolando alcune tappe essenziali del ventennio fascista, Elsa Morante formula infatti un duro giudizio morale non solo su Mussolini ma sull’intero popolo italiano, complice, col proprio consenso, dei delitti del regime. Si nota l’insistita ripetizione della coppia di aggettivi “onesto e libero” per qualificare in negativo ciò che il popolo italiano non è, e la presenza di alcune secche alternative: forte o giusto, dovere o tornaconto. Il tema è il medesimo affrontato oltre un secolo prima da Giacomo Leopardi e riguarda “il carattere degli italiani”. La nostra identità nazionale è vista in negativo, come disposizione all’ipocrisia, al tornaconto personale, come terreno fertile per la demagogia.

Se si pensa che il testo è stato scritto “a caldo” nel 1945 non appena si è diffusa la notizia della fucilazione del dittatore, non si può che ammirare la sobrietà e la fermezza del giudizio. Non si nota infatti nessuna euforia per l’eliminazione di un nemico, ma viceversa il tentativo di analizzare con obiettività i fatti, uno sguardo lucido e retrospettivo sul regime, una sorta di compassione per la goffa mediocrità di Mussolini, prodotto esemplare del proprio paese («Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura») e soprattutto un durissimo, desolato giudizio sugli italiani opportunisti, conniventi, consenzienti e complici.

Questa fermezza morale e questa sobrietà stilistica molto ci servono oggi per una storiografia e per una didattica controcorrente, capaci di oltrepassare oblio e rimozione.

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