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diretto da Romano Luperini

Prima di argomentare: progettare un’argomentazione

Fuori elenco

Al principio del 2020, mi trovai (come ogni docente nella mia situazione curricolare) ad affrontare il problema di insegnare ad argomentare – a distanza – a una classe prima di biennio. È vero che il libro di testo (come ogni testo assennato di “grammatica”) affrontava con dovizia la tipologia testuale dell’argomentazione, suggerendo pure qualche buona strategia per la composizione. E tuttavia i lavori scritti dei miei allievi e delle mie allieve si risolvevano tutti ugualmente in elenchi, com’era già accaduto per le tipologie affrontate nei mesi precedenti: i riassunti (elenchi di concetti letti nel testo di partenza e assemblati in serie – il riassunto consistendo nella eliminazione dei nessi); le descrizioni (elenchi di oggetti o caratteri, solitamente sprovvisti di un orientamento e introdotti dal verbo essere, spesso seguito dai due punti: “La mia stanza è:…”, “Il mio migliore amico è:…”); le relazioni (elenchi di microeventi disposti, nel migliore dei casi, in successione cronologica: “Con la mia classe sono andato in aula di fisica, poi il professore ci ha mostrato il multimetro digitale, poi ci ha detto di avvicinarci, poi…”). I temi (tipologia argomentativa per eccellenza) erano costituiti anch’essi da elenchi, ma di episodi (dell’infanzia, per lo più) o di affermazioni politicamente corrette (“Siamo tutti fratelli”, “La mafia è un grave problema”, “Bisogna rispettare l’ambiente”…). Eppure – mi ero sgolata – tutte queste tipologie sono intimamente argomentative, tutte impongono operazioni critiche sofisticate, tutte necessitano di criteri di analisi, di selezione, di orientamento; mi ero ripetutamente imbrattata di gesso (mi trovo più a mio agio a scrivere sulla lavagna di ardesia, piuttosto che sulla LIM) per tracciare schemi e grafici che fossero di ausilio; mi ero ripetutamente portata a casa i quaderni con le prove in itinere e li avevo meticolosamente chiosati. Niente. Non ne ero venuta a capo. Figuriamoci – mi ero detta – cosa accadrà al venir meno della relazione tridimensionale… Ma ciò che accadde fu prima di tutto questo: che, per trovare un modo efficace per insegnare a distanza quello che non ero riuscita a insegnare in presenza, dovetti chiedermi perché quell’altro modo non fosse efficace e lavorare, ancor prima che sui risultati attesi dell’argomentazione (sostenere un’opinione, formulare un’ipotesi, avanzare una tesi), su ciò che rendeva l’argomentazione una tipologia non solo ostica, ma – si sarebbe detto – ostile alla maggioranza dei miei allievi e delle mie allieve.

Reset con sorprese

Le finalità dell’argomentazione – così andavo ripetendo alla mia classe – sono tali che a svolgerne una ci si dovrebbe perfino sentire lusingati: “Siamo seriamente interessati a sapere cosa pensate e desideriamo che ci spieghiate perché pensiate ciò che pensate!”.

La prima sorpresa fu che nessuno nella classe fosse mai stato sfiorato dall’idea che fossero necessarie delle spiegazioni. “In che senso dobbiamo spiegarlo?” – fu la domanda in risposta alla mia richiesta – “Ognuno la pensa a modo suo!” – concludevano studenti e studentesse con un candore disarmante, senza neppure ombra di arroganza o provocazione. Il loro pensiero. Alfa e omega. Ognun per sé e dio per tutti. Sulle cause di questo atteggiamento autoreferenziale, tante volte s’è ragionato anche tra le pagine di questo blog. Consentitemi – per questa volta – di ritenerle acquisite, benché non rimosse.

La seconda sorpresa – rileggendo pazientemente a una a una le prove intermedie con l’autrice o l’autore – fu che quella richiesta posta a conclusione della consegna (“Argomenta la tua opinione”) non era neppure lontanamente considerata parte di essa. Per loro equivaleva a “Scrivi quello che ti viene in mente riguardo all’argomento proposto”.

Mi pare abbastanza evidente che le emergenze fossero due.

La prima era di rifondare la classe dalle basi: in attesa che diventasse “comunità ermeneutica”, doveva preliminarmente imparare a essere semplicemente comunità, i cui membri prima di tutto si parlassero, si ascoltassero, si confrontassero fra loro. E questo – che non fu lavoro di un mese o due e neppure soltanto mio – è lo scopo stesso della scuola, l’obiettivo sostanziale: se lo si manca, ogni argomentazione non soltanto rischia, ma è certamente destinata a essere un’esercitazione retorica priva di qualsiasi incidenza reale, alla maniera di certe scuole d’età imperiale romana.

La seconda emergenza fu quella che mi impose un reset metodologico: prima di insegnargli ad argomentare, prima di insegnargli le procedureper scrivere un’argomentazione, dovevo rimuovere tutti gli ostacoli che fin lì gli avevano impedito di farlo. Era inutile ripetere “Leggete bene la consegna!”: bisognava capire cosa non comprendessero, se la sintassi o singoli vocaboli, se l’argomento o la sua formulazione, o la consegna in sé, in quanto tale. Era inutile dirgli “Aiutatevi con una mappa concettuale!”: bisognava capire perché fossero riluttanti a compilarla. Era inutile dirgli: “State attenti ai connettori!”: bisognava capire perché non sentissero l’esigenza di connettere l’una con l’altra le loro affermazioni. Realizzai così che mi serviva una sonda, uno strumento di rilevamento dei disagi. E me ne fabbricai uno che, pure a distanza, mi aiutasse nella ricognizione e mi consentisse di intervenire quanto più in prossimità del punctum dolens, in risposta a una istanza reale di ricerca e di comunicazione e non in ossequio a un modello argomentativo astratto.

Si trattava di una tabella che presi a fornire ai miei allievi e alle mie allieve unitamente alla consegna, quale essa fosse. La tabella individuava sei tappe da percorrere prima di iniziare a scrivere e andava compilata in ogni sua parte da ciascuno con grande scrupolo. Questa operazione impegnava la classe per un tempo consistente, sicché, delle due ore di norma accordate per l’esecuzione della prova scritta, a molti non restava che una manciata di minuti per redigerla davvero (e già questa per me fu una indicazione forte).

Decisi dunque di declinare quello che era nato come strumento di ricognizione dell’insegnante anche come strumento di progettazione per la classe. Attribuii quindi al lavoro di progettazione uno spazio autonomo, separato dalla stesura del tema: volevo che fosse (come dovrebbe essere ogni progetto, correttamente inteso) un momento di riflessione, di autoconsapevolezza; un momento interamente dedicato a ragionare sulla finalità dell’argomentazione e non solo, tecnicamente, sulla struttura e sul funzionamento “meccanico” di essa, a ragionare sull’importanza di sostenere la propria opinione e non soltanto di enunciare la propria idea, quale essa fosse, a ragionare sugli esiti possibili della propria opinione sulla comunità. In altre parole, la prova scritta fu divisa in due momenti, inizialmente distinti anche nei giorni della settimana: uno di progettazione, l’altro di composizione. E l’insegnante prima leggeva e discuteva con la classe i progetti consegnati e poi fissava il giorno della loro esecuzione. La valutazione finale era attribuita in considerazione tanto del lavoro di progettazione quanto del lavoro di scrittura.

Sei tappe

La tabella doveva dunque servire (e servì; e serve) contemporaneamente a me insegnante per rilevare dove e quali fossero i bisogni della classe e alla classe per riflettere sui propri strumenti di comprensione testuale, espressione personale, analisi dei fenomeni. Scelsi pertanto di mettere in un linguaggio semplice e diretto, quasi colloquiale, le richieste preliminari, che in realtà sottintendevano operazioni di una certa complessità. Infatti per ogni tappa era richiesto agli studenti di lavorare su due livelli: uno riflessivo (declinato alla prima persona singolare, a sottolineare il loro coinvolgimento profondo) e l’altro attivo (declinato alla seconda persona, a sottolineare l’uscita dal sé e l’ingresso nella dimensione comunicativa con l’altro). Prima pensare e poi fare.

Questa tabella ho finito per usarla stabilmente; anzi, ho finito per utilizzarla anche per la classe esordiente al triennio, sebbene con qualche modifica necessaria: a quel punto, infatti, non si parlava più semplicemente di “opinione” ma di “tesi” e, accanto agli argomenti a supporto di essa, era necessario ragionare anche su quelli oppositivi. Ma è venuto presto il momento in cui la tabella è stata come “introiettata” dai miei allievi e dalle mie allieve, il momento in cui la classe è divenuta davvero comunità e la prassi argomentativa non una tipologia imposta, bensì un’esigenza personale, quasi una pulsione intima.

Ho “smontato”, qui di seguito, quella tabella, provando a indicare, tappa dopo tappa, quali margini di intervento apra all’insegnante, e dunque (spero) all’allievo, all’allieva.

1. Leggere attentamente la traccia

a. Quale problema (o fatto o argomento) la consegna mi sta chiedendo di affrontare e analizzare?

b. Individua, cerchiandole, le parole-chiave e scrivi quale sia, a tuo avviso, la richiesta della consegna, quale obiettivo ti chieda di raggiungere

Questa prima tappa è per l’insegnante la più rivelatrice. È qui che l’insegnante ha modo di conoscere dove si situi il disagio dell’allievo rispetto alla comprensione del testo della consegna. A volte banalmente la consegna viene travisata perché è formulata in un linguaggio difficile o comunque di difficile accesso per quegli allievi che dispongono di un vocabolario limitato e di una sintassi elementare. A volte lo studente non padroneggia l’argomento proposto, contrariamente a quanto l’insegnante supponeva. A volte invece legge frettolosamente e non coglie le implicazioni della consegna, le operazioni implicate nella richiesta. Questo, nel caso dell’argomentazione, è, al principio del primo biennio, molto frequente. L’allievo coglie genericamente l’argomento, ma non la prospettiva attraverso cui gli si chiede di affrontarlo. Ne coglie la superficie e l’estensione, più difficilmente lo spessore, la profondità, la tridimensionalità, le relazioni col molteplice, e dunque tende a risolverlo, quando va bene, in una figura geometrica piana. Da qui la necessità di individuare le parole-chiave e di far lavorare, accanto a quella parola che “etichetta” l’ambito di riflessione, le altre che ne precisano l’angolazione e ne suggeriscono i possibili rapporti. Questo momento è altresì decisivo per aiutare lo studente a orientare la scrittura, a liberarla dall’equivoco diaristico e a destinarla al raggiungimento di un obiettivo.

2 . Individuare il proprio punto di vista

a. Ho una mia opinione riguardo al problema (o fatto o argomento) che la traccia mi pone? Qual è? So indicare qualcuna delle ragioni che hanno contribuito a maturare questa opinione?

b. Scrivi quale sia la tua opinione riguardo all’argomento proposto e perché tu ne sia convinto/a. Dunque non scriverai soltanto “io penso che…”, ma “io penso che… perché…”.

Mettere gli studenti di fronte ai “perché” delle loro opinioni può essere anche molto frustrante: frustrante per loro, che spesso non sanno dirseli e, con qualche fastidio, scoprono di aver ripetuto fin lì, come fossero assiomi, le opinioni sentite in famiglia, lette sui social, ascoltate in TV o su Tiktok; ma frustrante anche per l’insegnante, che, a ogni “perché” sciorinato senza troppa convinzione dall’allievo o dall’allieva, si trova a rilanciarlo in un nuovo “perché”, vestendo i panni involontari dell’inquisitore, come a voler odiosamente ricostruire a ritroso una lunga catena di delitti fin alla sua scaturigine prima, il più delle volte impossibile da rintracciare. Ma, per frustrante che sia, si deve provare: è il primo passo per entrare nella dimensione critica che sta sottesa all’argomentazione come corda al suo arco.

3. Individuare gli argomenti utili a sostenere la propria opinione e i fatti o documenti su cui gli argomenti siano fondati

a. La mia opinione è frutto soltanto di impulso, di istinto, di gusto soggettivo? Se è così, non è facile condividerla né convincere altri/e ad accoglierla: se il criterio di valutazione è soltanto soggettivo, gli altri potrebbero semplicemente replicare “A me non piace”. Dunque devo scavare e chiedermi quali siano le fondamenta della mia opinione, in base a quali fatti, a quali documenti (di vario genere), a quali esperienze io sia in grado di sostenerla e renderla credibile e accettabile anche agli occhi degli altri.

b. Compila un elenco spontaneo di questi fatti (o documenti o esperienze) nella successione in cui essi ti vengono in mente.

È una sorta di brain storming e, contrariamente alle apparenze, serve a evitare il rischio che il tema stesso si risolva nell’elenco spontaneo. Solitamente lo studente, trovandoselo di fronte, nero su bianco, vi ravvisa proprio l’assenza di connettori forti tra i suoi componenti, di cui quasi all’improvviso gli si rivela la natura diversificata. Per l’insegnante è un test importante: rileva infatti in quali e quanti ambiti, in quali e quante direzioni l’allievo o l’allieva riesca o aspiri a spingersi nell’analisi di un problema.

4. Individuare i nessi logici (soprattutto di causa-effetto) che legano gli argomenti gli uni agli altri

a. Riguardo l’elenco che ho stilato al punto 3: i fatti (o esperienze o documenti) hanno un legame tra loro? Di che tipo? Quale viene logicamente prima? Quale dopo? Qual è la causa? Quale l’effetto?

b. Stabilisci un ordine di priorità tra i fatti (o documenti o esperienze) che hai elencato al punto 3 e, aiutandoti con la numerazione progressiva, riscrivi l’elenco.

Questo è un momento cruciale, per l’insegnante e per lo studente. Il collega di matematica e fisica, accanto al quale ho la fortuna di lavorare da anni, tra gli indicatori di prova dello scritto ne ha uno prezioso anche per verificare l’abilità di chi argomenta: giustificare i passaggi. È il momento di stabilire i nessi, di esplicitare le relazioni, di chiarire i rapporti, le implicazioni, le cause e gli effetti. Se il progetto funziona fino a qui, al resto – pensa l’insegnante con sollievo – c’è rimedio: viene quasi da sé.

5. Verificare che gli argomenti conducano logicamente alla tesi da dimostrare

a. Rileggo l’elenco compilato al punto 4 e lo confronto con l’opinione che ho espresso al punto 2: i fatti (o documenti o esperienze ) elencati al punto 4 sostengono effettivamente la mia opinione? Sono capaci di darle forza, di renderla convincente?

b. Se ti rispondi onestamente di no, significa che qualcosa non ha funzionato e che c’è un ammanco logico. In questo caso devi tornare indietro e cercare di capire cosa manchi, annotandolo qui di seguito e intervenendo (a secondo di dove lo ritieni necessario) sui punti carenti.

Questo è il momento dell’autoverifica, il qui si parrà la tua nobilitate: se l’allievo o l’allieva riesce a individuare il gap, al di là della tenuta o della fragilità dell’argomentazione, significa che ha già maturato un livello di consapevolezza che è di per sé una conquista e un ottimo corroborante per ogni argomentatore. L’insegnante deve prenderne coscienza e valorizzarlo.

6. Ponderare la sintassi e il vocabolario

a. Prima di iniziare a scrivere il tema, riguardo attentamente i passaggi 1, 2, 3, 4, 5 e rifletto: quale sintassi merita il mio ragionamento? Semplice? Complessa? Paratattica? Ipotattica? Sarà meglio che io usi parole comuni, facilmente accessibili, o parole meno frequenti ma più vicine al mio modo di intendere, o ancora vocaboli specifici di un ambito particolare? E quale registro linguistico? Colloquiale? Serio? Scientifico? Cronachistico? Familiare? Umoristico?…

b. Scrivi qui di seguito le ragioni delle tue scelte linguistiche e non iniziare a stendere il tema se prima non avrai chiarito a te stesso/a quale stile intendi assumere.

Questo ultimo punto sigla proprio un patto di corresponsabilità tra docente e allievo. In questa fase della formazione (lo ricordo: primo biennio della secondaria di secondo grado), il docente ha il compito non tanto di descrivere la fisionomia di un comportamento grammaticale o di un costrutto sintattico (i più fortunati tra gli studenti arrivano peraltro dalla secondaria di primo grado già equipaggiati in tal senso), quanto di spiegarne la loro destinazione. Ma poi la destinazione ultima di un vocabolo o di un costrutto la determina chi scrive, scegliendo liberamente di usare un vocabolo piuttosto che un altro, un costrutto piuttosto che un altro, in risposta a un’esigenza comunicativa che, se da un lato veicola il bisogno di esprimersi del singolo, d’altra parte, per essere accolta, deve servirsi di codici condivisi.

Il tentativo è quello di fare del tema palestra di dialogo di cittadini e cittadine consapevoli dei loro strumenti espressivi e capaci di intervenire democraticamente nel dibattito sociale e non una prova (inutile) di “bello scrivere”. Si dirà: “Ma ai nostri tempi nessuno ci insegnava a scrivere così: scrivevamo e basta”. Ai nostri tempi, appunto.

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