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diretto da Romano Luperini

La pace subito senza se e senza ma. Il multilateralismo concorrenziale non garantisce la pace

Dopo aver danzato a lungo sul ciglio dell’abisso, ci siamo cascati dentro con tutti e due i piedi? Per tanti versi sembra di sì, anche se la speranza è l’ultima a morire. In una sola notte il dittatore russo, il nuovo zar, ha prima riconosciuto le due repubbliche indipendentiste del Donbass (Donetsk e Luhansk, regioni autonome dello stato ucraino a seguito degli accordi internazionali di Minsk del 2015, che non hanno mai fatto cessare la guerra), poi ha assaltato l’Ucraina con una manovra a tenaglia e un imponente dispiegamento di forze. Si era già cautelato con grosse riserve valutarie dalle prevedibili sanzioni economiche occidentali. Le “democrazie” occidentali hanno sottovalutato il pericolo e si sono fatte sbattere la porta in faccia da Putin (prima Macron e poi Draghi, che non è stato neppure ricevuto). Sul terreno resiste il popolo ucraino, inaspettatamente, con una risposta “patriottica”, per certi aspetti palesemente reazionaria (come nel caso del battaglione nazista di Azov, che è uno dei pretesti usati da Putin per giustificare l’invasione), per altri decisamente popolari (in base alle notizie che ci giungono dai teleschermi). Se l’ennesimo blitzkrieg della storia (russo questa volta) si impantana nei prossimi giorni, si può riaprire uno spazio per la trattativa diplomatica e non finirà con la nascita di uno dei tanti governi fantoccio dell’epoca moderna. Tutto ciò costerà migliaia di morti e quattro milioni di profughi verso l’Europa, che gli ex-amici italiani di Putin, Salvini in testa, questa volta si dicono pronti ad accogliere senza farli affogare in mare o gelare lungo i confini europei orientali. Se la partita gira male e viene coinvolta la frontiera delle repubbliche baltiche, passate dal vecchio patto di Varsavia alla Nato, dove gli USA stanno mandando le loro truppe, i rischi di conflitto totale si innalzano esponenzialmente. Altrimenti saremo di fronte ad un altro pezzo della “guerra mondiale a pezzi”, profetizzata da Papa Francesco.

Qual è lo scenario geopolitico: dopo la crisi del blocco sovietico l’Europa e la Nato si sono espanse ad Est contando sulla debolezza della nuova Federazione russa, cercando di lucrare nuovi mercati in cambio di materie prime, per cui oggi secondo le dinamiche infernali della globalizzazione neo-liberista siamo così interconnessi, che i paesi occidentali debbono stare attenti anche a come varano le sanzioni economiche per non ricavarne un danno.  Mosca si muove in base alla “paura dell’accerchiamento”, che dura dall’epoca degli zar, per cui la Russia deve avere un’area di sicurezza ad Ovest. Quindi questa guerra, che si aggiunge all’altra sanguinosa in corso dal 2014 in Donbass (14.000 morti), ha due responsabili: la Russia di Putin e la Nato di Biden, alleati insieme ai due attori locali, il governo di Kiev e i “secessionisti” delle due repubbliche orientali, che sono un boccone appetibile per tutti dato che costituiscono la regione mineraria dell’Ucraina, soprattutto per le fonti energetiche (carbone e scisti bituminosi). Che Putin sia sull’antica posizione degli zar è dimostrato dalla sua polemica contro Lenin (cfr. Huffpost, 21.2.2022), da lui considerato il “creatore” dello stato ucraino diviso dalla “grande madre Russia”, scelta legata – dico io – alla politica federale delle nazionalità, su cui nel 1924 si fondava l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, poi tradita dall’azione autoritaria e centralizzatrice di Stalin.

 Va detto con chiarezza che Putin è il responsabile dell’aggressione, ma è inutile giocare agli psichiatri dicendo che è un folle, chiuso in se stesso, che non dà retta a nessuno, neppure ai propri generali e consiglieri, e che la guerra è una “follia”: Putin ha un suo piano, che conta sulla palese debolezza dell’ex-gendarme planetario, gli USA, i quali non si possono più permettere tale ruolo non solo da punto di vista economico, ma anche in termini di risorse umane. E la guerra è tipica dell’uomo storico: dal punto di vista materialistico è “la prosecuzione della politica con altri mezzi”; dal punto di vista antropologico la nostra è l’unica specie onnicida fino all’omicidio intraspecifico, ignoto alle altre specie animali e assurto a omicidio di massa nel caso della guerra.

Lo storico marxiano, Eric Hobsbawm, chiudendo tragicamente “Il secolo breve” (1994), scriveva: “noi siamo giunti a un punto di crisi storica … Il mondo rischia sia l’esplosione che l’implosione. Il mondo deve cambiare … E il prezzo del fallimento, vale a dire l’alternativa a una società mutata, è il buio”. La fine della Guerra fredda con il crollo del muro di Berlino non ha prodotto “la fine della storia” e uno sviluppo socio-economico ottimisticamente senza limiti, ma un pianeta in cui si incrociano tante crisi: quella economica, che ha prodotto disuguaglianze sociali paragonabili solo a quelle del 1929; quella ambientale, di cui la pandemia in corso è solo un aspetto insieme al riscaldamento globale; quella che volgarmente chiamiamo crisi della politica, ma che è una crisi delle democrazie liberali, afflitte dal logoramento della rappresentanza e dall’ondata dei sovranisti e nazionalisti (che simpatizzavano per Putin di qua e di là dall’Atlantico). Tutte queste crisi – a mio modesto avviso – sono aspetti dello stesso fenomeno strutturale, la globalizzazione fondata sulla terza rivoluzione industriale, quella delle macchine elettroniche. Potrei condurre un’analisi dettagliata per dimostrare questo assunto, ma il lettore attento potrà trovare da solo le connessioni evidenti tra tutti questi aspetti. Sono processi storici che prendono l’avvio dagli anni Novanta del secolo scorso, quando la strutturazione tecnico-scientifica della società, sconfitta l’opposizione libertaria dei movimenti di massa degli anni Sessanta che vi avevano aperto una breccia (cfr. Edgar Morin), si è presa la sua rivincita.

Gli equilibri politici planetari, che ne emergono, i cui effetti ci stanno di fronte sanguinosamente in questi giorni, rompendo il più lungo periodo di pace conosciuto nella storia del nostro continente, vengono definiti “multilateralismo”. Potremmo ricordare la precedente guerra con caratteri simili all’attuale, quella del Kossovo, ma con dimensioni regionali molto più ridotte. Non si contendono il campo solo due superpotenze come all’epoca della Guerra fredda, ma almeno tre, comprendendo la Cina, che non sta condannando l’aggressione russa all’Ucraina, ma sta intensificando la pressione su Taiwan (come a dire che se è possibile alla Russia in Ucraina è possibile anche a loro nell’orto di casa), senza contare varie potenze regionali aggressive come la Turchia o Israele. Si tratta di un equilibro molto instabile, che da trent’anni precipita in crisi locali e guerre regionali, le quali rischiano di diventare mondiali. Definirei tutto questo un “multilateralismo concorrenziale”, perché si fonda sui principi neo-liberisti e rispetto al quale il “Mercato”, invocato come una divinità onnipotente, non ha alcuna capacità auto-regolatoria.

Sarebbero necessari quegli organismi sovranazionali, previsti dall’articolo 11 della nostra Costituzione, capaci di governare l’instabilità appena delineata. Viceversa il ruolo della Nato nell’espansione ad Est, da difensiva e diventata aggressiva, quindi è un fattore destabilizzante. Il ruolo dell’ONU, che qui troverebbe la sua ragion d’essere, sembra nella crisi ucraina venire chiamato in causa solo per dirimere i problemi legati ai flussi dei profughi. La possibilità di richiamare gli organismi internazionali al loro compito di proteggere l’autodeterminazione dei popoli e la loro convivenza civile è legata dalla rinascita di un grande movimento di massa per la pace come è stato almeno in parte il Fridays for Future sulla questione climatica.

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