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diretto da Romano Luperini

Sui Racconti del Risorgimento a cura di Gabriele Pedullà

Quale Risorgimento?

Il volume, curato da Gabriele Pedullà e uscito nel 2021 nella collana I libri della spiga della casa editrice Garzanti, raccoglie ben ottantasei testi di trentaquattro autori che hanno narrato il Risorgimento. Se, ad un primo sguardo, quest’antologia potrebbe apparire come un tradizionale percorso tematico attraverso i racconti che hanno contribuito alla costruzione dell’Italia letteraria, in realtà, leggendo con più attenzione, il lettore si accorge immediatamente che la sfida all’origine di questo progetto è decisamente più ardua, ambiziosa, complessa: ampliare, nonché rivedere, quel «canone ristrettissimo di testi che i manuali scolastici associano alla coppia “letteratura e Risorgimento”», una coppia – si potrebbe aggiungere – inquieta, dalla relazione discontinua, in costante evoluzione e trasformazione. Pedullà, dunque, a partire dalla volontà dichiarata di ricostruire un quadro assai più mosso e inedito rispetto a ciò che finora è stato il racconto dominante di questo capitolo essenziale della nostra storia nazionale – noti gli stereotipi ancora oggi presenti qua e là tra le righe – raccoglie la sfida, percorre strade meno battute, con l’obiettivo esplicito di ampliare tale corpus e dare vita ad un quadro più completo della prosa breve tra il 1848 e il 1915. Non solo Rovani, Nievo, Fogazzaro, De Amicis, gli immancabili Verga, De Roberto e Pirandello, ma anche Padula, Ghislanzoni, Castelnuovo, Serao, Gozzano, solo per fare alcuni dei nomi qui presenti. Tramite un’ampia e articolata introduzione, dal titolo Risorgere in prosa, suddivisa in nove sezioni per 158 pagine, a cui seguono nota bibliografica e nota al testo, Pedullà motiva le scelte fatte e traccia, con sorprendente acume e con attenta cura del dato storico (tenuto saldamente avvinto a quello letterario), le linee essenziali – comprese sfumature, tendenze eccentriche e svolte improvvise – di una nuova, e in parte inedita, «epica dell’Italia moderna».

Un affresco, un ritratto, un’epoca

La scelta delle autrici – una presenza certo da ampliare rispetto al canone ancor più ristretto nel caso delle scrittrici – e degli autori antologizzati punta su una «costitutiva dissonanza delle parti» (p. 15) che, però, paradossalmente, ricalcando e riproponendo spunti essenziali del quadro d’insieme della letteratura del Risorgimento, rende più saldo e coeso “il ritratto di gruppo” progressivamente elaborato. Contribuiscono alla lettura di questo ampio affresco elementi tratti dalla biografia degli autori – i luoghi d’origine, tra cui molti da collocare sull’asse Torino-Venezia; le professioni, giornalisti e docenti in primis; l’anno di nascita – che hanno funzione di “bussola”, nell’orientare, individuare e sottolineare tendenze e contesti. Nell’intervallo cronologico che va dal 1812 – data di nascita di Percoto e Padula – al 1883, quando nasce Gozzano, Pedullà colloca gli autori suddividendoli in tre gruppi: quelli già adulti al momento della costituzione del Regno d’Italia, prevalentemente uomini d’azione che presero parte alle guerre risorgimentali, tra cui, per citarne solo alcuni, Collodi, Nievo, Abba, Praga e Imbriani; i narratori degli anni Quaranta e Cinquanta, ancora troppo giovani per combattere (si pensi a Fucini, Guerrini, Dossi, De Marchi, Oriani), con alcune limitate eccezioni (De Amicis e Sacchetti). Il terzo gruppo è costituito dai narratori che hanno conosciuto il Risorgimento attraverso la pedagogia patriottica «senza disporre nemmeno dei pochi ricordi avvolti nella luce magica della prima infanzia di quanti avevano anche solo qualche anno in più di loro» (p. 20).

Dalla letteratura del Risorgimento a quella sul Risorgimento

In seguito alla creazione del Regno d’Italia, la scrittura letteraria inizia a confrontarsi con la resa di una svolta storica che ha nel 1861 l’anno cruciale sul piano degli eventi, ma anche su quello più specificamente letterario. Prende avvio una nuova fase in cui i generi – «mai forme a priori» (p. 22) come a ragione sottolinea Pedullà – reagiscono diversamente, determinando una complessiva «asincronia» e assumendo differenti funzioni. Se la poesia tende prevalentemente alla celebrazione, la narrativa breve, più polifonica e multiforme, assume volti diversi, accogliendo le differenti sfumature di un universo di voci tanto composito quanto tenace. Una varietà che si riflette, in prima istanza, nel giornalismo, un orizzonte che allora «si andava popolando di nuove testate» (Andrea Aveto, Introduzione, in Cronache dell’Unità d’Italia, Mondadori, 2011, p. XXXIV). Ma anche nella struttura dell’antologia che ha alle spalle, come Pedullà segnala nella Nota bibliografica, solo il volume antologico, certo cronologicamente e metodologicamente distante, di Carlo Bo, risalente al 1961. Quattro sezioni – Combattere, Dibattere, Ricordare, Durare – per testi dalle diverse caratteristiche, da quelli prevalentemente giornalistici e di denuncia nella prima parte a quelli scritti all’indomani della nascita del Regno d’Italia, fino ai racconti nati dopo il 1878 e a quelli successivi, “testimoni” del «progressivo indebolirsi della memoria» (p. 22).

Prima e dopo il 1848

Sin dal denso saggio introduttivo emergono i criteri alla base della struttura dell’intero volume. Non si tratta, dunque, di un’antologia tematica, ma di una selezione nata in seguito ad una capillare revisione storico-letteraria che mette, innanzitutto, il testo al centro dell’indagine per interpretarlo, oltre e a dispetto di categorie ormai insufficienti e da ripensare. Così, vengono individuate le strategie messe in campo per aggirare la censura imperante negli anni che precedono e che seguono il 1848, a partire dalla scrittura in cifre capace di alludere con un dettaglio agli eventi coevi alla diffusione di materiali proibiti, spesso evidentemente legati alla brevità e alla sintesi, nonostante la poesia, e non la prosa, avesse in questa fase il ruolo di maggior peso. E qui la critica concorda sulla divaricazione tra i generi, conseguenza del rapporto mai lineare con un processo storico “discontinuo” che ha trovato a lungo nella poesia i cantori più autorevoli, a partire dal Manzoni di Marzo 1821 fino a Carducci; cantori di quel “Risorgimento a memoria”, che Amedeo Quondam ricostruisce in una celebre antologia del 2011, uscita presso la casa editrice Donzelli, in occasione delle celebrazioni per l’Unità:

«C’era una volta in Italia (ma si potrebbe e dovrebbe dire: un’Europa) in cui i versi dei poeti erano sulla bocca dei tanti (ma quanti e chi?), e risuonavano in fervide memorie, e lo erano da un tempo forse infinito, probabilmente da sempre, perché così ha funzionato la tradizione culturale europea, tramite la parola che si fa dialogo o corpo testuale, orale o scritto che fosse» (p. VII della Premessa).

Così prende avvio la riflessione di Quondam intorno a quel canzoniere del Risorgimento che – è innegabile – sbiadisce e perde forza e vigore nello scontro con la contemporaneità.

Ma l’apparente distanza tra i generi si traduce in dialogo quando, intorno ai due snodi cruciali, 1848-49 (si ricorda qui A Jalmicco nel 1848 e La donna di Osopo di Caterina Percoto, ma anche Carlo Collodi di cui si propongono racconti ancora in parte poco noti) e 1859-60 (a questa fase appartengono le novelle di Ghislanzoni, Imbriani e Padula), giornalismo e narrativa stringono un fertile sodalizio, e le collaborazioni giornalistiche si fanno «palestre di scrittura» (p. 29), come le definisce Pedullà, perfetti strumenti per coniugare politica, narrazione, rivoluzione.

Risorgimento “al presente” e “al passato”

La Terza Guerra d’Indipendenza e la presa di Porta Pia offrono la possibilità di trasformare il racconto in azione, nell’occasione concreta di rendere il genere attore del dibattito culturale e politico e, soprattutto in seguito al 1866, quando il Regno d’Italia mostrerà a tutti le sue evidenti e profonde fragilità segnate dalle sconfitte di Custoza e Lissa, la narrativa breve, anche grazie alla sua misura ed estemporaneità, avrà un ruolo importante. Del 1868 è il volume di novelle La vita militare di Edmondo De Amicis che è certo uno dei nomi di maggior peso anche guardando ai racconti inseriti, ben sei nella sezione Dibattere, accanto a quelli di Praga, Ghislanzoni, Tarchetti e Pelosini. Di tutt’altro tenore le novelle inserite nella sezione Ricordare che presentano, tramite il fil rouge della memoria, eventi trascorsi, inserendosi così nella fioritura del genere che ha negli anni Settanta dell’Ottocento il decennio di svolta. Qui si apre, anche grazie alle decisive novità in campo giornalistico ed editoriale, «la grande stagione del racconto italiano moderno» (p. 56) che ha in Giovanni Verga la voce certo più decisiva e autorevole. Sono gli anni delle prime prove dello scrittore che ci lascerà poi, nel 1882 con Libertà, uno dei testi-chiave della letteratura risorgimentale, ai quali si aggiungono nell’antologia, Papa Sisto e Epopea spicciola (1893), Carne venduta (1885), Frammento (1893), Camerati (1883), … E chi vive si dà pace (1887). Sono anche gli anni in cui novella e romanzo accorciano le distanze tra loro, si ritrovano a percorrere la stessa strada e, in molti casi, anche nella medesima direzione, con una differenza, però, che emerge nei testi qui raccolti: la novella accoglie anche gli aspetti più scomodi, spesso abilmente occultati nella narrazione ufficiale, tratti che raccontano un’altra storia, più controversa, articolata e decisamente dissonante rispetto a quella dominante.

Parlare del Risorgimento senza nominarlo

Se in poesia il nome di Giosue Carducci si impone quale autore che, più a lungo e con maggiori energie, ha dedicato al Risorgimento una parte importante della sua produzione, così per la prosa è necessario – scrive Pedullà – riconoscere il ruolo di Edmondo De Amicis, anche al di là di «stringenti preoccupazioni pedagogiche» (p. 61), pur presenti nella sua opera. Dall’esperienza diretta al ripensamento costante dell’epopea risorgimentale, De Amicis – qui il lettore troverà raccolti testi degli anni Sessanta e Settanta, come Il mutilato o Preti e frati, ma anche degli anni Ottanta, da Il tamburino sardo a La piccola vedetta lombarda e Il soldato Poggio – è autore di una gran quantità di racconti che propongono un’ampia costellazione di richiami a fatti ed eventi vissuti o rielaborati grazie alla distanza. Al suo nome è necessario accostare, secondo l’ordine della selezione antologica qui presente, Giuseppe Cesare Abba, che ebbe il merito di riportare l’attenzione sulla spedizione dei Mille, con un’ampia produzione che certo ha in un’opera, uscita in versione definitiva nel 1891, Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, uno dei suoi risultati migliori. Ma il nome di un altro autore, qui già citato, contende a De Amicis la scena. Giovanni Verga è certo, secondo quanto Pedullà rileva questa volta in accordo con la critica novecentesca, lo scrittore che del Risorgimento dà l’immagine più varia, «mettendo a fuoco i contadini e i volontari, l’esercito regolare e i cittadini, le donne e gli uomini di chiesa, laddove De Amicis concentra il suo sguardo sui militari e sulle loro famiglie e Abba sui garibaldini» (p. 109). Nei suoi racconti, Verga, anche senza nominare mai esplicitamente il Risorgimento, tesse una fitta rete di richiami, a volte singoli dettagli, che lo rende senza alcun dubbio il maggior cantore in prosa dell’epopea risorgimentale.

Durare…

A partire dall’inizio del nuovo secolo, si apre una fase diversa attraversata da tendenze che hanno nel decennio precedente le loro radici, verso una presa di consapevolezza che culmina nel primo congresso di Storia del Risorgimento e nella costituzione della Storia del Risorgimento. Ciò contribuisce ad ampliare in diverse direzioni le pubblicazioni che si moltiplicano e assumono diverse forme. Altro elemento che si afferma in questa fase è dato dal peso di una generazione di narratori siciliani – De Roberto, Pirandello e il più anziano Capuana – che calcherà con decisione la scena, segnando profondamente il romanzo storico novecentesco. Spesso dall’ottica del reduce o da chi comunque rievoca una stagione passata da vero e proprio sopravvissuto – celebre il racconto I vecchi (1889) di De Roberto, di cui qui si ricorda anche la nuova edizione commentata de L’Imperio uscita per Garzanti nel 2019, a cura di Gabriele Pedullà; ma anche le novelle pirandelliane Sole e ombra (1896), Le medaglie (1904), Musica vecchia (1910) – viene elaborata una nuova strategia di narrazione senza ombra di eroi, segnata da un forte disincanto e, nel caso di Pirandello, da novelle che dialogano con I vecchi e i giovani, pubblicato nel 1909 su rivista e poi nel 1913 in volume. La figura di Icilio Saporini, in Musica vecchia, antieroe dal grigio passato risorgimentale, richiama i protagonisti delle due novelle precedenti, tramite il medesimo malinconico registro a segnare la crisi d’identità di un’intera generazione che Pirandello qui traduce con un’apparente, ma bifronte e amara, leggerezza.

La novella che conclude il percorso antologico – Garibaldina (1915) di Guido Gozzano – “chiude il cerchio”, viene pubblicata esattamente nell’anno in cui l’Italia entra in una guerra percepita da molti, non a caso, come ulteriore tappa del processo risorgimentale. Ortensia, la Garibaldina del racconto di Gozzano, riassume in sé i tratti di una nuova epoca nella quale la vis polemica scompare, lasciando spazio ad una sognante rievocazione di quelle imprese che fecero l’Italia, un’Italia – sembra dirci Gozzano – così diversa ora. Un Epilogo, a firma di Carlo Alberto Pisani Dossi, dal titolo eloquente, La triade italiana, conclude ulteriormente l’antologia, lasciando però aperta una riflessione, un pensiero critico, un dibattito che continuerà ad occuparci alla ricerca della giusta – non corretta, non di questo si tratta – distanza. Il tempo sarà – come scrive Dossi e come peraltro ci auguriamo – «incorruttibile giudice» (p. 995)?

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