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diretto da Romano Luperini

Per riscoprire Luigi Meneghello a cento anni dalla nascita

«Sono nato e cresciuto a Malo, nel Vicentino, e lì ho imparato alcune cose interessanti. Ho fatto studi assurdamente “brillanti” ma inutili e in parte nocivi a Vicenza e a Padova; sono stato esposto da ragazzo agli effetti dell’educazione fascista, e poi rieducato alla meglio durante la guerra e la guerra civile, sotto le piccole ali del Partito d’Azione. Mi sono espatriato nel 1947-48, e mi sono stabilito in Inghilterra con mia moglie Katia. Non abbiamo figli». Così Luigi Meneghello scriveva di sé nel 1975, in occasione della nuova edizione di Libera nos a Malo. Per chi non fosse pratico di geografia del vicentino, Malo è a sedici chilometri a nord di Vicenza e dista a sua volta quattro chilometri da Isola, il paese che Cleto, il padre di Gigi, raggiunse in marcia verso Roma nell’ottobre del 1922. Arrivò fino a lì, poi disse che aveva il bambino malato e tornò indietro, come racconta lo stesso Meneghello nel cap. 18 di Libera nos e come riporta nel ritratto che Carlo Mazzacurati e Marco Paolini gli dedicarono all’inizio degli anni Duemila, un primo strumento per conoscerlo e farlo conoscere anche a scuola. Accanto, la presenza discreta ma fondamentale della moglie, Katia Bleier, ebrea ungherese sopravvissuta ad Auschwitz e a Belsen.

Luigi Meneghello è oggi riconosciuto fra i più importanti autori italiani del secondo Novecento. È una voce inconfondibile e particolarissima, complessa e raffinata, ma ancora poco esplorata, specie a livello scolastico, per vari motivi: fra quelli intrinsechi, citerei anzitutto la complessità della sua scrittura, anche in forza di quel «lampo-sgiantìzo» che scaturisce dalla combinazione dell’italiano col dialetto; seguono la molteplicità dei temi, la pluralità di piani di significato, gli echi, i rimandi e una difficoltà perenne, anche per il lettore più preparato, a ricondurre le sue opere a categorie e generi noti.

Similmente a quanto ho fatto alcuni mesi fa per Mario Rigoni Stern, in occasione del centenario della nascita di Luigi Meneghello vorrei proporre alcune strade per riscoprire a scuola un autore che molto potrebbe dire, anche agli adolescenti di oggi. Lo farò seguendo come filo conduttore la vita dell’autore, scelta non casuale se pensiamo che tutta la scrittura meneghelliana è frutto dell’esperienza diretta, filtrata dalla memoria e distillata dalla scrittura.

L’infanzia a Malo: un approccio per temi a Libera nos

Nato il 16 febbraio 1922, Meneghello cresce in un paesino rurale del vicentino. La sua è una famiglia di artigiani: il padre gestisce coi fratelli un’autofficina, la madre è maestra. Gigi vive perciò il mondo dell’Italia preindustriale, la vita scandita sui ritmi del campanile e degli inni del regime, gli stessi che occupano le prime pagine di Libera nos a malo (1963), il libro dedicato al paese natale e che è considerato, con I piccoli maestri (1964), il suo capolavoro.

È però un libro difficile, che se dato in lettura senza mediazioni rischia di non essere compreso. Opera ibrida per genere e stile, piena di riferimenti colti, procede per frammenti, riflessioni, giochi della memoria, richiami. E forse questo aspetto potrebbe essere sfruttato per un primo approccio, magari proponendo una selezione tematica, sfruttando la ricchezza straordinaria di un vero e proprio microcosmo paesano raccontato con partecipata ironia e, come si diceva, con uno stile che è forse l’essenza stessa del narrare di Meneghello: dal rapporto con la religione a quello col fascismo, dalle prime mosse a scuola allo sport, agli infiniti ritratti di uomini, donne, bambini e bestie che popolano le pagine del libro. A queste possibilità si aggiunge quella della riflessione sulla lingua, sul rapporto fra lingua letteraria e dialetto e più in generale sul rapporto fra le parole e le cose, uno dei temi più forti nello scrittore. Anche la difficoltà stilistica può essere volta a vantaggio, grazie all’ironia con cui Meneghello ricostruisce il passato e analizza il presente. Chi ha familiarità col testo ricorderà l’indimenticabile Cicàna e la sua «lauda» al rovescio, o l’episodio dei brombóli (maggiolini), descritto al cap. 10: un vero gioiello letterario. I bambini giocano a far arrampicare i maggiolini sul monumento ai caduti in Castello, le bestiole salgono attraverso i nomi «sfruttando le minute rugosità del marmo, e i solchi delle lettere»: la focalizzazione è dunque sull’insetto. Intorno il clima è divertito, è una gara dopotutto, e il lettore ride di una scena del tutto innocente. Ma quando la trepidazione è massima, quando già i bambini non riescono più a sostenere l’insetto e lo guardano salire sempre più in alto, arriva il colpo a bruciapelo, l’intervento del narratore, che commenta, con una frase lapidaria, la scena: «Ma quanti ne sono morti in questo maledetto paese?».

Sono innumerevoli gli esempi che si potrebbero portare, microtesti conchiusi su cui far lavorare gli studenti, secondo un modello didattico peraltro già sperimentato, fra gli altri, dall’Associazione ForMaLit, che nel 2017 ha promosso su Meneghello un convegno a Padova, i cui interventi sono stati pubblicati nel 2019 dall’editore Cierre col titolo La lingua dell’esperienza. Attualità dell’opera di Luigi Meneghello.

Dal fascismo alla Resistenza

Un secondo grande tema per affrontare l’opera di Luigi Meneghello, sempre rispetto alla sua vita, riguarda l’educazione sotto il fascismo. Qui i percorsi potrebbero comprendere più libri dello scrittore: oltre a Libera nos a malo, Fiori italiani (1976), opera specificamente incentrata sull’educazione di S., una sorta di alter ego dell’autore, sotto il regime fascista. Scrive Meneghello nel risvolto di copertina: «Questa è la storia di S. in quanto Soggetto della sua esperienza scolastica: come fu fatto, e disfatto, da quella versione della cultura riflessa degli italiani che si trasmetteva nelle scuole». Seguendo S., il lettore entrerà nel mondo degli studi dell’autore, fra autori, libri e ritratti di insegnanti che si snodano dalle prime scuole frequentate a Malo fino ai professori universitari della Padova dei primi anni Quaranta, quando Gigi, da morigerato giovane fascista, arriva a vincere i Littoriali nel campo della “dottrina fascista”.

Anche per Fiori italiani è possibile lavorare “per frammenti”, sui singoli ritratti o sulle riflessioni che Meneghello svolge con la consueta ironia ma, al contempo, con rigore e lucidità, rievocando un percorso vissuto, come lui, da molti della sua generazione. E così il quadro si potrebbe ampliare confrontando la sua esperienza di educazione sotto il fascismo con quella di altri: Fenoglio, Calvino, Primo Levi, Rigoni Stern, Revelli, per citarne solo alcuni.

Chiude Fiori italiani un ritratto di Antonio Giuriolo, il vero maestro di Meneghello. Conosciuto nell’estate del 1940, è la persona che cambierà radicalmente la sua vita, portandolo a quella crisi interiore che culminerà con l’adesione alla Resistenza.

I piccoli maestri: la Resistenza in chiave antieroica e antiretorica

Si arriva così al libro della svolta, della metamorfosi, racconto autobiografico e insieme riflessione sull’esperienza resistenziale. I piccoli maestri è un libro che si può affrontare negli anni finali delle superiori. Si tratta, non serve ribadirlo, di uno dei libri più importanti sulla Resistenza, e che spicca per l’impostazione antieroica e antiretorica. È la storia dell’esperienza di vita partigiana di un gruppo di studenti universitari. Neppure questo è un libro facile, ma fra le sue pagine anche un lettore non avvezzo alla pagina meneghelliana si sente confortato dalla struttura vicina a quella di un romanzo. Il libro, dopo un capitolo iniziale ambientato a guerra finita, comincia nel settembre 1943: la monotona e insulsa vita militare (Meneghello all’epoca si trovava sulla costa tirrenica, allievo ufficiale alpino), la scossa dell’8 settembre, il fortunoso rientro a Vicenza e da lì la via della montagna, prima nel bellunese, poi sull’Altipiano dei Sette Comuni, infine sui colli vicentini e a Padova, nei giorni della Liberazione. Molteplici i percorsi che anche in questo caso si potrebbero affrontare in parallelo ad altri classici della Resistenza, ma anche in prospettiva interdisciplinare, fra storia ed educazione civica. Fra i personaggi descritti merita di essere nuovamente citato Antonio Giuriolo, capitano Toni. Professore senza cattedra per non aver accettato la tessera del PNF, intellettuale antifascista, è una delle figure di spicco della Resistenza veneta. È lui il maestro attorno a cui si riuniscono Meneghello e gli altri «piccoli maestri» e che si separò da loro dopo i rastrellamenti del giugno 1944. Trasferitosi a Bologna per cure, Giuriolo morirà in combattimento sugli Appennini il 12 dicembre 1944, alla testa di una brigata partigiana.    

Dall’esperienza politica al «dispatrio»

Nell’immediato dopoguerra Meneghello si impegna politicamente nel Partito d’Azione, contribuendo alla campagna politica del 1946 e assistendo, come racconta in Bau-sète!, alla dissoluzione del progetto in cui credeva. Parallelamente alla crisi esterna, che porterà ai due blocchi delle elezioni politiche del 1948, si consuma in lui una crisi interiore. Dirà Meneghello a Paolini: «Ad un certo momento mi è sembrato che la patria non mi volesse più. Ho pensato: qua è andata male…». Così Gigi, che nel frattempo ha conosciuto Katia (si sposeranno a Milano nel 1948), nel settembre 1947, dopo aver vinto una borsa di studio del British Council, si trasferisce in Inghilterra. Dovrebbe restarci pochi mesi, e invece si fermerà fino al pensionamento. Là si svolgerà la sua carriera accademica: all’università di Reading, nella valle del Tamigi, fonderà e dirigerà fino al 1980 il Dipartimento di Studi Italiani, uno dei più vivaci fuori dall’Italia. L’impatto col mondo inglese sarà fondamentale, e di questa esperienza scriverà nel Dispatrio (1993) come nei tre volumi delle Carte, vero e proprio retrobottega dell’officina (lui forse avrebbe detto «ufficina») meneghelliana. Temi come il rapporto con un presente difficile e opprimente, la delusione seguita alla Resistenza, l’incontro con una cultura che lo trasformerà nel profondo, sia a livello umano sia nel modo di scrivere: mi sembrano occasioni per intercettare una richiesta di senso che i nostri studenti sempre più ci chiedono in classe.    

«S’incomincia con…»

Meneghello se n’è andato il 27 giugno 2007. Una settimana prima, pronunciando la lectio magistralis per la consegna, a Palermo, della laurea honoris causa in filologia moderna, definiva la sua esperienza di scrittore «un lungo apprendistato». A quindici anni dalla sua scomparsa e a cento dalla nascita, credo che sia tempo di far approdare questo “apprendista della parola” anche fra i banchi di scuola. Possibilmente in modo non convenzionale, ibrido, imprevisto, come probabilmente sarebbe piaciuto a lui.

Concludo dunque suggerendo, a supporto dei libri già citati, un piccolo corredo di altri testi utili per costruire percorsi in classe, a partire da Jura, una delle raccolte di saggi e interventi in cui è Meneghello stesso a offrirsi come interprete e critico della sua opera.

Fra la vasta produzione critica, validi strumenti sono il saggio introduttivo, la cronologia e le note che corredano il Meridiano Mondadori (a cura di Francesca Caputo) nonché i vari lavori di Ernestina Pellegrini, di Pietro De Marchi e di Luciano Zampese, tre fra i massimi esperti del Nostro; del prof. Zampese, in particolare, per chi avvicinasse Meneghello per la prima volta suggerisco l’ottimo saggio La forma dei pensieri. Per leggere Luigi Meneghello. Da tenere d’occhio infine le attività promosse dall’Associazione culturale “Luigi Meneghello” di Malo, che dal 2008 svolge una preziosissima opera di riscoperta e divulgazione dell’opera dello scrittore.

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