Henry Jenkins: le buone ragioni di un ottimista. Sei sguardi critici sul destino digitale /3
La cattiva informazione abbonda online, ma abbondano anche i meccanismi di autocorrezione. In un mondo di questo tipo, fino ad ora possiamo fidarci solo delle istituzioni stabilizzate. Dobbiamo imparare a leggere una fonte d’informazione confrontandola con altre; a comprendere i contesti all’interno dei quali viene prodotta e circola; a identificare i meccanismi che assicurano l’accuratezza delle informazioni; e a capire all’interno di quali circostanze questi meccanismi funzionano al meglio. Messi a confronto con un mondo in cui l’informazione non è affidabile, molti di noi si rifugiano nel cinismo, non fidandosi di nulla di ciò che leggono. Dovremmo, piuttosto incoraggiare un clima di sano scetticismo, in cui tutte le pretese di verità vengono pesate con criterio, ma in cui esiste un imperativo etico nell’identificare e presentare la verità.
Agli studenti viene teoricamente insegnato a scuola come valutare criticamente i pro e i contro di un argomento. In un ambiente dei media sempre più pervasivo, devono, inoltre, essere in grado di riconoscere quando gli argomenti non sono esplicitamente identificati come tali. Il nuovo panorama mediale, composto dalle fonti di informazione mainstream, da progetti di blog collaborativo, da siti di informazione non istituzionali e da tecniche di marketing sempre più sofisticate, che si rivolgono a consumatori sempre più giovani, richiede che si insegni agli studenti a distinguere i fatti dalla finzione, il ragionamento dalla documentazione, il vero dal falso e il marketing dall’illuminismo.
Il digitale come casa comune
L’antinomia fra casa ed esilio digitale è posta da Shoshana Zuboff in apertura del suo importante studio sul “capitalismo della sorveglianza”. In poche incisive pagine, la studiosa definisce con chiarezza l’alternativa di fronte alla quale le società moderne si trovano: acquisire la capacità di conciliare i valori e i diritti conquistati attraverso un’evoluzione secolare con le tecnologie che avanzano inesorabilmente, mantenendo in questo modo un controllo saldo sulle potenziali conseguenze negative del loro utilizzo, in termini di isolamento e disumanizzazione della vita; oppure accettare supinamente un sostanziale asservimento agli interessi fortissimi che determinano la rapida diffusione dei dispositivi, all’immaginario e al sistema di valori veicolato da essi, che produce menzogna, perdita di autonomia, controllo, solitudine.
Nel libro “Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il XXI secolo”, l’intellettuale statunitense Henry Jenkins fornisce un contributo di idee e di proposte aperte e significative, finalizzate alla realizzazione della prima ipotesi. Egli crede nella possibilità di costruire una casa digitale, nella quale, dal punto di vista psicologico, gli strumenti tecnologici e le logiche ad essi sottese potranno diventare vettori di libertà ed emancipazione da falsi bisogni; nel campo del sapere e della scuola, potranno spingere verso lo sviluppo di una maggiore creatività individuale e di una forte distribuzione della conoscenza, che diverrà in questo modo condivisa ed equa, rovesciando le dinamiche di individualismo e competizione caratteristiche della contemporaneità; nelle dinamiche sociali, potranno essere elementi di allargamento della partecipazione, inclusione ed espansione di interessi e attitudini collettive e personali, contrastando le spinte alla settorializzazione e alla divisione, e i processi oggi prevalenti di crescente separazione fra le persone.
Principi di tecnologia democratica
Il concetto fondamentale nella riflessione di Jenkins è quello di “cultura partecipativa”:
Una cultura partecipativa è una cultura con barriere relativamente basse per l’espressione artistica e l’impegno civico, che dà un forte sostegno alle attività di produzione e condivisione delle creazioni e prevede una qualche forma di mentorship informale, secondo la quale i partecipanti più esperti condividono conoscenza con i principianti. All’interno di una cultura partecipativa, i soggetti sono convinti dell’importanza del loro contributo e si sentono in qualche modo connessi gli uni con gli altri (o, perlomeno, i partecipanti sono interessati alle opinioni che gli altri hanno delle loro creazioni).
Le espressioni e le forme di questa cultura non costituiscono un ipotetico scenario futuro, ma sono già oggi capaci di polarizzare l’interesse, la sensibilità e le conoscenze di gran parte dei cittadini, e soprattutto dei giovani. Lo studioso americano le raccoglie in quattro principali manifestazioni, che ciascuno di noi ha modo di osservare intorno a sé, e di cui spesso è partecipe: affiliazione (“essere utenti, in maniera formale o informale, di community online”, come ad esempio Facebook), espressioni creative (produrre nuove forme creative come i fan video, le fanzine, le fan fiction), problem solving di tipo collaborativo (“lavorare insieme, in gruppi formali o informali, per raggiungere obiettivi e sviluppare conoscenze”, come nel caso di Wikipedia), circolazione (“modellare il flusso dei media, così come accade con il podcasting o i blog”).
Partendo dalla constatazione della pervasività e dell’onnipresenza di queste manifestazioni, egli nega però alla dimensione tecnologica e all’uso degli strumenti qualsiasi patente di “naturalezza”, negando credibilità alla favola dei “nativi digitali” spontaneamente portati ad un uso consapevole e creativo delle tecnologie a loro disposizione. Punta invece l’attenzione sui problemi politici e pedagogici prodotti dalla diffusione inarrestabile di questa forma di espressione culturale e degli strumenti che la accompagnano e la determinano.
Alcuni hanno sostenuto che i bambini e i ragazzi acquisiscono da soli abilità e competenze chiave, interagendo con la “cultura popolare”. Tre elementi suggeriscono, comunque, l’esigenza di un intervento politico e pedagogico:
1 IL GAP DI PARTECIPAZIONE L’accesso ineguale a opportunità, esperienze, abilità e conoscenze che contribuiscono a preparare i giovani alla partecipazione a pieno titolo al mondo di domani.
2 IL PROBLEMA DELLA TRASPARENZA Le sfide che devono affrontare i giovani nell’imparare a riconoscere i modi in cui i media formano le percezioni del mondo.
3 LA SFIDA ETICA Il crollo delle forme tradizionali di socializzazione e formazione professionale che dovrebbero preparare i giovani per i ruoli, in cui saranno sempre più impegnati, di creatori di media e partecipanti alla vita comunitaria.
Sulla base di queste premesse ideali, ritiene che nel dibattito pubblico, come nelle azioni politiche, si dedichi un eccesso di attenzione al problema delle dotazioni tecnologiche: molti politici, intellettuali e pedagogisti si mostrano convinti che la partecipazione, la trasparenza e la consapevolezza etica si raggiungano in modo automatico, attraverso un progressivo ampliamento della presenza e dell’utilizzo di strumenti tecnologici presso fasce sempre crescenti di popolazione, e in particolare fra i giovani. Si tratta a suo avviso di una convinzione erronea: solo l’apprendimento di conoscenze culturali e competenze critiche che possano consentire loro di fare un uso consapevole dei mezzi a loro disposizione, potrà consentire una libera e piena partecipazione dei giovani alle culture e alle espressioni attuali.
Il passaggio dall’enfasi posta sulle capacità dei mezzi a quella posta sulle implicazioni sociali, civili e politiche del loro utilizzo è la chiave per dare alle tecnologie connotati democratici e autentica dignità culturale.
Se il mito degli strumenti digitali è un puro espediente retorico per evitare il confronto critico sul loro utilizzo, non meno dannosi risultano gli effetti della paura di tanti genitori ed educatori, che determinano un atteggiamento eccessivamente negativo verso le conseguenze prodotte nei bambini e nei giovani dal consumo dei media. Gli evidenti vantaggi e i progressi consentiti a molti giovani dalla loro esperienza dei media sono infatti acquisiti in prevalenza nell’ambito di chat, giochi, social. A queste dimensioni l’agenda politica dedica solitamente poca attenzione, quando non una marcata diffidenza, perché presuppongono una marcata interazione fra apprendimenti formali e informali e la disponibilità della scuola a mettere in discussione il proprio ruolo tradizionale. Jenkins ritiene invece necessario allargare il dibattito pubblico e l’agenda politica non solo alle pratiche digitali focalizzate sulla comunicazione, ma anche a quelle basate sull’intrattenimento.
Sebbene egli si preoccupi spesso di precisare che il suo discorso riguarda specificamente la società e il sistema di istruzione statunitense, gran parte delle sue proposte possono essere riferite senza forzature concettuali al dibattito pubblico e all’azione politica nella realtà europea e in quella italiana.
La ricerca della continuità fra le espressioni culturali
Della sostanziale democraticità delle culture partecipative che il digitale può produrre, Jenkins sottolinea importanti elementi di continuità rispetto alle espressioni culturali che le precedono.
La prima è costituita dalla centralità della comprensione e della produzione testuale, fulcro di qualsiasi discorso sulle cosiddette competenze digitali. Di queste ultime, lo studioso sottolinea la coerenza e la complementarità rispetto a quelle che si sono evolute e affermate attraverso la cultura dei media a stampa.
Gran parte di ciò che è stato scritto circa le competenze necessarie nel XXI secolo sembra dare per scontato che la comunicazione attraverso i media visuali, digitali e audiovisivi soppianterà la lettura e la scrittura. Siamo profondamente in disaccordo con questa visione. Prima che gli studenti possano essere coinvolti nella nuova cultura partecipativa, devono essere in grado di leggere e scrivere. Proprio come l’emergere della lingua scritta ha cambiato le tradizioni orali e la creazione di testi stampati ha cambiato le nostre relazioni con la lingua scritta, l’emergere di nuove modalità digitali di espressione cambia il nostro rapporto con i testi a stampa.
Se si legge la breve definizione di alcune di queste “competenze per il XXI secolo”, non è difficile coglierne la coerenza con il migliore patrimonio di concetti, pratiche e finalità della formazione delle ragazze e dei ragazzi nelle nostre scuole di oggi. La “simulazione”, ad esempio, è definita come “abilità di interpretare e costruire modelli dinamici dei processi del mondo reale”, l’abilità di “appropriazione” consiste nel saper “campionare e miscelare contenuti mediali dando loro significato”. L’“intelligenza collettiva” risiede nell’essere capaci di mettere insieme conoscenza e confrontare opinioni con altri in vista di un obiettivo comune”, mentre la “negoziazione” è descritta come “abilità di viaggiare attraverso differenti comunità, riconoscendo e rispettando la molteplicità di prospettive e comprendendo e seguendo norme alternative”.
Attraverso queste competenze, mi sembra che si descriva una “comunità ermeneutica digitale”; la stessa che tante e tanti di noi insegnanti cercano di costruire, in forme e modalità differenti, integrando in varia misura le tecnologie nel loro percorso di insegnamento. L’intellettuale americano pone un fortissimo accento sulla dimensione sociale e condivisa del sapere e dei processi conoscitivi, e sull’esigenza che a partire dall’indiscutibile ruolo del docente, chi apprende intraprenda una ricerca personale e ne condivida i frutti con il gruppo. In classe come nelle più larghe, talvolta sterminate, comunità di fans e appassionati, il confronto fra idee e visioni diverse, la costruzione di ipotesi critiche e la loro socializzazione, l’assunzione da parte di diversi membri del gruppo di un ruolo attivo di guida e di “maestri”, non sono affatto frutto di una banalizzazione e di una moda pedagogica (come spesso accade nella propaganda dei tecnoentusiasti di casa nostra, con le proposte di “rovesciamento” della classe, o il luogo comune dell’anatema contro la lezione frontale).
Un forte elemento di continuità è costituito infine dal fatto che alcuni processi della produzione e del consumo caratteristici delle culture popolari costituiscono la naturale prosecuzione di meccanismi culturali preesistenti e profondamente radicati:
La maggior parte dei classici che insegniamo nelle scuole sono un prodotto dell’appropriazione e della trasformazione, o di ciò che ora chiameremmo campionamento e miscelazione. Omero ha “miscelato” i miti greci per scrivere l’Iliade e l’Odissea; Shakespeare ha “campionato” idee per le sue trame e i suoi personaggi da altri autori; il soffitto della Cappella Sistina mette insieme storie e immagini provenienti dall’intera tradizione biblica; Lewis Carrol falsifica il vocabolario dei versi esemplari che, allora, erano lo standard per l’educazione formale. Molte opere centrali per il Canone Occidentale sono emerse attraverso un processo di racconto rielaborazione e nuovo racconto.
Realtà e utopia: una prospettiva di cambiamento
Il discorso di Jenkins non assume mai i toni predicatori tipici dei cultori dell’innovazione tecnologica, come anche di molti loro oppositori.
Egli si tiene lontano dal determinismo tecnocratico e dall’ontologia positiva del digitale “buono e giusto” per definizione, e quindi ingrediente indispensabile ad una didattica che si rispetti. Ma contesta chiaramente anche il riduzionismo strumentale, per cui il ricorso al digitale sarebbe solo uno fra i tanti metodi possibili, e il rifiuto di esso non comporterebbe nessuna seria conseguenza nell’apprendimento dei giovani e nel loro esercizio di una cittadinanza consapevole.
Gran parte della resistenza alla sperimentazione della media literacy nasce dall’idea che la tipica giornata scolastica stia per esplodere e che sembra impossibile provare a inserire nuovi obiettivi senza correre il rischio che il sistema dell’istruzione collassi del tutto. Per questo motivo non vogliamo vedere la media literacy trattata come una materia aggiunta. Piuttosto, il suo insegnamento dovrebbe portare a un cambio di paradigma che, come il multiculturalismo o la globalizzazione, rimodella il modo in cui si insegnano tutte le altre materie. Il cambiamento dei media colpisce ogni aspetto della nostra esperienza contemporanea e, di conseguenza, ogni disciplina scolastica deve assumersi la responsabilità di aiutare gli studenti ad acquisire le abilità e le conoscenze di cui hanno bisogno per padroneggiare un ambiente ipermediato.
Nella sua prospettiva, quindi, si tratta di sperimentare dal basso, non di imporre dall’alto in modo autoritario, come la cultura del digitale possa essere conciliata con l’insegnamento tradizionale. Nel capitolo quinto del suo libro, interamente dedicato ad esporre e discutere esperienze didattiche che vanno in questa direzione, le scelte dei docenti sono proposte alla riflessione critica di chi legge attraverso le parole “cosa si può fare”. Perché sia chiaro che si tratta di ipotesi aperte, di un cammino che è al suo inizio.
Ma l’approccio realistico non nasconde l’orizzonte di utopia: “padroneggiare un ambiente ipermediato” è infatti la finalità più alta che l’educazione del XXI secolo possa prefiggersi.
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