Diaz, non pulire questo sangue. Il film, la sceneggiatura, le foto. Conversazione con Daniele Vicari: «Uscire dal reducismo per superare la sconfitta di Genova 2001»
Intervista di Katia Trombetta
Lo scorso 15 luglio, a ridosso del ventennale dei fatti che segnarono il G8 di Genova 2001, è uscito per Fandango Libri Diaz, non pulire questo sangue. Il film, la sceneggiatura, le foto, di Daniele Vicari. La parte più corposa del libro è costituita da un nutrito apparato fotografico, che raccoglie gli scatti realizzati da Alfredo Falvo sul set del film diretto nel 2011 da Vicari, e dalla sceneggiatura che il regista ha scritto assieme a Laura Paolucci. Le foto e la sceneggiatura sono precedute da una serie di riflessioni e interventi critici. Si va dalla breve nota del produttore, Domenico Procacci, a quella dello stesso Vicari, alle interviste di Ettore Scola e Ugo Gregoretti. I testi sono affiancati da alcuni dei disegni che compongono lo storyboard. Si tratta dunque di una proposta editoriale che sollecita la riflessione su Genova a partire dalla datità del film, nella misura in cui il libro rende conto del piano materiale della sua lavorazione tecnica da un lato e, dall’altro, della sua dimensione estetica. Su entrambi questi piani il film è sostenuto dalla necessità di porre al centro di una riflessione collettiva su Genova in primo luogo i fatti, gli eventi nudi e crudi di quelle giornate, e cioè la violenza inappellabile, la sospensione dello stato di diritto. Il libro rimanda quindi al film in questi termini proprio perché esplicita il suo particolare farsi come opera d’arte cinematografica che, sia per lo sforzo realizzativo che presuppone, sia per il linguaggio scelto dal regista, riesce a esprimere una «rappresentatività documentale superiore a quella della documentazione reale» (Ugo Gregoretti). Ciò ha conseguenze cruciali nel momento in cui il film si inserisce, ieri come oggi, nel discorso pubblico su Genova, imponendo un inequivocabile ordine di priorità rispetto ai possibili livelli di analisi. Ne abbiamo parlato con Daniele Vicari, a margine della proiezione del film, svoltasi lo scorso lunedì 19 luglio presso gli spazi di Casetta Rossa a Roma.
Daniele, Diaz è un film che non ha un impianto narrativo lineare. C’è una scena — il lancio di una bottiglietta quando la pattuglia della Polizia passa davanti alla scuola Diaz la mattina del 21 luglio — che ricorre ciclicamente. Da quel lancio e dall’infrangersi della bottiglietta sull’asfalto riparte più volte il racconto, tornando indietro e andando avanti a salti, seguendo il punto di vista di personaggi differenti. Come ha scritto Ettore Scola «è una scansione che ogni volta ci avvicina di più alla tragedia» e che rende conto della impossibilità di riaggregare la complessità degli eventi della Diaz e di Bolzaneto secondo un ordine lineare. Quali sono oggi nel discorso pubblico, dopo venti anni dal G8 e quasi dieci dal film, gli ostacoli maggiori rispetto a un corretto inquadramento dei fatti di Genova?
«Diaz è un film che si propone di guardare in faccia un tragico avvenimento, e lo fa con gli strumenti propri del cinema, attraverso precise scelte espressive, nel tentativo di articolare un discorso capace di mettere in discussione l’immaginario che il potere ha pazientemente costruito rispetto a quei fatti. Di questo, e cioè di guardare in faccia quella violenza, oggi c’è ancora bisogno. Credo cioè che sia necessaria una profonda autocritica rispetto al tema della rimozione che abbiamo operato relativamente a ciò che è accaduto a Genova. Noi italiani mostriamo spesso di vedere lo Stato come una sorta di totem. Si tratta di una distorsione percettiva che a sua volta genera dei tabù. Uno di questi, il più rilevante a mio avviso, è stato proprio quello che per anni, e in certa misura ancora oggi, si è manifestato nella forma di un pudore resistente, che ha inibito la possibilità stessa di definire esplicitamente tortura le violenze inaudite messe in atto a Genova. Non che questo sentimento non sia umanamente comprensibile, ma arriva un momento in cui è necessario iniziare a parlare e farlo nei termini corretti, chiamare le cose con il loro nome. Pur nel suo gigantismo, infatti, Genova non è stato un episodio eccezionale nella storia della costruzione del nostro stato democratico, ammesso che questo processo possa dirsi effettivamente compiuto. Le violenze di quelle giornate alludono a una sistematicità della tortura che è purtroppo un tratto distintivo della nostra storia, una storia che sta lì a dimostrarlo, a partire dai massacri che hanno segnato il compimento del Regno d’Italia fino ad arrivare a Genova, e oltre. Ricordo ad esempio che nel 1991 arrivò nel porto di Bari la nave “Vlora”, carica di migranti albanesi in fuga. Quelle persone vennero poi trasferite allo Stadio della Vittoria, dove veniva lanciato loro il cibo dagli elicotteri facendo sì che le persone assetate e affamate si aggredissero tra loro per accaparrarsi il cibo. Da ultimo, in questi giorni, abbiamo appreso dei fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Sono eventi, questi e molti altri, che non riusciamo ancora a guardare in faccia per quello che sono, nel loro carattere di sistematicità, ma è una responsabilità che ci si deve assumere, a rischio di risultare brutali, perché se non riusciamo a dirci nemmeno questo, diventa impossibile poter fare anche altro. Soprattutto l’azione politica resta inefficace senza la comprensione di questi meccanismi».
Nel film si rende conto della totale sospensione dello stato di diritto nelle giornate di Genova, che è poi la presa di coscienza più ardua a cui invita il racconto. Nella scena di Bolzaneto in cui Alma, una giovanissima no-global, viene costretta a denudarsi davanti ai poliziotti, uno di loro intona una canzonetta fascista, «manganello, manganello che rischiari ogni cervello». Si tratta di un dato documentale, che tu hai desunto dagli atti del processo, come del resto la quasi totalità dei dialoghi. Come si spiega nel 2001 il prodursi di una simile circostanza?
«Si spiega proprio nella misura in cui ci si rende conto che questo fa parte della cultura e della formazione di una fetta dello Stato, che la canzonetta fascista concorre a costituire tutto un armamentario che non dovrebbe appartenere a un poliziotto della Repubblica Italiana. La disponibilità alla violenza che abbiamo visto a Genova non può realizzarsi improvvisamente nella coscienza di un individuo nell’arco di tre giornate. Se ciò accade significa che quell’individuo è stato educato per poter rispondere a determinate sollecitazioni. In questo senso esiste un problema che riguarda la formazione delle forze di polizia e l’idea stessa della gestione dell’ordine pubblico, concepita in termini militari, e non è un caso infatti che a Genova molti poliziotti fossero ex militari. Se questi erano come erano i dati di contesto, occorre allora riconoscere onestamente anche altro. Le responsabilità del Movimento oggi appaiono evidenti, proprio nella misura in cui si consolidò la convinzione che l’ordine pubblico dovesse essere garantito dalla Polizia, cioè da una polizia così congegnata. Bisognava essere se non altro consapevoli del livello dello scontro e soprattutto della violenza che si poteva scatenare dall’altra parte, ed essere quindi preparati a sostenere quel conflitto. Al contrario allora abbiamo assistito a dichiarazioni di rappresentanti del Movimento che caldeggiavano arresti preventivi degli esponenti (presunti) del Blocco Nero, non rendendosi conto che simili affermazioni andavano proprio a sposare la logica stessa della istituzione di Bolzaneto, fermo restando peraltro che, a mio avviso, fu un altro grave errore politico non aver interloquito con gli anarchici».
Diaz è un film polifonico, che restituisce non solo la composizione eterogenea del Movimento ma anche le sensibilità diverse all’interno delle stesse forze di polizia. È quindi anche attraverso la coralità del racconto, che propone una molteplicità di angolature, che lo spettatore è costantemente sollecitato a porsi domande. Come tu stesso hai evidenziato «la denuncia è insita nel racconto» ma allo spettatore non arrivano risposte dal film. Per chiunque abbia maturato una reale consapevolezza rispetto ai fatti della Diaz e di Bolzaneto e per chiunque abbia visto il film, dunque, resta il disagio di confrontarsi umanamente e politicamente con l’evidenza di una violenza senza appello. Come si fronteggia questa realtà una volta che la si è riconosciuta, e come la narrazione corale di cui il film è portatore può diventare patrimonio collettivo?
«La violenza che abbiamo conosciuto e documentato a Genova si combatte in primo luogo con l’antifascismo, c’è poco da fare. Si combatte attraverso l’arte, la cultura, l’informazione, e recuperando l’attivismo politico. La democrazia è una dinamica e se in questa dinamica una delle parti si ritira e si disarma, il più forte è sempre colui che esercita la violenza. Una memoria collettiva sui fatti di Genova, tale da poter esprimere dei valori identitari condivisi, si potrà adeguatamente sviluppare soltanto se si generano conflitto e dialettica sociale, oltre la liturgia del ricordo e dei monumenti alla memoria, che sono altra cosa. In questa prospettiva la dimensione del racconto e della testimonianza non può più restare confinata nel reducismo. Va superato, le ragioni individuali devono incontrare altre ragioni. Certo, gli spazi di agibilità politica oggi sono quelli che sono. La sconfitta di Genova è stata anche la sconfitta della possibilità concreta di costruire una controcultura e di praticare una controinformazione in determinate forme, proprio perché Genova è stata anche la prima manifestazione di massa ad essere documentata in maniera così cospicua da tutti i mezzi di comunicazione analogici e digitali. Dopo ci fu il colpo di grazia dell’11 settembre. Di lì abbiamo iniziato a essere ancora meno liberi, abbiamo accettato il controllo, l’ingresso delle istituzioni nelle nostre vite private e la situazione in cui ci troviamo oggi, a seguito dell’emergenza sanitaria, è un altro passo avanti in questa direzione. Tuttavia sono convinto che proprio in questo momento qualcosa di interessante stia succedendo. Anche dopo Genova tante persone, gruppi e individui non hanno rinunciato completamente all’attività politica, c’è stata una forma di resistenza. Ed ora, un anno e mezzo di totale mancanza di agibilità politica e sociale, prodotta dalle misure di distanziamento, sta portando le persone a rivalutare la libertà, compresa quella di espressione, e si stanno innescando nuove spinte. Si è sempre meno disposti ad accettare verità di comodo e la retorica delle commemorazioni genera un fastidio che può essere il concreto preludio alla ripresa di una fase di autentico e più diffuso attivismo politico».
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