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diretto da Romano Luperini

Consigli di lettura per l’estate 2021

 La letteratura e noi va in vacanza fino a fine agosto. Pubblichiamo i nostri consigli di lettura per l’estate e auguriamo a tutti buone vacanze.

Alberto Bertino

Dopo un anno faticoso come quello trascorso in aule semideserte e su connessioni instabili la prima lettura che farei è il Deserto dei tartari di Dino Buzzati: in attesa di un nuovo anno scolastico che arriverà senza che alcun problema dell’anno precedente sarà risolto. Il futuro è il passato che rotola sul presente. Chi vorrà rileggere il mondo, e la rappresentazione narrativa multimediale (parola, disegno, video, segno), potrebbe fruttuosamente, a mio parere, interrogare ancora Buzzati autore di due libretti deliziosi da lui stesso illustrati:

Il segreto del bosco vecchio (Mondadori) è un romanzo lieve per questo comunemente indicato come lettura per ragazzi. Ermanno Olmi ne ha tratto nel 1993 un film, che è valso a Paolo Villaggio  un Nastro d’argento per la sua interpretazione del colonnello Procolo. La vicenda drammatica dell’interesse economico e del potere, del cinismo e dell’aridità sentimentale, viene trattata poeticamente, tra il vento gradasso e il topo malvagio. Ma chi è stato tra i boschi sa che esistono quei Geni che animano e proteggono gli alberi e gli animali. La favola è che proteggano anche un orfano, il dodicenne Benvenuto, e che alla fine ci sia redenzione dal male;

La famosa invasione degli orsi in Sicilia (Mondadori). Val la pena di leggere questa fiaba per incontrare il Gatto Mammone, i cinghiali volanti di Molfetta gli spettri di Rocca Demona. E poi si rifletterà sulla guerra e sulle “diavolerie” che gli uomini hanno inventato perdendo il contatto con la semplicità della natura di cui gli orsi sono trasparente allegoria. La Sicilia è qui mito, terra arcaica tuffata nel mare del tempo. Nel 2019 ne è stato tratto un film di animazione che tra le voci ci consente di riascoltare Andrea Camilleri.

Altri due titoli e due autori che intendo ri-leggere e ri-usare sono legati al postmodernismo. Si tratta di Qui pro quo (Bompiani) di Gesualdo Bufalino, che di Comiso ha fatto l’ombelico della letteratura, il centro di gravità permanente della citazione: è la riscrittura del romanzo giallo, è l’inchiesta – alla fine del Novecento – sulle possibilità del genere romanzo, che attraversa le tempeste delle citazioni e del già raccontato, con colpi di scena annessi per i lettori di lungo corso; e di Se una notte d’inverno un viaggiatore (Mondadori) di Italo Calvino, che ha dato avvio al romanzo postmoderno in Italia. Un libro geniale nel cambiare le regole del gioco tra autore e lettore e probabilmente molto più citato che meditato e letto. Ricordo come folgorante non tanto l’inizio quanto la conclusione: “Ancora un momento. Sto per finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino” che inchioda il lettore nel suo attimo postfaustiano.

Ho lasciato per ultimo il libro che leggerò per primo, appena smetterò di scrivere queste righe. In realtà ne ho sbirciato qualche pagina ed i lettori di questo blog ne hanno potuto leggere un estratto. Si tratta di La tigna (Castelvecchi) di Roberto Contu. Una storia che parla anche di scuola, scritta da uno che vive la scuola.

Linda Cavadini

Nel secondo anno zero del Covid, la lettura mi ha spesso tenuta ancorata alla realtà: ho scelto libri che non mi permettessero di evadere, ma mi offrissero uno sguardo sui ragazzi di quell’età inquieta per eccellenza che è il biennio della scuola secondaria di secondo grado.

Il primo è un libro di poesie, o meglio un romanzo in forma poetica: Poet X di Elisabeth Acevedo, traduzione di Simona Membrini e Anna Rusconi, Sperling & Kupfer.

Per apprezzare Poet X è necessario spogliarsi dell’idea di poesia cristallizzata da secoli di tradizione, dalla ricerca di uno stile bello ed armonico. Xiaomara ha 15 anni, un passato pesante, ma nemmeno troppo, un corpo ingombrante che cresce e cattura sguardi rapaci degli uomini e le critiche di sua madre (quando hai un corpo che occupa più spazio della voce/ti bersagliano di cattiverie, non c’è storia/allora lasci che siano le nocche a parlare). Xiaomara è nata in Giamaica, mentre sua madre trova nella fede il senso dell’esistenza, per la ragazza la poesia è un altro modo di crescere e far sentire la propria voce in modo limpido, cristallino, mai sciatto: la poesia è un linguaggio nuovo che impara a scuola, anche grazie al poetry slam, ma è segreto perchè osteggiato dalla famiglia.

Probabilmente i miei volevano una figlia composta in chiesa/ vestiti di fiori e sorrisino dolce/invece anfibi da combattimento e una bocca silenziosa/ finché non taglia con un macete.

Leggere questo romanzo in forma di poesia è fare un viaggio diretto nella testa dei ragazzi, senza patine di memoria o vagheggiamenti romantici sul tempo passato. La Acevedo ci porta lì nei pugni chiusi, nella rabbia, nei palpiti e nei desideri unici dei quindici anni.

Benedetta Bonfiglioli è una delle penne più interessanti della letteratura per ragazzi, quest’anno ha vinto il premio Andersen con Senza una buona ragione, Pelledoca edizione. Anche questo libro esplora la complessità dell’adolescenza senza stereotipi e lo fa con un narratore tanto distaccato quanto un poco sadico, che si rivolge direttamente alla protagonista. e con le pagine di diario in prima persona. Se questo libro fosse un quadro, perdonatemi il giochino un poco sciocco, sarebbe L’inferno della nascita che Beckmann dipinse nel 1938, in cui uno strano personaggio mascherato incide sulla schiena profondi solchi ad un uomo immobilizzato. Con la casa editrice Equilibri ha pubblicato un’interessantissima raccolta di racconti Zucchero e sale, da leggere in classe, certo, ma soprattutto da tenere sul comodino perchè, malgrado le dichiarazioni, io credo si rivolga agli adulti: si sente il filtro del ricordo, la distanza tra chi racconta e chi vive la vicenda. Ogni racconto ha per titolo il nome del protagonista, le storie sono agrodolci ed aguzze, alcune mordono proprio, si racconta la vita che spesso è cattiva, dolce e amara insieme.

Ho lasciato per ultimo un libro non per quindicenni, ma anche coi quindicenni va letto e discusso: Noi schiavisti, come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa, scritto da Valentina Furlanetto per Laterza editori. La giornalista, con stile chiaro, semplice e mai banale ci racconta lo sfruttamento dei lavoratori attraverso dati e testimonianze: scopriamo dunque il racket delle badanti, le condizioni dei lavoratori nei mattatoi tedeschi, nei cantieri navali, negli allevamenti; la vita difficile dei rider, degli spaccapietre cinesi, dei braccianti. Questo libro mi accompagnerà tutto l’anno, sarà uno dei nostri strumenti per affrontare educazione civica, per discutere insieme ai ragazzi della realtà in cui siamo immersi e di cui siamo responsabili.

Daniele Lo Vetere

Presento due coppie di libri, ciascuna unita da un tema comune: nel primo caso la stessa città, nel secondo caso la stessa esperienza esistenziale.

Il punto d’approdo del brevissimo memoir di Hisham Matar è Siena (Un punto di approdo, Einaudi 2020). L’autore, un libico naturalizzato inglese, figlio di un oppositore di Gheddafi desaparecido dentro le carceri del dittatore, si innamora della pittura senese alla National Gallery di Londra. Dopo moltissimi anni di indugio, decide di visitare la città: ci passa un mese, limitandosi a gironzolare senza meta per il centro storico e fermandosi per ore e ore, in reiterate visite, a guardare pochi e scelti quadri, dentro il Palazzo pubblico, dentro la Pinacoteca, dentro l’Oratorio di San Bernardino, fino a quando non ne cattura il senso. Lo straniero Matar sembra quasi il nativo Mario Luzi, nelle prose e poesie dedicate alla città (sparse nella sua opera. Chi vuole tentare la fortuna provi a procurarsi un’edizione speciale e poco diffusa, a cura della Provincia di Siena, dove sono interamente raccolte e contornate delle meravigliose foto di Pepi Merisio: Mi guarda Siena, 2002). Sia dalle parole di Matar che da quelle di Luzi si ricava la sensazione che a Siena si dia una coincidenza, assai più rara altrove, tra lo spazio fisico – urbanistico, architettonico – e l’idea archetipica che lo sorregge. Nella corrispondenza tra quanto la città è oggi, la sua storia e la sua arte, entrambi gli scrittori trovano l’occasione per un viaggio nella propria memoria, vinti dall’impressione che in questo luogo essa cessi di essere esclusiva ed entri in peculiare risonanza con una dimensione dello spazio e del tempo più vasta e profonda, che preesiste loro e li contiene.

Il giovane filosofo svedese, ma docente negli Usa, Martin Hägglund ha scritto un ambiziosissimo e impressionante saggio, dal titolo Questa vita. Finitezza, socialismo e libertà (Neri Pozza, 2020), nel quale si impegna a definire una «fede secolare» dal sapore esistenzialista, radicalmente immanentista e dotata di profonde implicazioni politiche. L’uomo non ha altro, meglio non è altro, che il tempo finito che ha a disposizione: questa radicale finitezza rende i suoi progetti imperfetti, sempre a rischio di fallimento e bisognosi di impegno e di cura perché possano concretizzarsi. Ma perché impegnarsi in qualcosa che, dopo l’annullamento completo della nostra morte, non vedremo più? La cura, da un lato, manifesta la natura più profonda della nostra libertà di scegliere a cosa dare valore, atto che va compiuto qui e ora; dall’altro è necessaria in nome di chi verrà, ereditando dal nostro impegno il mondo. La finitezza della nostra condizione ci chiama perciò all’azione politica, che Hägglund esplora attraverso una interessante rilettura di Marx. Nel corso delle proprie riflessioni, il filosofo cita come esempio di fede secolare il Diario di un dolore (Adelphi 1990, ed. or. 1961) di C. S. Lewis, il noto autore de Le cronache di Narnia. Si tratta di un diario realmente tenuto dallo scrittore inglese dopo la morte della moglie Helen Joy, per cancro. Lewis scrive che «l’amata terrena trionfa incessantemente sulla semplice idea che abbiamo di lei. […] Ed è questo, e non un’immagine, o un ricordo, che dobbiamo continuare ad amare, dopo che è morta». Nell’interpretazione di Hägglund il credente Lewis si confronterebbe qui con l’esperienza della finitezza irrimediabile: «la speranza dell’eternità non dà consolazione. Quand’anche fosse esaudita, quella speranza non riporterebbe indietro la vita che si è convissuta». E in effetti, questa dimensione “secolare” è presente nelle pagine di Lewis, che resta ostinatamente fedele alla moglie così com’era in vita. Ma lo scrittore resta pur sempre un cattolico che ha fede nella trascendenza: l’interpretazione di Hägglund è perciò interessante, ma parziale. Nel brevissimo e bellissimo Diario di un dolore c’è perciò molto altro: la verifica della propria fede in Dio dopo un tale lutto, un’autoanamnesi minuziosa dell’esperienza del dolore (il titolo inglese è più preciso: A grief observed), alcune delle parole d’amore più belle che io abbia mai letto.

Luisa Mirone

Eccola lì, accanto alla mia scrivania, la solita pila di libri, quelli che a gennaio, marzo, maggio non ho il tempo di leggere, ma che compro lo stesso, nell’attesa fiduciosa di luglio. Tracotante quanto la torre di Babele, quella pila sfida il cielo della mia estate.

Alla base c’è l’imponente Odissea di Nikos Kazantzakis (Crocetti editore), finalmente anche in Italia nella traduzione di Nicola Crocetti. Opera “fluviale, proteiforme, straordinariamente complessa e visionaria” (così la definisce il traduttore) dell’autore di Zorba il greco, essa prosegue il racconto omerico: dopo un bagno purificatore che lo monda dal sangue dei Proci, Ulisse, accompagnato dagli epiteti di Omero e da un centinaio di epiteti di nuovo conio (Canzonadéi, Distruggimondi, Conoscicuori, Milleanime, Petto di mare…), riprende i suoi viaggi fitti di incontri, intraprende la costruzione di una città ideale e conquista, dopo che un terremoto l’avrà abbattuta, la libertà assoluta, emancipandosi da Dio, per consegnarsi infine alla Morte. Attraversata da suggestioni culturali di provenienza varia, soprattutto di marca nietzschiana e bergsoniana, Odissea esplora le infinite strade e derive della libertà – di pensiero, di azione, di movimento fisico, spirituale, intellettuale – in una lingua che è non solo ricognizione di un patrimonio lessicale antico e prossimo all’estinzione, ma sarcitura di un tessuto valoriale smagliato eppure resistente.

C’è un po’ di Odissea anche ne Le galanti di Filippo Tuena (ilSaggiatore), ma anche un po’ delle Eroidi, e dell’Orlando furioso, e ancora un ricco repertorio di cose seducenti che ho letto qui, sulle pagine di questo blog – ed è per quelle che ho comprato il libro, più di un mese fa.

Non saranno letture di quelle che si fanno d’un fiato. Lo so. Avrò bisogno di pause e soste e di altri libri che sappiano scandirle. Ne ho scelti – dalla pila – tre.

Il rumore del tempo di Osip Mandel’štam (Passigli editori). All’inizio c’è stato ancora un poema, la Divina commedia della Conversazione su Dante, e poi non mi sono fermata. Ho letto le poesie e poi ho scoperto le prose di questo straordinario poeta, morto d’inedia nel 1938 in un campo di concentramento sovietico. Tre in tutto (Il rumore del tempo, Feodosia, Il francobollo), queste brevi opere sono intessute di ricordi ma non si piegano all’autobiografia. Esse cercano piuttosto, attraverso i documenti della memoria, il senso degli eventi anche terribili di quell’epoca (e forse di ogni epoca), nonché la funzione della letteratura: “la letteratura mi appare nel suo complesso come qualcosa di signorile che mi turba: sollevo con trepidazione la pellicola di carta cerata sopra il berretto invernale dello scrittore. Nessuno ne ha la minima colpa e non c’è da vergognarsi di nulla. La belva non deve vergognarsi della sua pelliccia. È la notte che gliel’ha fatta. È l’inverno che l’ha vestita. La letteratura è una belva. Il suo pellicciaio è la notte e l’inverno” (p.81).

Sparare a una colomba di David Grossman (Mondadori). Sono saggi e discorsi quelli raccolti in questo volume (bello fin dalla copertina), che ho acquistato dopo aver ascoltato con grande emozione questo scrittore parlare al Taobuk; e si legano alle prose di Mandel’štam nell’intento esplicito di superare il personalismo per riconvertire incontri, relazioni, esperienze in una “storia di esseri umani, fluida, stratificata, aperta, dalle molte possibilità” (p.10).

L’invenzione della solitudine di Paul Auster (Einaudi). In due segmenti distinti e connessi (Ritratto di un uomo invisibile e Il libro della memoria), lo scrittore traccia il perimetro del rapporto difficile col padre, all’indomani della sua morte. “Più che un uomo che occupa uno spazio, sembrava un blocco di spazio impenetrabile in forma di uomo” (p.5): la narrazione penetra in quello spazio e diventa indagine, scoperta, bilancio misurato e commosso. Ho bisogno di questa lettura. Mio padre è mancato un anno fa. 

Stefano Rossetti

Propongo alle lettrici e ai lettori libri diversi per stile e struttura, uguali nella passione che li anima.

L’ora di Agathe (Iperborea), della poetessa e psicologa danese Anne Cathrine Bomann, è sospeso fra il romanzo storico e psicologico. In una cittadina francese, negli anni quaranta dello scorso secolo, un anziano psicanalista consuma nella tristezza e nella routine gli ultimi mesi della sua vita professionale. Recalcitrante, accetta di iniziare la cura di una nuova paziente con gravi disturbi, Agathe. Curandola, capirà per la prima volta di dover curare se stesso, e che non è troppo tardi per cominciare a vivere. Un libro delicato, frammentario e filosofico, con un bellissimo lieto fine, che non guasta proprio mai.

Non leggerai (Giunti), della raffinata scrittrice napoletana Antonella Cilento, ambienta in una Napoli distopica una riscrittura del romanzo di Bradbury. In un Occidente in cui un Decalogo governativo vieta la lettura, dove nelle Scuole Riassunto delle periferie gli studenti devono svolgere esclusivamente compiti filmati con il cellulare, la ribelle Help Sommella fa amicizia con una nuova timida compagna, Farenàit Lopez. Insieme, in una vicenda rocambolesca di ritrovamenti, camorra e passione, comprendono che leggendo i libri si arriva a scegliere il proprio destino. Innovativo nella ricerca stilistica, peraltro mai ostentata, questo romanzo coinvolge e commuove.

Flora (Sellerio), di Alessandro Robecchi, è un gioiello: episodio autoconclusivo di una serie di romanzi milanesi, fra il poliziesco e la satira di costume, è caratterizzato da un meccanismo narrativo complesso e perfetto. Chi ha rapito Flora de Pisis, sacerdotessa della televisione spazzatura dei sentimenti? Perché i rapitori chiedono di poter trasmettere per un’ora in prima serata, senza interruzioni pubblicitarie? Fra pseudointellettuali, commentatori e politici accomunati da ipocrisia e secondi fini, Carlo Monterossi, autore superpagato della televisione commerciale (la “Grande Fabbrica della Merda”, come la definisce lui stesso), indaga con alcuni amici ed amiche. Questa storia attesta, se ce ne fosse bisogno, che pochi autori odierni sanno contaminare letteratura colta e dimensione pop come Robecchi.

L’ultimo libro è un saggio, ma raccontato così bene da sembrare un romanzo. È La città femminista (Treccani), della geografa urbana canadese Leslie Kern. Un’indagine sul sessismo e sulla discriminazione invisibile, scritta nei luoghi in cui le donne camminano, respirando spesso sottomissione e paura: i territori stranieri delle città disegnate dagli uomini. Come spesso accade alle pensatrici femministe, Kern mette in luce un coraggio intellettuale e un anticonformismo straordinari, e racconta con maestria la città delle amiche, delle mamme, della paura. Con apertura mentale non inferiore allo spirito critico, comprende la difficoltà di immaginare nuove realtà urbane, ma ne sente la necessità. E ci trasmette tutta la sua consapevolezza.

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