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diretto da Romano Luperini

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Ivo Andrić a scuola. Letteratura, storia… e anche geografia

Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

Di solito è molto difficile non assecondare un’intuizione didattica, specie se l’intuizione ha a che fare con la possibilità di leggere un’opera di letteratura, o una sua parte, anche laddove la lettura rischia magari di aprire più problemi di quanti ne possa risolvere. Nel caso specifico si tratta della possibilità di impiegare in una lezione di storia/ geografia — con tutte le ricadute del caso — uno dei primi capitoli di quel capolavoro di Ivo Andrić che è Il ponte sulla Drina, in cui si narra la storia della cittadina bosniaca di Višegrad dall’inizio del dominio ottomano fino alla prima guerra mondiale.

Siamo in una classe seconda della secondaria di primo grado che ha appena affrontato in storia la costituzione dello stato ottomano e che, in geografia, sta iniziando lo studio della regione dei Balcani. La scelta di correlare esplicitamente i due temi si fonda proprio sul tentativo di conferire una dimensione di profondità a quella serie di drammi contemporanei che gli alunni della classe seconda si trovano di fronte in modo alquanto brutale e disorganico e che solitamente sono derubricati sotto la dicitura di «guerre jugoslave». Tanto più che i piccoli studenti devono già superare un vero e proprio gap cognitivo per tutto ciò che riguarda la geografia politica europea, dal momento che, molto banalmente, gli eventi più recenti che determinano gli attuali confini politici del continente si affrontano approfonditamente in terza media.

Così, dinanzi alla complessità della regione balcanica, i docenti della secondaria di primo grado si trovano di fronte a un enigma dal punto di vista didattico, lo stesso che forse con intensità ancora maggiore devono affrontare nel momento in cui si confrontano con la questione israelo-palestinese, o con tutta una serie di temi talmente complessi da essere tentati di affidare al futuro percorso di studio degli alunni anche solo un loro primo inquadramento. Ci si potrebbe quindi limitare — e sarebbe comunque una scelta legittima, se consapevolmente meditata — ad enunciare che nel 1453 Costantinopoli cade e che la gran parte dell’Europa orientale diventa dominio degli Ottomani. Oppure si può provare a seguire un’intuizione, chiedendo aiuto a un’opera di letteratura, nella consapevolezza che la dialettica che si è aperta nel XV secolo in quella regione continua a essere un nervo scoperto della storia europea. Non si tratta chiaramente di travestire un’opera di letteratura da documento storico, quanto di provare ad aprire un varco nella bidimensionalità degli eventi anche recenti, attraverso un immaginario che possa consentire ai piccoli studenti — anche se confusamente, non importa — di pesare nel proprio animo un po’ della complessità della storia dei Balcani.

Quattro ragioni per dire «»

In questo senso il capitolo II de Il ponte sulla Drina è un testo che si presta bene a essere letto a una classe di ragazzi di dodici anni, per una serie di ragioni.

Prima: il capitolo, come anche molti altri episodi del libro, ha una sua autonomia narrativa, si apre e si chiude in sé, quindi è perfettamente intelligibile sul piano degli eventi narrati e non contiene impliciti, tanto più che i ragazzi possiedono già le nozioni essenziali che definiscono il quadro storico di riferimento. La struttura narrativa è circolare, si annuncia in apertura del capitolo il giorno in cui si delinea in modo impreciso nella «fantasia di un bambino […] la prima immagine» del ponte sulla Drina e si conclude con quel bambino divenuto visir che mette a fuoco l’immagine un tempo indefinita del ponte e la concretizza.

Seconda: la prosa di Andrić ha un andamento mitico, cosa che rende il capitolo in questione qualcosa che somiglia molto a una fiaba di ambientazione orientale. In questa dimensione pertanto risulta pienamente tollerabile anche da parte di piccoli lettori la crudeltà pure presente nel testo, crudeltà che non sfocia mai in scene di violenza aperta e cruenta (per quanto non manchino dettagli crudi), che rendono invece improponibili per questa fascia di studenti altre parti del libro. Proprio come in una fiaba, quindi, la crudeltà e la sofferenza sono presenti per essere trascese sul piano simbolico e, in questo caso, anche storico, e in un certo senso psicologico.

Terza: il protagonista — quello che si potrebbe definire proprio l’eroe della fiaba — è un bambino di dieci anni, per cui la circostanza non può che attivare un rispecchiamento empatico da parte degli alunni, aprire delle connessioni anche importanti con le proprie esperienze personali, facilitare l’accesso a quella profondità che la semplice cronologia degli eventi nasconde. In questo il lirismo che caratterizza alcune sequenze è un alleato potente per mettere a fuoco la dimensione interiore dei personaggi.

Quarta: il modo in cui Andrić racconta la storia di Višegrad, entro la quale si colloca l’episodio proposto, non è mai di parte né inficiato da visioni ideologiche, anzi, l’autore cerca con estrema onestà di rendere conto dell’esito dell’incontro tra diverse culture, un esito che non è mai univoco, ma sempre articolato, in cui la tragedia e la violenza stanno accanto al rispetto e al reciproco riconoscimento, in un tessuto di relazioni e intenzioni talvolta concordi e talvolta totalmente dissonanti, contestualmente e non, talmente intricato da non essere dicibile ma solo esperibile. Ad esempio attraverso la letteratura.

Preso atto delle buone ragioni, resta ancora un nodo da sciogliere nell’enigma didattico, e ciò riguarda il contenuto fattuale del testo. Il capitolo riferisce — in chiave mitica, certo — come nacque nell’animo del visir Mehmed Paša Sokolović l’idea di costruire il ponte nella cittadina di Višegrad. Il ponte è il mezzo attraverso il quale, collegando le due sponde della Drina, Sokolović congiunge due mondi, due culture, e supera contestualmente il trauma della sua infanzia, ovvero il rapimento, secondo l’istituto ottomano del devşirme (raccolta di fanciulli), che prevedeva il reclutamento coatto dei bambini cristiani, destinati ad entrare a far parte del corpo dei giannizzeri. Sulla riva della Drina, infatti, è costretto ad arrestarsi il lungo corteo delle madri disperate che, partite dal villaggio cristiano di Sokolović, ha seguito i figli rapiti e portati via nelle ceste appese ai cavalli. Lì si condensa il dolore di Sokolović bambino, un dolore che assume il profilo ostile e desolante della riva pietrosa del fiume e del traghettatore deforme che ne gestisce il passaggio.

Ciò pone il docente di fronte al rischio di conferire solidità a una visione («gli ottomani [sono] violenti e spietati» scrive Andrić, mimando il punto di vista delle madri) che nell’Europa contemporanea associa l’islàm alla violenza e che gli alunni sicuramente hanno orecchiato dai media. Un rischio concreto, forse in questo momento solo coperto dal bombardamento mediatico sulla pandemia, tanto più insidioso nella misura in cui apparentemente collide con quello che di solito nei manuali di storia è individuato come un tratto distintivo dell’amministrazione ottomana, ovvero la tolleranza sul piano religioso. Tolleranza e volontà di inclusione che, come per ogni impero, obbediscono però alla ragion di stato e sono funzionali alla sua conservazione. Proprio in questa ottica, quindi, si tratta di un rischio che vale la pena correre, cercando di inquadrare la pratica ottomana entro un più vasto orizzonte che evidenzi alcuni elementi di similitudine con altri imperi — l’Impero romano in particolare — elicitando con una certa ricorsività durante la lezione conoscenze che i ragazzi già possiedono, proprio nell’ottica di evitare interpretazioni manichee, islàm cattivo da un lato e cristiani buoni dall’altro.

In classe

Il lavoro sul testo inizia con una prima lettura, condotta in classe ad alta voce dall’insegnante. Alla lettura segue una prima sommaria ricostruzione dei fatti in plenaria. Successivamente, viene chiesto agli alunni di rileggere in autonomia il testo e di individuarne le sequenze. Quindi viene chiesto agli alunni di evidenziare la sequenza che descrive l’atteggiamento di Sokolović bambino, di nuovo letta e analizzata in classe, attraverso alcune attività e domande aperte, a cui i ragazzi rispondono prima individualmente, per poi confrontare le risposte in plenaria.

  • Nella prima fase le attività sono finalizzate a definire lo stato d’animo del bambino: agli alunni viene chiesto di indicare una parola che lo rappresenti. Nelle indicazioni prevalgono termini connessi a campi semantici affini: impotenza, indifferenza, freddezza, mancanza di sentimenti.

Quindi viene loro chiesto di rintracciare nel testo gli elementi che concretamente descrivono il contegno del bimbo:

«… se ne stava in silenzio guardandosi attorno con occhi asciutti. Nella mano intirizzita e arrossata per il freddo stringeva un piccolo temperino ricurvo con cui intagliava distrattamente l’orlo del suo cesto, mentre osservava il paesaggio…».

Alla luce di questa seconda sollecitazione gli alunni vengono invitati ad arricchire la parola che avevano indicato inizialmente e a tentare una interpretazione più completa. Si chiarisce via via che la passività e il distacco del bambino sono solo apparenti, mentre emergono anche la sua «forza d’animo» e, accanto all’impotenza, la sua capacità di «accettare» un fatto ineludibile (da alcuni contestata: poteva provare a scappare!), come dimostra una certa rielaborazione vigile degli eventi, che hanno il loro punto di caduta sulla riva della Drina:

«Nella sua mente si impressero per sempre la riva pietrosa e coperta di salici radi, spogli e desolatamente grigi, il barcaiolo deforme e il fatiscente mulino ad acqua, pieno di ragnatele e di correnti d’aria […]. Come un malessere fisico — una lama nera che di tanto in tanto, per qualche secondo, trafiggeva il petto provocando un dolore acuto —  il bambino portò con sé il ricordo di quel luogo dove la strada si interrompeva…».

  • Dopo questa prima fase agli alunni viene chiesto di riflettere in modo più personale sul testo e di rintracciare eventuali connessioni con una loro esperienza, da trascrivere sommariamente sul quaderno. Al termine chi vuole — e solo chi vuole, e i più non vogliono — riferisce in classe la propria esperienza, dopo di che tutti sintetizzano quanto riportato sul quaderno in un gruppo di tre/ quattro parole significative, magari considerando la possibilità di inserire tra i termini anche un colore. Anche in questo caso gli ambiti semantici sono spesso sovrapponibili. Prevalgono parole legate ai sentimenti di rabbia, dolore, separazione, tristezza, ansia, anche se non mancano inserimenti di segno positivo.
  • Gli alunni realizzano un disegno dal titolo “La mia riva della Drina”, in cui le parole individuate sono visualizzate come un elemento di un ambiente naturale, tenendo come modello proprio quanto fatto da Andrić nel testo rispetto ai sentimenti di sofferenza del bambino, condensati nell’immagine della riva. Gli esiti dei disegni sono molto sorprendenti, variegati, immaginifici, nella capacità di rendere in qualche modo tangibile la portata personale delle parole che definiscono le proprie esperienze dolorose.
  • Infine si riprende nuovamente in mano il capitolo per intero per individuare tutti i riferimenti storici: indicazione dell’anno (1516); situazione dei territori nei pressi della Drina, con alcuni villaggi già islamizzati; riferimento ai giannizzeri e all’istituto della raccolta dei fanciulli; cenni alla biografia e alle imprese di Sokolović. Nel caso del devşirme occorre precisare quanto di solito riportano i manuali, rispetto al fatto che i bambini potevano restare fedeli alla loro religione. Ciò infatti valeva per i bambini che, in una seconda fase di applicazione della procedura, venivano destinati a diventare funzionari dello stato, ma per i bambini che dovevano essere addestrati come giannizzeri vigeva sostanzialmente l’obbligo della conversione all’islàm[1], come anche scrive Andrić.

A questo punto il lavoro si biforca, seguendo un doppio movimento. Da un lato nelle ore di storia gli alunni realizzano una produzione scritta, in cui assumono il punto di vista del vecchio visir. A partire da un input tratto dal testo, viene loro chiesto di scrivere una pagina di un suo ipotetico diario personale, che al riaccendersi del dolore rievochi il giorno del rapimento e renda conto del momento in cui, nel presente della scrittura, il visir decide di realizzare il ponte. Il corretto svolgimento della consegna è legato non solo alla capacità di esplicitare le ragioni personali che portano il visir a concepire l’idea del ponte, ma anche alla capacità di correlare adeguatamente il racconto personale ai dati storici. Questa è anche la parte più complessa del lavoro, sulla quale è stato necessario tornare una seconda volta, poiché in quasi tutte le prime produzioni ha prevalso la dimensione espressiva dei sentimenti.

Nelle ore di italiano, invece, a partire dal disegno “La mia riva della Drina” gli alunni realizzano un testo descrittivo della loro immagine. Il testo può anche essere il punto di partenza di una narrazione da impostare e costruire gradualmente con la mediazione dell’insegnante, che abbia come esito il superamento dei sentimenti e degli stati d’animo espressi, proprio come è stato per il Mehmed Paša Sokolović di Andrić.

Conclusione

Il lavoro potrebbe arrestarsi o anche essere sviluppato in altre direzioni. Ad esempio, potrebbe essere interessante approfondire quale ruolo abbia giocato nella guerra in Bosnia Erzegovina la cittadina di Višegrad, quali siano stati gli intrecci delle intenzioni e delle ragioni che così ferocemente si sono scontrate in quel periodo, e stabilire magari una correlazione con un altro celebre ponte, quello della cittadina di Mostar. Il testo di Andrić, inoltre, può rappresentare un ottimo riferimento — magari seguendo una linea di continuità nella classe terza — per riflettere su altri snodi cruciali della storia della regione, come quello in cui su quei territori si estende il dominio dell’impero asburgico, con una nuova sovrapposizione. Di là dagli esiti successivi, comunque, il doppio movimento da e verso la storia di Mehmed Paša Sokolović, attraverso l’ingresso della propria dimensione interiore nella storia, consente ai giovani studenti di portare con sé il ricordo di un’esperienza tangibile associata all’immagine di quel ponte e con questo, forse, gettare le basi per costruire una futura consapevolezza, misurando da quale profondità abissale spesso scaturiscono le risposte alle domande del presente.

[1] cfr. Suraiya Faroqhi, L’impero ottomano, pp. 55 e ss., 2014, Il Mulino

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