Le Galanti di Filippo Tuena
«Ed è al termine del labirinto, nella casa dove abito, che sono conservati in maniera quasi clandestina […] oggetti che determinano e stabiliscono la memoria del molto che ho vissuto e forniscono le coordinate per affrontare il pericoloso viaggio che mi attende, inconoscibile e languido, aggredito dalle sirene del rimpianto e dalle erinni della memoria; e inesorabilmente roso dall’attrazione del bello verso gli oggetti d’affezione da cui con fatica dovrò imparare a separarmi nel tempo che ancora mi rimane.»
Gli oggetti, il bello in tutte le sue forme, la memoria: parole che ci introducono nel labirinto di immagini e di sentimenti de Le Galanti. O forse parole che, chiudendo un percorso (è questa la chiusa del libro), costituiscono il filo conduttore dell’opera tueniana secondo cui siamo fatti di ciò che abbiamo vissuto. Ed è proprio ripercorrendo e apprezzando la vita che è stata che non possiamo trascurare la scoperta e la valorizzazione del bello in tutte le sue forme, pur nella consapevolezza che un giorno saremo costretti a fare i conti con la difficoltà a separarcene. Proprio come il cardinale Mazarino descritto in queste pagine, che, condannato dalla diagnosi infausta dei medici, passa in rassegna l’amata collezione di opere d’arte, disperato all’idea di doverla abbandonare per sempre: «Povero amico, dovrò lasciare tutto questo. Addio cari dipinti che ho tanto amato e che mi siete tanto costati!». Perché il rapporto che abbiamo con le opere d’arte è di possesso, ma gli oggetti, sebbene possano appartenerci, rimarranno sempre qualcosa di altro da noi, e dunque siamo inevitabilmente costretti a perderli.
È questa consapevolezza della continua perdita alla quale andiamo incontro a rendere malinconiche molte delle pagine del libro. «Questo è un libro di lettere d’amore», ma è anche «un libro di lettere d’addio», scrive Tuena. Una di esse è dedicata a Pothos e all’”erote” malinconico incontrato in un museo romano. Condannato all’immobilità, Pothos è sempre lontano da quel che desidera, esprime il mal d’amore e la nostalgia offrendo all’autore l’occasione per una riflessione sui meccanismi del desiderio: «Parto dall’idea che se senti la mancanza sei innamorato. Vale anche per l’arte […] Mi sono allontanato e ho pensato per un attimo che, sì, sono i desideri del momento a muoverci, a rendere vivo il mondo; gli appuntamenti pressanti, gli incontri improcrastinabili, ma che la nostra natura è tale che non esiste quiete neppure quando si percepisce il sentimento dell’assenza; che quel che ci manca è quel che ci rende vivi; che la memoria e il tempo irrecuperabile producono passione e muovono il mondo».
Le galanti. Quasi un’autobiografia è quindi un racconto di passioni e innamoramenti destinati, proprio come accade nella vita, a una fine e a un addio. È un libro che parla d’amore, quello per le opere d’arte che Filippo Tuena ha conosciuto, e alle quali sceglie di dedicare una serie di lettere galanti. Ogni quadro, ogni affresco, ogni scultura descritta coincidono con qualcosa di personale e intimo vissuto dall’autore; ciascuno di questi oggetti rimanda a esperienze, non sempre esplicitate, che l’hanno fatto innamorare: in tale senso questo libro è Quasi un’autobiografia. Potremmo addirittura definirlo una sorta di diario sentimentale in cui l’amore, declinato in tutte le sue forme, si rivela come esperienza attraverso la quale si realizza il riconoscimento di sé più profondo. Del resto Eros è la divinità più vicina agli uomini, è colui che complica e confonde le azioni umane, ma ne è anche l’unico motore. Eros produce arte, mette in movimento le passioni, genera esseri umani, li avvicina e li mette in contrasto, determinandone l’esaltazione e la disperazione. Nessuna altra divinità scuote così profondamente l’animo umano costringendoci a vivere le nostre passioni sino alle estreme conseguenze.
A Eros è dedicata tutta la prima parte del libro. Vi incontriamo storie di passione che per quanto riguarda certe opere evolve fino a diventare amore, mentre nella seconda metà del libro interviene Tanathos, e allora vengono narrate vicende più cupe e feroci. Una struttura freudiana che richiama il tema del doppio, di cui è allegoria l’Ermafrodito, descritto in queste pagine dall’antichità a Canova, fino all’incontro casuale con la moderna riproduzione in marmo nero di Barry X Ball.
Dal punto di vista formale siamo in presenza di una molteplicità di stili che vanno dalla prosa, alla poesia, alle immagini. Una scrittura ibrida, come precisa l’autore, che non corrisponde esattamente a una successione di versi, quanto piuttosto a una sorta di prosodia. Scelta che suggerisce una forma di libertà che l’autore vuole concedersi attraverso l’atto delle scrittura. Analogamente concede anche al lettore di procedere liberamente nella lettura, poiché, come lui stesso afferma, la numerazione delle pagine è sostanzialmente convenzionale, o comunque corrisponde a una delle tante possibilità di catalogazione dei testi raccolti. Possiamo insomma scegliere di leggere Le galanti anche in modo non consequenziale, ma saltando da un capitolo all’altro, perché ogni storia ha una sua autonomia, a unirle è soltanto il flusso dell’inseguimento amoroso.
Se da un lato è possibile inscrivere quest’opera all’interno di una tendenza attuale come la biofiction, dall’altro a rendere inconsueto e originale questo lavoro è la persistente e costante contaminazione tra linguaggio visivo e verbale, dove le immagini non sono semplici didascalie, ma svolgono un’effettiva funzione narrativa suggerendo al lettore spunti di interpretazione.
Le galanti esprime quindi una rottura rispetto alla narrativa tradizionale. Sono infatti la frammentazione e l’allusività la cifra stilistica di quest’opera che – riprendendo le parole dell’autore – intende mostrare ed evidenziare piuttosto che “riassumere”. È un viaggio del lettore dentro una galleria d’arte accompagnato per mano dallo stesso autore, che gli offre idee da sviluppare e punti di vista con i quali confrontarsi, invitandolo a riflettere, ma permettendogli sempre di muoversi liberamente negli spazi. Un viaggio in una galleria che «assume l’andamento contorto di un labirinto», quello dei ricordi. E poiché il tempo della memoria non è lineare e cronologico, il lettore di Tuena deve inoltrarsi in un percorso che, anziché procedere in avanti, lo costringe costantemente, e non senza intento seduttivo, a volgere lo sguardo altrove. Perché ogni oggetto, ogni immagine, immancabilmente, trascina lontano, richiamando alla memoria momenti del vissuto, emozioni, e innamoramenti. Ciò che non ha un legame con la nostra esperienza non può attrarci veramente, ci si può innamorare soltanto di ciò che evoca il nostro passato «perché almeno un brandello di quello deve servire da esca per riconoscerti in quel che intravedi».
Accanto all’amore, l’altro tema del libro è dunque la memoria, il tempo irreversibile dal quale riemergono immagini che il semplice sguardo avrebbe dimenticato e che invece adesso vanno a costituire la galleria privata della memoria.
Insieme a Ovidio, e alla classicità in genere, indiscusso modello narrativo dell’autore, è senz’altro Proust, naturale referente psicologico e introspettivo per quanto riguarda il tema della memoria. Tuena non esita qui a citarlo, ricordando l’incontro che il protagonista della Recherche fa con il libro di Sand François le Champi, capace di richiamare alla memoria il ricordo, ma incapace di restituire il tempo trascorso. Ecco, allora, che il tempo torna ad essere irreversibile, mostrandoci l’ineluttabiltà della morte e l’incapacità della scrittura, e dell’opera d’arte, di restituire il passato. Rimangono tracce, testimonianze, resta ciò che la scrittura, o l’immagine sono riusciti a catturare, ciò che è stato sottratto all’ineluttabile passaggio del tempo, ma con la consapevolezza che «c’è qualcosa che lentamente svanisce».
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