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diretto da Romano Luperini

 La vita di redazione è fatta anche di confronti interni liberi, ricchi, che a volte vale la pena condividere con tutti. In questo caso si tratta di uno scambio di idee su Sanpa tra Roberto Contu e Romano Luperini.

Caro Romano,

non so se tu abbia avuto modo di vedere su Netflix la miniserie Sanpa, sulla storia di San Patrignano. Si tratta di un prodotto ben realizzato, che credo vado oltre la lettura della singola esperienza e dica molto della storia di quegli anni ma anche del nostro presente. Te la consiglio.

Buon inizio anno!

Roberto

Caro Roberto,

ho visto Sanpa, mi sono fatto dare le credenziali da mio figlio. Ma sono rimasto deluso. Per me sono tutte cose molto note, avendole vissute direttamente anche, in parte, come redattore del «Quotidiano dei lavoratori». D’altronde il documentario non prende posizione, ma si limita a mostrare tutti i punti di vista. È indiscutibile che Muccioli abbia svolto anche una funzione utile nel momento in cui i movimenti di lotta, repressi e sconfitti, andavano scomparendo  sostituiti dalla lotta armata e la caduta nella droga era una situazione di massa che rifletteva quella sconfitta storica e la fine delle illusioni e delle speranze. Ma che fosse un tipo equivoco e impreparato culturalmente a questo compito e lo abbia svolto in modo aberrante e anche disumano (catene, gente chiusa nei canili ecc.), facendo leva su un carattere istrionico e su un infinito narcisismo e avendo l’appoggio non solo della cosiddetta opinione pubblica ma dall’ala conservatrice e reazionaria della borghesia (vedi il giudizio entusiastico di Montanelli, che era un vero e proprio farabutto e si vantava pubblicamente di aver comprato una ragazzina etiope come oggetto sessuale), è altrettanto indiscutibile. Quei drogati andavano messi a posto, isolati in una San Patrignano qualunque, rinchiusi e, se scappavano, ripresi e duramente puniti, questo era quello che pensavano la borghesia e il padronato (i Moratti non erano soli). Il problema andava rimosso, e il nostro Vincenzo si prestava, anche senza volerlo, a questa rimozione. Altra cosa sarebbe stato affrontare, da parte dello stato e della comunità nazionale, il problema politico, sociale e sanitario della droga e delle sue ragioni storiche negli anni di piombo. Ma nessuno aveva voglia di farlo e le maniere forti di Muccioli,  privatizzando la soluzione del problema, affidata esclusivamente alla volontà e alla iniziativa di un singolo, favorirono questa sciagurata rimozione. Oggi insomma i tempi sono maturi per un giudizio meno neutrale di quello implicito, volutamente ambiguo o problematico, in questo filmato che affronta la questione come se si trattasse sostanzialmente di essere pro o contro Muccioli, mentre il contesto, in esso pur efficacemente delineato, avrebbe richiesto  altre soluzioni e un altro tipo di impegno etico-politico.

Romano

Caro Romano,

grazie per la tua risposta.

Provo in sintesi a spiegarti meglio quello che mi ha colpito. Attraverso il documentario (specie le prime due puntate, a mio avviso le migliori) passa anzitutto il clima di quel periodo, che io ho annusato appena bambino e poi successivamente da obbiettore di coscienza e nei dieci anni in cui oltre insegnare ho lavorato qui a Perugia in una comunità per giovani in situazioni di disagio fisico e psicosociale. Sanpa, per come è realizzato e seppur parzialmente, ha il potere di rievocare un tempo storico fatto di grandi questioni come l’eroina, ma anche segnato della presenza di imprese nate spontaneamente (comunità, esperienze, cooperative), a volte create in modo raffazzonato, ambiguo e personalistico, ma che attecchivano in un terreno, quello dissodato dal ’68 e alimentato dai Settanta, in cui le esperienze collettive avevano un potere enorme di incidere sulla realtà. Sanpa, pur non nominandolo credo mai esplicitamente, mi ha comunicato la pervasività di un termine oggi scomparso ma che da bambino ho sentito spesso: utopia, ovvero la volontà (l’illusione? Il delirio di onnipotenza?) di giocare se stessi in qualcosa che riguardasse tutti, in quel caso i tossicodipendenti, con la prospettiva di potere riuscire a fare qualcosa di concreto per loro ma anche per la società tutta. Ma soprattutto Sanpa, al di là della figura controversa di Muccioli, di quella realtà stessa, solleva una domanda universale (vale anche per chi come me fa l’insegnante): dove arrivare per farsi carico dell’altro? Quale è il limite? A un certo punto c’è la testimonianza di Fabio Cantelli che parla del suo travaglio drammatico, in cui nel momento di potenziale rottura e sì, da contenuto, decide “di prendersi cura di sé”. In un’altra sequenza lo stesso Cantelli parla di istanti in cui vita e morte sono così tangenti per cui il pensiero, tutte le categorie, gli assoluti come li definisce lui, compreso quello della libertà, si sfaldano e necessariamente si risignificano. Ecco, questo tema mi tocca molto e mi chiama a problematizzare ogni lettura che parrebbe evidente. Ripeto, io quegli anni non li ho vissuti ma ne sento l’eco continuamente nel mio vissuto. Tanto più in questo tempo dove la pandemia ha definitivamente e in modo assoluto parcellizzato le nostre esistenze (che però già la deriva capitalistica e la sua crisi degli anni Zero avevano portato all’ultimo stadio) vedere quelle folle, quei letti a castello, ma anche quei sogni misti a quelle spaventose contraddizioni (in fondo è vero che gli eroi o presunti tali sono spesso figli di società e sistemi repressivi) mi ha fatto per contrasto guardare al deserto del presente. Il documentario è fatto da gente della mia generazione, il linguaggio, il racconto di qualcosa di un’altra epoca è evidente (anche la semplice parola “drogato” è di un’altra epoca, mi dà un po’ l’effetto che dà a mio figlio sentire la mia parola “cellulare” anziché semplicemente “telefono”). Tu che hai vissuto quegli anni non cogli niente di nuovo se non l’unica grande verità che andava presa di petto da parte dello Stato e della comunità nazionale, ovvero il problema politico, sociale e sanitario della droga. Uno della mia generazione coglie anche la vitalità di un mondo che non ha vissuto ma che gli mostra quanto per certi versi sia povero, solitario e invecchiato quello in cui viviamo.

Ti abbraccio,

Roberto

Caro Roberto,

il problema del limite, come lo chiami tu, non può essere posto come problema essenzialmente individuale o soggettivo. È invece un problema legato alla situazione storica. Io sono contrario alla violenza, ma non ai partigiani che l’hanno usata per necessità contro i fascisti e i tedeschi. Il limite dipende dunque da una analisi storica e politica della situazione, da una coscienza eticopolitica che deve saper considerare tutti i numerosi aspetti di una situazione storica. Se tutto si risolve con un volontarismo individualistico si creano disastri. Curcio veniva dal volontariato cattolico ed era un buonissimo compagno. Però non mi ha convinto quando ha proposto la lotta armata. Non era una scelta adeguata alla situazione e alla coscienza eticopolitica della mia generazione che si era misurata con lo stalinismo. Stalin parlava per il bene del popolo e dei contadini russi e certamente i kulaki erano un problema politico e sociale che andava risolto, ma non con la deportazione forzata e lo sterminio di un milione di esseri umani. Anche le Brigate rosse volevano il bene del popolo, ma non potevano sostituirsi a esso (il sostitutismo era un problema già chiaro a Trotzki) e decretare la morte di qualcuno in suo nome. La mia generazione si è confrontata col terrorismo che anch’esso era, diciamo così, una forma di volontariato… Ho visto tanti bravi compagni diventare terroristi, ma esisteva in me e in tanti altri la lucida coscienza politica che era una soluzione sbagliata politicamente, oltre che contraria alla nostra coscienza eticopolitica (e invece fare attentati come quello di via Rasella contro i tedeschi era necessario e anche giusto in quel momento storico). Ora nella situazione storica della fine degli anni settanta, negli anni di piombo, quando i compagni si davano o alla droga o al terrorismo, l’unico modo di porre seriamente la questione della droga era costringere la comunità nazionale e lo stato, con la lotta politica, a porsi il problema di una soluzione politica, sociale e sanitaria. C’erano allora i presupposti per questa battaglia (si pensi a Basaglia e alle prime esperienze di liberazione dei matti), perché non è stata fatta? Questo è il vero problema che il povero Muccioli, con la sua cultura e la sua morale raffazzonate, non vedeva nemmeno. Niente lo autorizzava al sostitutismo: io so quale è il bene per te, dunque per il tuo bene ti metto in catene. La sinistra dovrebbe saperlo avendolo sperimentato sulla sua pelle: qui infatti lo stalinismo è già “in nuce”.

Un abbraccio.

Romano

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