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diretto da Romano Luperini

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Il verso giusto o il verso assente?

 Antologie e canone

Comporre un’antologia è un’operazione complessa. «Anfibio genere letterario» (Sanguineti) o «metagenere» (Mengaldo), essa può avere diversi orientamenti critici stabiliti dal curatore, che può decidere di distinguere una crestomazia o di costituire un racconto finalizzato ad una propria tesi; in ogni caso è necessario che tale selezione abbia un valore documentario e che, al di là di una parzialità ineludibile, rifletta una prospettiva storico-culturale il più possibile analitica e oggettiva.

Non si tratta di costruire ambiziosi e minuziosi panorami globali, ma di creare, anche in ipotesi di lavoro più circoscritte e decentrate, connessioni pertinenti e un perimetro ben definito che abbia una rilevanza formativa in generale. La struttura significante dovrebbe, infatti, restituire l’impressione viva del divenire storico, del cambiamento, delle trasformazioni profonde, ponendosi come una sorta di mappa delle correnti e delle tendenze che, incrociandosi e, a volte, confliggendo, esprimono la memoria selettiva di una determinata comunità in ambito letterario. Selezionare autori e opere modellizzanti che hanno fondato una tradizione significa tenere in riuso il patrimonio culturale, contribuendo a definire il canone letterario (sulla questione del canone, numerosi e assai preziosi sono gli studi di Luperini), da non intendersi come indice rigido e inerte, ma come un risultato dinamico di interpretazioni critiche, e un baluardo da tutelare, soprattutto contro l’assenza di idee e di valori, l’indifferente equivalenza di scelte e di prospettive tipica della contemporaneità.

Assenze e presenze di alcuni autori all’interno di un’antologia, infatti, non significano niente di per sé, ma contano in quanto contribuiscono a creare un dialogo con la storia delle idee, con la società e con le «questioni fondamentali della vita».

Il verso giusto di Luca Serianni: scelte di metodo

Ne Il verso giusto, Serianni ha selezionato cento poesie, di sessantatré autori, distribuite in otto secoli, nel tentativo di allestire un’antologia che, non schiacciata da note linguistiche (le poche sono state attinte, all’occorrenza, da manuali scolastici), e da ingombranti cappelli introduttivi, potesse rivolgersi ad un pubblico largo, popolato da studenti, docenti, ma anche da chi, «avendo magari studiato la letteratura italiana quarant’anni prima, voglia riprendere in mano i testi, senza dover compulsare dizionari o cercare in rete» (p. XVII). Il modello che il linguista tenta di evitare è quello di Gianfranco Contini, che «nella sua aristocratica Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, non si cura troppo del comune lettore al quale pure il libro si rivolge» (p. XXIII). Per scongiurare questo rischio, Serianni prende alcune precauzioni: «le notizie biografiche sono ridotte al minimo» (addirittura soppresse, se si parla di poeti del calibro di Dante o Manzoni), i testi sono presentati «in sequenza, senza nessuna sovrapposizione esterna (divisioni in correnti ecc)», e «anche la cronologia ha un valore relativo» (XVI). Per quanto riguarda i commenti, essi sono asciutti ed essenziali, soprattutto quando si tratta del Novecento, dove «chi fa poesia non deve affermare idee e concetti, quanto piuttosto suggestionare il lettore, suggerendogli emozioni e sensazioni» (Serianni cita R. Carnero, Il bel viaggio. Insegnare letteratura alla generazione Z, Milano, Bompiani, 2020, p. 179) e, quindi, al di là della difficoltà dei testi, questo implica che «molte cose, semplicemente, non possono e non devono essere spiegate» (p. XIX). Come a dire che, non potendo più attribuire con certezza un valore universale alle parole dei testi poetici, frutto ormai di una metafisica privata, ci si deve concentrare soprattutto sugli elementi evocativi piuttosto che su quelli referenziali, e accettare che vi possano essere solo fasci di percezione frammentari («Nel caso del Cinque Maggio le intenzioni espressive di Manzoni possono essere sviscerate senza difficoltà: non abbiamo dubbi su che cosa voglia dire solio, come c’entri il Manzanarre, perché si lasci ai posteri l’«ardua sentenza» e cosi via. Invece, leggendo per esempio Quasimodo, non ha molto senso chiedersi se la gita a Tindari sia reale o immaginaria e cosa precisamente significhi il «vento profondo» dell’ultimo verso. Anche in una poesia lontanissima dall’ermetismo, come Addio di Morante, «le norme del campo» del verso 49, ossia l’allusione a un campo di concentramento, può valere solo come suggestione puramente analogica rispetto allo straziante dolore che la poetessa sta dichiarando», p. XVIII).

Un canone assolutamente personale

A provocare più di qualche perplessità sono, però, i criteri di selezione che Serianni organizza in base ai valori dell’esperienza soggettiva, e a un orizzonte quasi del tutto autoreferenziale. La scelta dei protagonisti della versificazione, l’autore lo precisa chiaramente nell’introduzione, è dipesa «dal gusto personale dell’antologista» che, in una certa misura, ha ritenuto opportuno privilegiare soprattutto testi non particolarmente noti (Detto del gatto lupesco, secolo XIII; Che diavol fate voi, Madonna nera, un «vivacissimo sonetto di Vittorio Alfieri, certo non la sua opera più nota», p. XIII), con l’intento, in alcuni casi, di «attirare l’attenzione su poeti poco conosciuti» (Ciro di Pers, Remigio Zena quelli esplicitamente dichiarati, ma se ne potrebbero citare altri), o di rinnovare l’interesse su altri da tempo relegati al rango di poeti minori (Carducci).

Se, tuttavia, nel corso dei secoli, il canone viene, più o meno, sostanzialmente rispettato e «le presenze sono quelle che ci si aspetta» (con qualche novità), arrivando al pieno Novecento sembra liquefarsi, sminuzzato e ridotto a nomi marginali, privi di autorevolezza, e numerose sono le assenze di poeti significativi e rappresentativi. Fatti salvi Ungaretti, Montale e Saba, si procede progressivamente ad un disinvolto rovesciamento dei valori. Serianni ammette chiaramente di essere più sensibile alla linea “antinovecentista”, e di avere sacrificato del tutto sperimentalismo e avanguardie (e sono stati sacrificati anche Clemente Rebora, Dino Campana, Camillo Sbarbaro, Mario Luzi, Franco Fortini), ma anche così vengono scartati da questo suo «personale canone» poeti che avrebbero potuto farne parte. Si rimane disorientati, dunque, dall’esclusione di Vincenzo Cardarelli, Cesare Pavese, Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Orelli, Giovanni Giudici, Amelia Rosselli, Milo De Angelis («Sono scelte, lo riconosco, molto peculiari […]. Ci si chiederà: perché c’è X, mentre manca Y, tanto più grande / più rappresentativo/ più nuovo? Non c’è una ragione se non il condizionamento delle mie propensioni (o anche incompetenze) di lettore, che diventano decisive quando l’orizzonte in cui si muovono i poeti è a noi prossimo, senza la naturale decantazione che ci fa considerare un classico non solo Foscolo, ma anche il Moretti di A Cesena», p. XIV).

Del Novecento si ha, quindi, (soprattutto della seconda metà), una visione confusa e divagante, parziale e astratta; lo spazio letterario della poesia diviene un territorio ristretto e devitalizzato, in cui pullulano monadi irrelate, prive di un mondo comune e di una tradizione stabile, che niente riescono ad esprimere se non uno scopo puramente limitato e individuale.

L’apparente democraticità sminuisce il ruolo stesso della poesia, che non si pone come riflesso seriale di una trascendenza condivisa, di un’identità collettiva (nazionale e internazionale), ma come un atto nichilistico (e narcisistico) di decostruzione, che tende ad annullare un sistema di valori pubblico e riconosciuto. L’autonomia, lo scarto dalla norma è possibile, anzi auspicabile, richiede però consapevolezza e assunzione di responsabilità nei confronti di un progetto organico, concreto, e può avere un senso solo se è sostenuto da un punto di riferimento centrale, un’idea fondativa profonda, altrimenti si riduce ad un’opaca soggettività.

Come si trasmette oggi la poesia?

Chi si accinge oggi a parlare di poesia (soprattutto di quella novecentesca e di quella contemporanea), a proporne la lettura, anche in forma essenziale, non può ignorare, dunque, che ciò ha a che fare con la «concretizzazione storica di una forma atemporale» (Szondi) e non può rinunciare a indicare degli «assi di orientamento» (Bodei). Il canone della poesia, d’altronde, ha dimostrato di avere una certa stabilità, almeno fino agli anni Ottanta, come confermato da numerose antologie compilate da studiosi di un certo livello (solo negli ultimi quarant’anni, l’immagine del Novecento si è gradualmente sfaldata, soprattutto per quanto riguarda gli ultimi venticinque anni del secolo). Proprio per questo oggi è difficile accettare e comprendere l’assenza, nel Il verso giusto, di Sereni e Zanzotto (a malincuore lo si può fare per poeti che potrebbero apparire più periferici come Sanguineti e Fortini), voci imprescindibili della tradizione, che hanno contribuito in modo decisivo a determinare i caratteri della poesia lirica italiana del nostro secolo, grazie a soluzioni originali e innovative, a una scrittura aperta e problematica (fondamentale per entrambi – basti pensare a Gli strumenti umani e a La Beltà –  la centralità dell’esperienza montaliana).

Se la pluralità è inevitabile, appare sempre più essenziale, però, trasmettere l’idea di una tradizione e del conflitto delle interpretazioni, per conferire senso, valore, forza alle proprie scelte e al patrimonio letterario e, nello stesso tempo, per tracciare un nuovo possibile racconto, aperto e pluriprospettico in cui, certo, anche nuovi autori, apparentemente isolati, possono pretendere di inserirsi in una strategia di rapporti, creando linguaggi risolutivi.

In questo modo si può motivare o rimotivare alla lettura di un testo, ed educare alla poesia.

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