La valutazione come gioco degli scacchi, ovvero che cosa ho imparato guardando la valutazione da una certa distanza
Durante le prime riunioni di questo nuovo anno scolastico ho avuto la netta sensazione che uno dei motivi di maggior sollievo fra i colleghi per il ritorno alla didattica in presenza riguardasse la valutazione. La perdita del controllo sulle verifiche e le interrogazioni da casa, cui qualcuno e forse più di qualcuno la scorsa primavera non aveva saputo o voluto rinunciare, è stata sfibrante.
La riottosità ad abbandonare queste modalità “frontali” di valutazione aveva generato pesanti sarcasmi: i docenti fanno come al solito interrogazioni/interrogatori, intendono la valutazione come forma di controllo e il proprio ruolo come un esercizio di potere, a tal punto da esigere di penetrare nelle stanze dei propri studenti per estorcere la performance. Al contrario, si sarebbe dovuto cogliere l’occasione per tentare vie diverse dalla formula lezione-studio-interrogazione, per cambiare alla radice paradigma di valutazione e didattica e una scuola muffita e inerziale.[i]
Confesso di vivere con una certa insofferenza entrambe le posizioni: da un lato mi pare suicida e dimostrazione di scarsa fantasia pretendere di fare la fotocopia della valutazione in presenza quando tutto, dai tempi al setting, dagli strumenti ai criteri, è stravolto dalla distanza; dall’altro mi urta questo salto quantico che nelle discussioni è diventato – o forse è sempre stato – una costante, per il quale un problema didattico e pratico, spesso complesso, viene spostato polemicamente su un piano di volta in volta pedagogico, sociologico, politico. Ma non è sempre possibile, o utile, trasformare difficoltà quotidiane in Questioni Politiche. Tra i due piani ci sono gradazioni, sfumature e una complessa dialettica.
L’equivoco rousseauviano
Mi sembra che la mancata volontà di cambiare registro da parte di alcuni colleghi, oltre che su fenomeni di inerzia di sistema e personali che non negherò, dipendano anche da un equivoco di fondo: illudersi che la relazione tra docente e studente si fondi esclusivamente sull’autorevolezza del primo, il rispetto per essa del secondo, e un appello alla reciproca trasparenza e fiducia che rischia di diventare però una forma di fideismo. Per questo, impossibilitati a esercitare la vigilanza, durante la didattica a distanza ci siamo illusi che fosse sufficiente la petizione di principio del richiamare alla correttezza gli studenti, ritrovandosi a rigirare fra le mani solo e soltanto un senso di frustrata impotenza, che si è tramutato talvolta in una vera e propria ossessione da controllo, di cui il caso emblematico – benché unico ed estremo – è quello del collega che avrebbe interrogato gli studenti facendoli bendare, neanche fossimo a Guantanamo.
Ma i critici del “potere docente” finiscono per fraintendere le lagnanze degli insegnanti indignati da allievi che si fanno scrivere i compiti dai fratelli maggiori, leggono dagli appunti e da foglietti appiccicati ai lati dello schermo, ecc.: certamente quei colleghi lamentavano una perdita di controllo, persino di status, ma in gioco c’era anche una sorta di delusione per la fiducia malriposta. I docenti, a volte, si sentono innamorati ingannati.
Eppure docenti traditi e critici della valutazione sono più simili di quanto non si creda. Anche i secondi ritengono che il problema possa essere esorcizzato con una superstizione rovesciata: gli studenti sono spinti a copiare, imbrogliare, ecc… perché vivono la valutazione come una sanzione normativa, l’esercizio di un indebito controllo da parte del docente. Se la valutazione fosse realmente formativa, se i compiti assegnati a distanza fossero stati più creativi e motivanti e lo diventassero poi in prospettiva anche al ritorno in presenza, se la motivazione intrinseca sostituisse l’estrinseca, tutto ciò reciderebbe alla radice il problema stesso dell’inganno. A ben guardare, anche questa interpretazione implica il medesimo postulato di fondo dei docenti-innamorati delusi: la possibilità di una relazione immediata e trasparente, di una perfetta fiducia. La differenza tra i due fronti sta nel fatto che i docenti credono che sia possibile l’autenticità a dispetto dell’asimmetria relazionale e della cornice istituzionale, i critici che la prima si possa realizzare solo abolendo o limitando il più possibile la seconda.
Forse la pedagogia sconta, nel bene e nel male, la propria fondazione moderna con Rousseau e il suo mito della bontà della fanciullezza e dello stato di natura incorrotto: nell’antropologia del filosofo, l’opposizione tra essere e apparire, sincerità e falsità, è costitutivo, per cui tra gli esseri umani si stabiliscono relazioni autentiche o inautentiche, immediate o mascherate, trasparenti o ingannevoli e il secondo polo della dicotomia è così negativamente connotato (è l’incarnazione della corruzione della società e della civiltà sulla natura) da spingere un po’ ossessivamente a desiderare di operarne una rimozione.[ii]
Un dato di fatto
Nell’illusione che si potesse impedire agli studenti di sfuggire e mascherarsi, molti hanno finito per rimuovere il gigantesco dato di fatto che avevamo davanti agli occhi: tra noi e gli studenti si erano moltiplicati i filtri e le quinte dietro cui era possibile nascondersi. La distanza è distanza. Non la si può surrogare in nessun modo. Chi per una via chi per un’altra sperava di esorcizzare questo dato di fatto, o è rimasto scornato dalla realtà o si è limitato a fare la predica a chi ci si scornava.
Pensiamo al problema delle telecamere spente. Gli studenti spesso non attivavano il video, così che il docente si trovava a interloquire con dei quadratini neri. Perché lo facevano? Era solo colpa dell’asimmetria di potere con me, la voglia di nascondersi al controllo? Sicuramente. Ma avranno contato altrettanto la perdita della cornice istituzionale (dopotutto erano a casa loro, magari in pigiama), la straniamento del collegamento a distanza, la scoperta della comodità di una nuova maschera, le inedite possibilità del “multitasking” (ascoltare con un orecchio la lezione mentre con l’altro si giocava a Candy crush)…
Cambiare occhiali: giochi d’espressione
Suggerisco un esperimento. Abbandoniamo per un attimo il paradigma che ho chiamato “roussouviano” e proviamo a cambiare occhiali. E se le mascherate e i giochi strategici che si intavolano tra insegnante e studenti fossero costitutivi della relazione?
Erving Goffman, il sociologo della “vita quotidiana come rappresentazione” e dei “giochi di faccia”, ha studiato a lungo l’ineliminabile carattere teatrale della vita sociale. In un saggio, Giochi d’espressione,[iii] Goffman descrive le interazioni umane come una «gara di valutazione»: ciascuno di noi veicola un complesso di informazioni ed espressioni, volontarie e involontarie, che si offrono allo sguardo altrui. Questo essere osservati dagli altri equivale all’essere valutati, a ricevere una stima. Dal momento che gli esseri umani sono consapevoli di questa loro “esposizione”, cercano di “presentarsi” agli occhi degli altri nel modo migliore possibile. Ogni individuo mette in atto un «management», una gestione consapevole, della propria immagine e dei propri atti: sono «giochi d’espressione» con cui cerchiamo di controllare e dirigere le informazioni che l’osservatore ottiene su di noi, perché ci facciano ben figurare. Ci sono «mosse di controllo» del soggetto osservato e «mosse di smascheramento» del soggetto che osserva, il quale deve ponderare quel che gli è mostrato per arrivare a comprendere chi sia l’altro e “a che gioco giochi”. È una transazione in cui siamo contemporaneamente noi stessi e la nostra apparenza nello sguardo dell’altro. Fondamentale, soprattutto, è la capacità di mettersi anticipatamente nei panni dell’osservatore, per guardarsi guardare e prevenire così la sua valutazione: come fa uno studente, che, rispondendo a una consegna, cerca di carpire cosa l’insegnante voglia da lui, per adeguarvisi, sostanzialmente o solo formalmente.
Questa complessa dialettica, una vera e propria «interazione strategica», è sempre in gioco, non è una scelta di scaltrezza o un tentativo di imbrogliare le carte: l’azione sociale ne è intrisa. Essa appare moralmente sbagliata e volontariamente fallace solo a chi la giudichi dal punto di vista roussouviano della perfetta trasparenza reciproca, cosa impossibile, come si capisce, già in contesti assai meno strutturati e istituzionalmente fondati sull’asimmetria come la scuola.
Ci sono altre osservazioni di Goffman applicabili alla nostra esperienza con la didattica a distanza, ma più in generale ai problemi che nascono con la valutazione. Ad esempio, dove lo studioso osserva che «la condotta del soggetto che ispira più affidamento è esattamente quel tipo di condotta che sarebbe per lui più vantaggioso contraffare se volesse ingannare l’osservatore» (p. 79), per cui può capitare che un comportamento perfettamente innocente possa apparire sospetto proprio perché ha l’apparenza che avrebbe un mascheramento ben riuscito. Un compito ben fatto dimostrava che lo studente aveva copiato, che se l’era fatto fare da qualcun altro, o che, avendo più tempo per leggere, fare ricerca, e potendo organizzare in modo più autonomo lo studio, aveva prodotto un risultato migliore del solito? Me lo sono chiesto più volte davanti a certi lavori, la scorsa primavera.
E ancora. Quanto più i giochi di controllo, mascheramento e smascheramento si moltiplicano, tanto più ci si trova irretiti in un’interazione strategica complessa, che può produrre «un’oscillazione demoralizzante nell’interpretazione» (p. 87). La didattica a distanza ha aumentato il desiderio di controllo proprio nella misura in cui lo rendeva più difficile, a volte impossibile: anche per questo molti docenti sono andati in crisi e sono diventati molto più sospettosi del solito; anche per questo le ironie dei critici sulla loro rigidità, che pure c’è stata, è stata ingenerosa.
Tuttavia, in un punto, Goffman dà ragione ai detrattori della valutazione scolastica che si esprime in verifiche e voti, quando osserva che all’aumentare del controllo, aumentano i tentativi di aggirarlo attraverso mosse di mascheramento, perché aumenta l’ansia di offrire aspetti di sé non controllati e che potrebbero danneggiare la stima (nel duplice senso del termine) dell’altro. È quindi vero che se si riuscisse a ridurre il carattere di sorveglianza della valutazione, i tentativi di depistaggio degli studenti diminuirebbero. Ma bisogna ammettere che l’esistenza dei giochi d’espressione è fisiologia sociale, non (solo) patologia istituzionale scolastica.
Una fenomenologia minima
Concludo con poche osservazioni a partire dalla mia esperienza, a distanza e non.
Durante la fase di confinamento scolastico ho abolito verifiche scritte e interrogazioni e ho valutato i compiti a casa: questionari di comprensione del testo letterario o di documentari e videolezioni; esercizi di scrittura creativa. Tra gli esercizi di scrittura creativa, un ritratto del personaggio che era piaciuto di più nello sceneggiato sulla Rivoluzione francese della Rai (1990); un dialogo tra un sostenitore dell’esistenza degli untori e uno scettico, nel contesto di un lavoro sulla peste in Manzoni. Come verificare, a distanza e addirittura in forma differita nel tempo, che tutti questi materiali fossero stati letti, visti, ascoltati? È evidente che qualsiasi domanda semplicemente nozionistica avrebbe potuto essere facilmente copiata e incollata, con minime modifiche, da una qualsiasi enciclopedia online, o che avrebbe potuto essere presa in prestito da un compagno.
Stimoli aperti, stimoli chiusi, copiatura. Prendiamo il caso della scrittura creativa. Ho provato a giocare sull’apertura dello stimolo e su un vincolo rigoroso: il testo che dovevano scrivere era troppo personale e irripetibile, per poter essere facilmente fatto circolare tra compagni o perché bastasse copiare qualche nozione dalla rete. Il taglio delle mie lezioni su Manzoni era peculiare e non altrove reperibile; lo sceneggiato Rai introduceva nel racconto storico una certa quantità di elementi finzionali: ho preteso che nei loro lavori i riferimenti a questi materiali fossero puntuali. È bastato un riferimento a una Maria Antonietta che compiva un gesto di Jane Seymour per capire che non da Wikipedia o Skuola.net, ma dal film, fosse desunta la descrizione. Certo, restava la possibilità di farsi fare il compito da qualcuno o di farsi aiutare. Naturalmente la mia pregressa conoscenza delle capacità di scrittura di ciascuno mi ha permesso di riconoscere i casi di più plateale discrepanza con i compiti precedenti; tuttavia è indubbio che questo fosse il tallone d’Achille di questo tipo di valutazione. Ma in quella situazione eravamo poliziotti che lavoravano a mani nude: di certo non sarei potuto andare a casa di ciascuno studente per un confronto all’americana. Nemo ad impossibilia tenetur. Non prendiamoci così sul serio. Di certo non mi sono mai illuso sul fatto che compiti creativi come questi fossero esenti dai tentativi di copiatura o che motivazioni estrinseche come il desiderio di un bel voto o la paura di “perdere la faccia” (Goffman), venendo trovati ad imbrogliare, fossero solo un fastidioso ricordo della scuola corruttrice della spontanea voglia di imparare.[iv]
Valutazione formativa e voto. In classe cerco di valorizzare quanto più possibile i quotidiani interventi degli studenti, anzi li provoco costantemente, proprio nell’ottica di una valutazione formativa. Tuttavia basta poco per accorgersi che anche in questa pratica si insinuano i giochi d’espressione e un complicatissimo gioco di sponda tra informalità e formalità. Lo studente che teme di esporsi non si sente necessariamente meno a disagio in assenza di una valutazione esplicita: perché, come abbiamo detto, la valutazione è intrinseca al semplice offrirsi alla vista dell’altro. D’altro canto altri studenti, più sicuri di sé o esibizionisti, premono perché la valutazione si concretizzi: i loro numerosi interventi sembrano chiedere “ne terrà conto, vero?”. Nel caso di interventi fuori fuoco peraltro sorge un problema: si dovrà valutare/valorizzare l’entusiasmo o la pertinenza della risposta? Entrambi sono fattori dell’apprendimento e meritano di essere presi in considerazione, ma si tratta di due oggetti di valutazione diversi, che nel fluire della vita di classe non è sempre facile discriminare.
Questo tipo di valutazione formativa pone un altro problema: deve essere formalizzata, concretizzandola in un voto a fine anno? Se no, gli studenti non ci mettono molto a capire che quella valutazione/valorizzazione conta come l’acqua fresca; se sì, gli interventi positivi e negativi vanno evidenziati immediatamente, perché lo studente sappia a quali suoi comportamenti o prestazioni risponde il voto, pena il rischio di essere accusati di impressionismo e di scarsa obiettività. Si può introdurre così un sistema di microvoti o di “più e meno”. E che cosa capita? Che la valutazione riacquista un carattere surrettiziamente sommativo e lo studente interverrà (anche) allo scopo di accumulare “punti”, giocando un gioco d’espressione a proprio favore.
Insomma. La valutazione è un complicato gioco degli scacchi o un rompicapo. Forse vale la pena ammetterlo e partire, con buon senso e realismo, da qui.
[i] Penso in particolare a molti post e discussioni su Facebook in cui mi sono imbattuto. Ma che valore mai avranno le opinioni espresse su un social network!, si osserverà. Un valore notevole, direi. Lì, molto più che in articoli specialistici o per blog, emerge il senso comune delle opinioni diffuse, benché in una inedita forma radicalizzata e, per usare un eufemismo, assertiva. Tuttavia non sono mancati anche interventi più qualificati. Segnalo questo,per l’esemplarità del discorso sulla valutazione formativa che svolge, e quest’altro di Federica Lucchesini su «Gli asini», per l’esemplarità degli addentellati politici e per il prestigio della sede.
[ii] Per un inquadramento filosofico di questo tema, si può leggere Barbara Carnevali, Le apparenze sociali, Il Mulino, 2012.
[iii] Giochi d’espressione, in Erving Goffman, L’interazione strategica, Il Mulino, 2009.
[iv] Soluzioni assai più raffinate della mia al problema dell’eludere i tentativi di copiatura nella didattica a distanza, puntando contemporaneamente a una valutazione (un po’ più) formativa sono offerte da queste due eccellenti proposte di lavoro per storia pubblicate su Historia ludens: per la quarta superiore; per la quinta.
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