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Il tempo dell’utopia. Intervista su Fortini

 

 a cura di Alberto Bertino

Franco Fortini è un personaggio poliedrico dalla fortissima personalità che ha caratterizzato gran parte della cultura del secondo Novecento. Citato, spesso, più che conosciuto merita di essere letto e scoperto per la profondità della sua pagina e lo sferzare dei suoi aforismi. Ragionamenti, giudizi, versi e immagini esprimono vitalità civile e politica che non ha molto a che fare, e già per lui in vita, con l’appartenenza ad un partito. Per offrire un profilo culturale di un intellettuale bisogna chiedere ad un altro intellettuale che allo studio e alla formazione culturale accompagni, magari, il rapporto personale, la frequentazione amicale, oltre che la militanza politica. Ho rivolto perciò alcune domande al nostro direttore, Romano Luperini.

Alberto Bertino – Politica e letteratura: come Fortini coniugava questi ambiti? E cosa appare irreparabilmente superato nella sua visione politica se guardata dal primo ventennio di questo nuovo secolo?

Romano Luperini – Fortini si rivolge a un pubblico che possa condividere il suo punto di vista. Chiede un lettore coinvolto nella sua visione del mondo e  nelle sue stesse scelte  politiche e anzi ritiene che questa sia una condizione indispensabile per essere pienamente compreso. È stato osservato che tale convinzione, e la pratica che ne deriva, finiscono per limitare la fruizione stessa dell’opera, anche poetica: a mano a mano che determinate posizioni cessano di essere attuali, la possibilità stessa di capire e apprezzare la poesia di Fortini rischierebbe di ridursi o di azzerarsi. Fortini insomma correrebbe il rischio di apparire uno scrittore datato e illeggibile. Si possono osservare però due cose. In primo luogo Fortini di ciò è pienamente consapevole e a mano a mano che l’evoluzione dei tempi lo emargina elabora una strategia di scrittura sempre più ellittica, indiretta, allegorica, parodica e ironica sino al capolavoro ultimo di Composita solvantur. È una scrittura, la sua, che stride e irride, anche se stessa. Beninteso, pure nelle opere precedenti, il  classicismo, l’ostentata «sublime lingua borghese», è assunto in modo sbieco, senza illusioni, come riferimento politico a una integrità ormai perduta ma forse ancora possibile in un futuro per cui combattere. D’altronde proprio questa doppiezza, anche linguistica e stilistica, è peculiare della poesia e dell’arte in generale. La forma, per Fortini, è comunque attributo della classe dominante, e solo un suo uso straniato può consentirne anche una fruizione politica diversa o alternativa. L’arte, insomma, è sempre, insieme, reazionaria e progressista. Paesaggio e serpente (come nel titolo di una sua raccolta), armonia compositiva e sua lacerazione, classicità e barocco. Solo assumendo consapevolmente tale doppiezza, lo scrittore può aspirare a una fruizione politica di tipo progressista. Fortini insomma è tutt’altro che un intellettuale ingenuo. In secondo luogo, indubbiamente Dante si batte per un punto di vista politico inattuale già al suo tempo: propone un universalismo politico e quindi la prospettiva di un impero mondiale quando viveva già nell’epoca della frantumazione comunale in Italia e dei grandi stati nazionali in Europa. E tuttavia proprio questa ottica così inattuale gli consente quella grandiosa visione critica alternativa che sorregge la sua collera e il suo realismo critico. Il lettore che vive secoli dopo tali pretese universalistiche si riconosce proprio in questa ira e in questo realismo. Insomma Fortini era ancora sostanzialmente, per posizionamento politico-culturale, un uomo della Terza Internazionale (d’altronde era nato nel 1917, l’anno della rivoluzione bolscevica) che periodicamente avvertiva l’esigenza di fare il punto sulla situazione politica ed economica mondiale (sui «destini generali», dice) e trarne poi un insegnamento d’ordine militante immediato, ma questo non significa affatto che ciò limiti la sua fruizione in quanto poeta. Anzi la sua critica al presente e il suo bisogno di un patto fra le generazioni e di un collegamento fra il passato il presente e il futuro mi pare una esigenza validissima tutt’oggi, anche se i tempi dell’attualità del comunismo sembrano ormai tramontati.

 

AB – In una poesia (‘Leggendo una poesia’) Fortini scrive:«Mi è stato fatto non so quando un male./ Un’ingiustizia strana e indecifrabile/ mi ha reso stolto e forte per sempre». Qual è, a tuo parere, il ‘male’ subito da Fortini? E cosa significa tale ‘stultitia’ che è ‘forza’?

RL – Il male subito alla nascita da Fortini è stato probabilmente quello di nascere da padre ebreo negli anni del fascismo e di voler essere anzitutto un poeta e un intellettuale. Quel senso di paura e di esclusione, quel ritrarsi in se stesso per poi improvvisamente colpire con una frase fulminante (i suoi terribili epigrammi!), quel suo sentirsi solo, isolato, vittima del mondo e tuttavia pronto a colpire con le parole chi lo condanna al ruolo di vittima nascono da lì, da un isolamento storico che lo ha reso da subito un diverso. Da subito, cioè, Fortini ha vissuto il destino di esclusione che caratterizza la figura dell’intellettuale nel Novecento. Questa distorsione iniziale lo ha reso stolto e forte per sempre. Stolto come sono stolti gli inetti, gli esclusi, i diversi che, in quanto tali, sono inadatti a vivere nella società dell’efficienza e del denaro, ma proprio per questo forte. Ritorna qui la contraddizione tipica dell’arte e della poesia, la ambiguità connessa alla sua stessa natura. Nascere ebreo negli anni del fascismo e delle leggi razziali ed essere poeta negli anni del neocapitalismo hanno impresso un marchio ulteriore a una condizione di alterità ed esclusione che riguarda il destino dell’artista e dell’intellettuale nella società moderna. Fortini ha vissuto sino in fondo questa condizione e ciò gli ha permesso di essere forte, di non vacillare nella difesa dei propri valori, di diventare un poeta entrato nel canone dei maggiori del Novecento e uno degli ultimi grandi intellettuali vissuti in Italia nel corso del Novecento: non solo poeta dunque, ma saggista, traduttore, critico letterario, uomo politico, uomo di cultura capace di alternare e fondere approccio poetico, estetico, filosofico, sociologico, senza chiudersi in una specializzazione, ma unendo fra loro campi diversi e lontani e attraversandoli con eguale  tensione. Fortini, come Pasolini, riesce a essere ancora un intellettuale complessivo in un’epoca in cui gli intellettuali stavano scomparendo e al loro posto ormai si diffondevano gli esperti, specialisti di una disciplina e in essa reclusi, tecnici di un sapere ormai parcellizzato e di un ruolo ormai subalterno.

AB – La critica secondo Fortini, e la critica letteraria oggi.

RL – Come Pasolini, anche Fortini è notevolissimo critico letterario. Per lui la critica letteraria è diversa dallo studio della letteratura. La critica non è una attività specialistica, ma è inseparabile dalla forma saggio. Per dirla con le sue parole, la critica non è un discorso rigoroso basato su un codice scientifico, ma una forma saggistica che, a proposito di un testo letterario, discorre dei rapporti reali fra gli uomini, la società e la storia. Svolge attività critica non lo studioso specialista della letteratura, ma l’intellettuale che svolge una determinata funzione sociale e civile. A Fortini non sfugge affatto che l’evoluzione dei tempi induce chi si occupa di letteratura a diventare un professionista, un tecnico della letteratura. La fine della figura storica dell’intellettuale porta con sé, dunque, la fine della forma saggio e dunque della critica letteraria e la trasformazione di questa in studio  della letteratura. Lo stesso Fortini sembra costretto, passando dai Saggi italiani del 1974 a Nuovi saggi italiani del 1987, ad accettare modalità tipiche dello studio accademico. D’altronde, scrive nella introduzione al volume del 1987, l’intellettuale ormai è così integrato nella organizzazione della cultura che i suoi poteri sono ormai «derisori e limitatissimi». E in effetti oggi la critica letteraria tende a non esistere più, sostituita dallo studio accademico o dalla attività di intrattenimento giornalistico, il primo chiuso nella autoreferenzialità della cultura universitaria e ormai incapace di cercare un interlocutore nella società civile, la seconda rivolta al facile successo di pubblico. Se per Fortini la critica non può che essere «militante», oggi lo spazio per qualsiasi tipo di militanza sembra, se non del tutto venuto meno, certo confinato nella marginalità e nella periferia del sistema.  Di qui la tendenza in tutto il mondo occidentale (e più negli Stati Uniti che in Europa) a cercare canali di trasmissione e di militanza diversi, meno controllati dal potere politico ed economico, come internet, le riviste online, i blog.

AB – Mengaldo afferma che Fortini è soprattutto poeta. Condividi questo parere? E Fortini lo condivideva?

RL – Fortini condivideva senz’altro questa convinzione. E che a dichiararlo sia Mengaldo, che pure ha inserito Fortini nel novero dei maggiori critici del Novecento, mi pare significativo. Negli ultimi quindici anni di vita, dall’inizio degli anni ottanta alla morte nel 1994, è evidente in Fortini la tendenza a presentarsi soprattutto come poeta. Avvertiva chiaramente che lo spazio complessivo frequentato sino allora come intellettuale non era più praticabile. A mano a mano che il suo discorso diveniva sempre più ellittico e ironico, come se un ghigno ne distorcesse l’allure apparentemente ancora classica, gli si confacevano sempre di più   i modi indiretti e allusivi della poesia. E in effetti credo che gli ultimi suoi due libri poetici, Paesaggio con serpente e Composita solvantur, si collochino ai vertici della poesia novecentesca.

AB – È possibile oggi una fruizione non strettamente specialistica o accademica di Fortini?  Fortini può parlare ancora oggi al lettore comune?

RL – Ho già in parte risposto a proposito della prima domanda di questa intervista. Ma qualcosa posso aggiungere. Il lettore comune di poesia non esiste più. Un tempo, sino alla fine degli anni Settanta, la saggistica e la poesia avevano ancora un pubblico. Oggi, nei licei e anche all’università, nessuno conosce il nome di un poeta italiano vivente. La poesia non ha più un pubblico. Mille copie di tiratura per un libro di poesia sembra ormai un miraggio. E tuttavia penso che ogni persona che sperimenti l’esilio e l’isolamento, e ogni giovane che abbia una vocazione intellettuale, possano oggi riconoscersi nel discorso di Fortini. L’ultimo Fortini vedeva nel Sud del mondo, nella realtà dell’emigrazione e della marginalità, una ragione non di timore ma di speranza. Anche i giovani, e soprattutto quelli costretti ad andare all’estero in cerca di lavoro (non solo chi viene dall’Africa ma anche chi, dall’Italia, è costretto a emigrare nel Nord Europa e in America), sono costretti a vivere fra le frontiere e a svolgere di continuo un lavoro di mediazione, di traduzione e di trasferimento fra mondi diversi. Ecco, credo che siano loro gli interlocutori privilegiati di Fortini. Il suo comunismo terzinternazionalista, che lo induceva a preferire Lukàcs a Benjamin, non era un dogma (né mai è stato, per esempio, adesione o consenso all’Unione sovietica o alle poetiche realiste dello zdanovismo), e oggi ci appare soprattutto il segno di una necessità critica e di una vocazione al mutamento e alla trasformazione. Non per nulla passano gli anni e la sua figura non si annebbia, anzi sembra acquistare sempre più spazio e valore. Il tempo di Fortini, quello a cui aspirava, non era il presente, o un successo al presente, ma il futuro. Solo il futuro poteva inverare la sua utopia.

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